Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-02-2011) 08-03-2011, n. 9098 Sentenze e decreti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la decisione in epigrafe la Corte d’appello di Caltanissetta, giudice dell’esecuzione, rigettava – per quanto interessa in questa sede – l’istanza avanzata ai sensi dell’art. 669 c.p.p. da S. G., con la quale si chiedeva che venisse dichiarato che le sentenze di condanna pronunziate nei suoi confronti dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta in data 23.7.2004, irrevocabile il 6.10.2005, e dalla Corte d’appello di Caltanissetta in data 12.4.2007, irrevocabile il 21.10.2009, concernevano il medesimo fatto.

A ragione del rigetto la Corte d’appello osservava che le sentenze si riferivano entrambe al reato di cui all’art. 416-bis c.p.. La prima condanna era però riferita alla condotta di partecipazione al sodalizio mafioso che andava da epoca imprecisata sino alla sentenza di primo grado, pronunziata il giorno 12.6.2002; la seconda condanna aveva invece ad oggetto la condotta di partecipazione (al medesimo sodalizio) nel periodo successivo, da luglio 2002 e il 31.12.2003. La non coincidenza temporale delle condotte bastava ad escludere che si trattasse nella sostanza del medesimo fatto. L’intervenuta sentenza di condanna in relazione al primo frammento di condotta interrompeva quindi formalmente la permanenza, rendendo contestabile e attribuibile, a titolo di autonomo reato in continuazione, il prosieguo dell’attività delittuosa.

2. Ha proposto ricorso il condannato a mezzo del difensore avvocato Franceso Bellino, chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata in relazione al diniego del riconoscimento del bis in idem.

Premesse natura ed elementi costitutivi del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa – sottolineando in specie che la permanente adesione può cessare soltanto con lo scioglimento della consorteria (nel caso di specie non avvenuta) o con il volontario recesso del partecipe, positivamente accertato -afferma che non v’era in atti alcuna prova che il ricorrente avesse deciso d’interrompere il suo vincolo con l’associazione criminale nel giugno 2002 e che un mese dopo l’avesse ripreso, nè poteva costituire un ostacolo al mantenimento dell’adesione la carcerazione patita. La successiva condanna dimostrava d’altronde che la condotta di partecipazione era la medesima e costituiva un unico fatto permanente per il quale il S. era stato condannato due volte in violazione dell’art. 649 c.p.p..

Nè, prosegue, poteva condividersi l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui la sentenza di condanna delimitava il divieto di secondo giudizio alla porzione di condotta in quella "delineata", giacchè in presenza di reati permanenti sarebbe illogico e ingiusto consentire di "cadenzare" le contestazioni e di instaurare tanti procedimenti quanti, per le più svariate ragioni d’opportunità, prescelga l’accusa, artificiosamente frammentando l’unicità della condotta, seppure con il correttivo – non pienamente reintegratolo però – della continuazione.
Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che il ricorso è manifestamente infondato e perciò inammissibile.

La nozione di medesimo fatto attribuito alla stessa persona, rilevante ai fini del divieto di bis in idem e del rimedio, nel caso di sua violazione, istituito dall’art. 669 c.p.p. (evocato dal ricorrente), è ancorata alla corrispondenza storico-naturalistica delle fattispecie concrete poste a raffronto, considerate in tutti i loro elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e delimitate dalle loro connotazioni temporali oltre che, eventualmente, di luogo (S.U. n. 34655 del 28/06/2005, Donati).

Sicchè se può non bastare ad escludere l’identità del fatto la diversa qualificazione giuridica data ad uno stesso comportamento, sono in ogni caso e per converso naturalisticamente e storicamente diversi i fatti che, seppure realizzati mediante condotte analoghe costituenti identico reato, sono state ripetute o sono proseguite in tempi diversi.

Appurato che le due sentenze di condanna si riferivano a segmenti di condotta assolutamente non sovrapponibili, in quanto l’uno protrattosi da epoca imprecisata sino alla prima decade di giugno 2002, il secondo realizzato a partire da luglio 2002 (e sino alla fine del 2003), la tesi difensiva, che le due sentenze concernevano la medesima condotta, appare all’evidenza priva di fondamento.

2. Nè può sostenersi – come vorrebbe il ricorrente – che, condannato l’imputato per il delitto di partecipazione mafiosa in relazione alla condotta tenuta per un determinato periodo di tempo, l’accertata realizzazione in epoca precedente o successiva a quella coperta da giudicato di un’ulteriore analoga condotta, perfetta in tutti gli elementi necessari alla integrazione del reato, non può avere autonomo rilievo penale perchè il reato associativo è reato permanente.

La tesi confonde la fattispecie astratta con quella concreta, individuata dalla pronunzia giudiziale che rende il fatto storico oggetto di contestazione giuridicamente rilevante per le conseguenze che la norma incriminatrice ad esso connette. In tema di reati permanenti, commissivi od omissivi, l’applicazione della norma penale al caso concreto determina dunque – con o senza la volontà del soggetto agente e che vi sia stata o non un interruzione materiale – la delimitazione giuridica dell’azione o dell’omissione punibile che viene a coincidere con quella punita. Così che, irrogata la punizione per un fatto costituente reato delimitato nel tempo, è assurdo invocare per ogni condotta ulteriore della medesima specie il principio ne bis in idem, che – come detto – postula identità del fatto nel tempo e si risolverebbe, nell’accezione voluta dal ricorrente, in una licenza a continuare a delinquere.

3. Del tutto prive di fondamento sono quindi le osservazioni sul possibile arbitrio degli organi inquirenti nella frammentazione delle condotte e sulle conseguenze inique che tale frammentazione potrebbe avere in punto di trattamento sanzionatorio. Il S. era stato tratto a giudizio per una determinata condotta e dopo la condanna ha continua a tenerla, così liberamente e consapevolmente continuando a delinquere; delle conseguenze di tale sua azione è perciò unico responsabile. Ma anche a volere considerare l’ipotesi astratta di condotte non coperte da giudicato che riguardino periodi pregressi, nessuna ingiusta lesione da arbitraria frammentazione dell’imputazione ad opera dell’accusa è ipotizzabile se nessuna prova dei fatti precedenti emergeva dagli atti del procedimento definito per primo; mentre se le prove di tali condotte erano agli atti o potevano esservi portate mediante il contributo dell’imputato, lo stesso aveva in ogni caso la facoltà di chiedere l’estensione al pregresso della contestazione.

4. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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