T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 01-03-2011, n. 588 Medici e chirurghi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il sig. A.C., odierno ricorrente, svolge l’attività di osteopata in una struttura situata nel Comune di Cerro Maggiore.

Con il provvedimento impugnato, l’Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Milano n. 1 (d’ora innanzi anche "ASL’) ha diffidato il medesimo dal continuare a svolgere la predetta attività.

Avverso tale provvedimento è diretto il ricorso in esame.

Si è costituita in giudizio l’Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Milano n. 1, per opporsi all’accoglimento del gravame.

La Sezione, con ordinanza n. 191 del 5 febbraio 2009 ha accolto l’istanza di sospensione cautelare degli effetti del provvedimento impugnato.

In prossimità dell’udienza di discussione del merito le parti hanno depositato memorie, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Tenutasi la pubblica udienza in data 11 gennaio 2011, la causa è stata trattenuta in decisione.

Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato in quanto meritevole di accoglimento il primo mezzo di gravame avente carattere assorbente, con il quale si censura la violazione degli artt. 35, comma 1, e 41 della Costituzione, nonché dell’art. 2229 del codice civile.

Si evidenzia in particolare che l’ASL ha emanato il provvedimento impugnato presupponendo erroneamente che per svolgere l’attività di osteopata sia necessario il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione medica. Al contrario, a dire del ricorrente, tale titolo non sarebbe affatto necessario, non essendovi alcuna disposizione normativa di carattere primario che lo imponga; ne conseguirebbe che l’autorità amministrativa non potrebbe impedirgli – in quanto privo di abilitazione – di continuare ad esercitare la suddetta attività, pena la violazione delle disposizioni invocate che tutelano il diritto al lavoro e la libertà di iniziativa economica.

La difesa di parte pubblica obietta che il provvedimento impugnato non ha a riferimento l’attività dell’osteopata astrattamente intesa, ma l’attività concreta esercitata dal ricorrente il quale, lungi dall’essersi limitato ad effettuare interventi propri di questa pratica, avrebbe esperito attività proprie della scienza medica, per l’esercizio delle quali non vi sono dubbi circa la necessità del possesso dell’abilitazione professionale.

Sennonché la tesi dell’Amministrazione è palesemente smentita dal tenore letterale del provvedimento che essa stessa ha emanato, laddove si afferma esplicitamente che la diffida ad interrompere l’attività di osteopata rivolta al ricorrente è stata disposta in quanto si è ritenuto che la pratica dell’osteopatia è "…complementare all’esercizio della professione medica" e che per tale ragione "è da considerarsi innovativa e/o alternativa, come ricavato nel parere del Consiglio Superiore di Sanità del 22 gennaio 1997, e può essere eseguita eventualmente solo da chi abbia l’abilitazione all’esercizio della medicina…".

E’ dunque di palmare evidenza come l’ASL non abbia contestato all’interessato di svolgere nel concreto attività medica, ma abbia ritenuto che egli non potesse svolgere la pratica dell’osteopatia in quanto privo di abilitazione professionale.

Questa motivazione tuttavia non tiene conto che l’osteopatia non presenta i caratteri propri dell’attività medica.

Appare invero condivisibile la prospettazione di parte ricorrente secondo la quale la professione medica si estrinseca nell’individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura e nel somministrare i rimedi (cfr. Cassazione penale, sez. II, 09 febbraio 1995, n. 5838); e che tali elementi non sono riscontrabili nella pratica dell’osteopatia la quale consiste invece in una disciplina terapeutica incentrata sulla manipolazione dell’apparato muscoloscheletrico al fine di trattare patologie o disfunzioni ad esso pertinenti.

Va peraltro osservato che nello stesso parere del Ministero della Salute del 30 maggio 2002 (invocato da parte resistente), si afferma esplicitamente che l’attività di osteopata non è ad oggi regolamentata in Italia, che essa non afferisce ad alcuna autonoma categoria delle professioni sanitarie e che non esiste nel nostro Paese un albo o registro per l’iscrizione degli eventuali soggetti autorizzati ad esercitarla.

Si ricava da questo parere che anche il Ministero della Salute mostra di ritenere che la pratica dell’osteopatia non è riconducibile alla professione medica e che, in ragione della mancata istituzione di un albo degli abilitati, non sussiste alcun titolo abilitativo ad essa afferente che costituisca presupposto necessario per il suo esercizio.

In tale quadro risulta del tutto evidente l’illegittimità del provvedimento impugnato che, in contrasto con quanto sopra esposto, afferma che, per l’esercizio dell’attività di osteopata, è necessario il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione medica.

Il motivo di ricorso in esame è quindi fondato e, per questa ragione, il provvedimento impugnato deve essere annullato.

Occorre ora passare all’esame della domanda risarcitoria.

In proposito va premesso che l’accertata illegittimità del provvedimento amministrativo non costituisce di per sé elemento sufficiente per la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento del danno.

La responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, per lesione dell’interesse legittimo, non può prescindere invero dalla sussistenza degli elementi previsti dall’art. 2043 del codice civile, e quindi non può prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo costituito dal carattere colposo o doloso del comportamento tenuto dall’agente (Cons. Stato, Sez. VI, 14 settembre 2009, n. 5323). Il privato danneggiato può invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile; spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; T.A.R. Lombardia Milano, sez. I, 18 dicembre 2010, n. 7591).

Ciò premesso, il Collegio ritiene condivisibile le prospettazione di parte resistente, secondo la quale il comportamento tenuto dall’Amministrazione intimata non sarebbe assistito dal requisito della colpa.

Invero, va in primo luogo osservato che, contrariamente da quanto riferito da parte ricorrente, non sono affatto copiose in giurisprudenza le pronunce che affermano il principio secondo il quale l’attività di osteopata non è riconducibile alla professione medica.

In secondo luogo, si deve evidenziare che il discrimine fra le due discipline – che può cogliersi solo attraverso l’apprezzamento di dati tecnici di non facile valutazione – non è così netto come vorrebbe invece far credere parte ricorrente: l’osteopatia, infatti, è comunque una pratica terapeutica e, per tale ragione, presenta diversi elementi comuni con quelli propri della scienza medica; pertanto, anche se non condivisibili, non del tutto implausibili appaiono le conclusioni cui è giunta l’Amministrazione procedente la quale, come visto, ha considerato le due discipline del tutto assimilabili.

Infine va osservato che nel succitato parere espresso dal Ministero della Salute si sostiene che, nonostante non sia previsto alcun albo per l’iscrizione degli esercenti l’attività in argomento, è comunque necessario, per il suo esercizio, il possesso della laurea in medicina e chirurgia.

Tale affermazione, seppure non condivisibile in quanto non fondata su alcuna disposizione normativa (e quindi del tutto apodittica), ha sicuramente innestato nel sistema un ulteriore elemento di confusione (non si richiede l’iscrizione all’albo, che non esiste, ma il possesso della laurea), ed ha per questo motivo contribuito ad indurre in errore l’Amministrazione procedente.

Per tali ragioni l’errore commesso dall’ASL di Milano nel caso concreto può considerarsi scusabile; di conseguenza la domanda risarcitoria va respinta.

La soccombenza reciproca induce il Collegio a disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Respinge la domanda di risarcimento del danno.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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