Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, Sentenza del 7 maggio 2010 n. 17686. Sulla compatibilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. con il dolo d’impeto.

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza emessa il 25.11.2008, la corte di assise di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza emessa il 17.12.2007 dal gup del tribunale della stessa sede, nei confronti di AAA, ha condannato quest’ultima al pagamento di una provvisionale, in favore di ciascuna parte civile, dell’importo di € 20.000. Ha confermato la condanna dell’imputata alla pena di 16 anni di reclusione, perché ritenuta responsabile dell’omicidio preterintenzionale di BBB.
Ha rigettato l’appello proposto dal pubblico ministero diretto alla modifica della qualificazione del fatto come omicidio volontario.
Sulla base delle dichiarazioni dei testi degli accertamenti medico-legali, la corte di merito ha confermato la sequenza di fatti ricostruita dal giudice di primo grado: il giorno 26.4.2007, verso le ore 14,30, all’interno di un vagone della metropolitana di Roma e della stazione della fermata Termini, all’esito di un diverbio tra le due donne, fatto di involontarie spinte (da parte della AAA) e parole sgradevoli (da parte della BBB) l’imputata colpì, con la punta dell’ombrello, da lei impugnato, il volto della BBB, cagionandone la morte, avvenuta il giorno successivo, alle ore 17,40. La consulenza tecnica ha evidenziato come “la causa della morte sia riconducibile a insufficienza cardiocircolatoria terminale per emorragia subaracnoidea da lesione sub totale parietale del topo dell’arteria basilare, per lesione penetrante orbitaria endocranica.
I mezzi produttori della morte sono rappresentati da punta impropria compatibile con l’ombrello in sequestro”.
Tenendo conto della gravità delle lesioni accertate e della parte del corpo attinto dalla punta dell’ombrello, i giudici di merito hanno ritenuto provate la precisa rappresentazione e la chiara volontà della AAA di ferire la BBB, ma, per il tipo di mezzo usato (un normale ombrello con la punta di legno smussata) non hanno ritenuto la sussistenza dell’animus necandi, nemmeno nella forma del dolo eventuale. Secondo la sentenza di condanna, quindi, il fatto in esame è da qualificare come omicidio preterintenzionale, in quanto La AAA, reagendo alle sgradevoli parole i della BBB, l’ha intenzionalmente ferita e colpendola, ne ha provocato la morte come conseguenza non voluta, nemmeno nella forma del dolo eventuale, della propria condotta. Secondo i giudici, il fatto omicidiario, aggravato dai futili motivi, giustifica l’applicazione del massimo della pena.
Il difensore della AAA ha presentato ricorso per i seguenti motivi, integrati da altri contenuti in un atto, a firma della AAA, depositato il 13.1.2010:
1. violazione della legge penale, mancanza e manifesta illogicità della motivazione, travisamento del fatto, in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p.
Secondo la ricorrente, la corte di merito ha erroneamente ritenuto la sussistenza dell’aggravante dei futili motivi per le seguenti ragioni: per consolidata giurisprudenza, l’aggravante ricorre qualora sussista un’enorme sproporzione tra il motivo (l’antecedente psichico della condotta, ossia l’impulso che ha portato il soggetto a delinquere) e l’azione delittuosa; inoltre, per la sua valutazione occorre tener conto non solo della coscienza collettiva, ma anche di quella, particolare, dell’ambiente in cui il reo vive ed opera e delle connotazioni culturali del soggetto giudicato (Cass. 25.10.1974, Greco, Cass. pen. 1976,310; 17.12.1998. Casile, CED 213378); l’azione delittuosa deve poi presentarsi come una scusa, come mero pretesto, come occasione per dare sfogo all’impulso criminale dell’agente.
Innanzitutto, il vaglio sul motivo va fatto “rispetto alla gravità del reato” e nel caso in esame l’azione commessa, a cui rapportare il movente deve essere non l’omicidio, ma l’atto diretto a provocare la lesione.
Avrebbe dovuto considerare la circostanza che l’imputata ai primi insulti non ha reagito, è stata seguita dalla BBB e solo dopo esser stata ancora apostrofata e spinta dalla donna, l’ha colpita. La corte di merito ha taciuto su tutto e anzi non ha fatto riferimento alla rilevante risultanza probatoria relativa alla spinta, messa in luce dalla sentenza di primo grado (a pag. 5), né ha dato conto in motivazione delle ragioni per le quali ha inteso disattendere l’emergenza probatoria della spinta. La motivazione non tiene inoltre conto delle seguenti circostanze
a. contesto ambientale in cui è nato il dissidio tra le due giovani donne, cioè la calca all’interno del vagone della metropolitana,
b. personalità dell’imputata, ambiente sociale di provenienza e livello culturale dell’imputata, ex prostituta
c. personalità della BBB -tossicodipendente, con specifici episodi di violenza alle spalle, sulla base delle testimonianze di alcuni operatori che l’hanno avuto in cura nel centro per tossicodipendenti dove era ancora sotto trattamento. (p. 59 e anche prima) d. occasionalità che ha determinato il dissidio.
Quindi la sentenza della corte territoriale è da censurare non solo per l’assenza di motivazione, ma anche per il vizio di travisamento del fatto, inteso quale contrasto tra le risultanze probatorie e i risultati che il giudice di merito ha tratto dall’assunzione della prova.
2. violazione della legge penale, manifesta illogicità e mancanza di motivazione, in ordine alla ritenuta esclusione della circostanza attenuante della provocazione.
La corte di merito ha ritenuto che l’aggravante del motivo futile esclude l’attenuante della provocazione, in quanto incompatibile. Eppure il giudice ha ritenuto accertato il fatto ingiusto posto in essere dalla BBB, cioè gli insulti, e ha omesso ingiustificatamente di tener conto della risultanza processuale della spinta. In presenza degli elementi idonei a rendere configurabile la circostanza di cui al n. 2 dell’art. 62 c.p., il ricorrente ritiene che il mancato riconoscimento dell’attenuante, oltre che illogicamente motivato, costituisce inosservanza della legge penale. Secondo un condiviso orientamento interpretativo della S.C., l’aggravante dei futili motivi è incompatibile con la provocazione, in quanto, prevedendo quest’ultima la reazione ad un fatto ingiusto altrui, la provata ingiustizia dello stesso esclude di per sé che la reazione possa essere valutata come futile.
3. Violazione di legge, mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in riferimento al diniego delle attenuanti generiche.
Nella motivazione, manca l’indicazione degli elementi di fatto ritenuti gravi al punto di negare la concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Inoltre la motivazione è evidentemente illogica e contraria al dettato normativo laddove pone a fondamento del diniego delle circostanze attenuanti generiche il riconoscimento dell’aggravante dei motivi futili: la medesima condotta è cosi oggetto di doppia valutazione. Merita altra censura laddove sostiene che l’incensuratezza e la giovane età dell’imputata non possono essere considerate giusta causa per concedere le attenuanti generiche, senza indicare le ragioni a sostegno di tale decisione. La sentenza impugnata non ha dato rilievo alle considerazioni contenute nei motivi di appello che mettevano in luce come prima e dopo il fatto lesivo l’imputata ha tenuto un comportamento che dimostra la sua natura non violenta.
Ancora sul trattamento sanzionatorio, la ricorrente critica la sentenza della corte di appello, laddove nega una diminuzione della punizione, in applicazione del principio, secondo cui lo Stato forte non può permettersi di essere clemente, in quanto la clemenza, nell’ambiente della criminalità, non è considerata una prova di forza, ma al contrario, solo una debolezza che nessuna società civile si può permettere. La critica della ricorrente si fonda sull’assenza di un elemento probatorio dimostrativo dell’inserimento della AAA in qualsivoglia ambito criminale e sulla inesistenza di elementi concreti dimostrativi che nel passato abbia tenuto comportamenti che ne rivelino un’indole malvagia nel reato, refrattaria alle regole.
Altra giustificazione del mantenimento inalterato della pena è ravvisata dalla corte nella condotta della ricorrente susseguente al fatto: “Successivamente ha cercato di espatriare per non dover espiare il reato commesso per cui non solo non ha fornito prova di resipiscenza, ma addirittura voleva impedire che la giustizia facesse il suo corso nei suoi confronti. Quando è stata arrestata si trovava in camera, in pigiama, con assoluta tranquillità senza mostrare alcun segno di pentimento ma agitandosi solo perché il suo piano di fuga era fallito”.
Quanto a questo piano di fuga, la ricorrente lo giudica di poca consistenza, in quanto la sua ricostruzione dimostra che era preordinato in maniera superficiale ed era già tramontato molto prima del suo arresto.
Quanto al suo atteggiamento di tranquillità, esso è smentito dal processo verbale di perquisizione, in cui si rileva l’elevato stato di tensione della donna, caratterizzato da un pianto diritto e dal tremore di tutto il corpo.
4. Mancanza di motivazione in ordine all’applicazione del massimo della pena e del massimo aumento per l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p.
La corte di merito ha giustificato la severità della pena con il riferimento alla forza impiegata e alla parte vitale del corpo attinta. Secondo la ricorrente manca l’indicazione esplicita e dettagliata dei criteri indicati dall’art. 133 c.p., non essendo sufficiente un generico ed apodittico riferimento alla gravità del fatto, senza alcuna indicazione delle ragioni per cui è ritenuta questa gravità.
Quanto poi alla decisione di irrogare il massimo aumento per l’aggravante contestata, la sentenza richiama “L’enorme sproporzione tra il redarguire della BBB e la feroce e determinata risposta della AAA”. Quindi si ripete la motivazione relativa alla sussistenza dell’aggravante, ma manca la motivazione specifica sulla determinazione dell’aumento e quindi della pena; manca qualsiasi valutazione sulla capacità a delinquere e sulla generale personalità della AAA.
La completa ricostruzione del fatto – in cui rilievo fondamentale va dato agli insulti e alla spinta provenienti dalla BBB – conducono a inquadrare l’azione dell’imputata all’interno della categoria del dolo d’impeto. Questo è implicitamente riconosciuto dal gup, laddove (p. l1) respinge la richiesta dal p.m. di qualificare il fatto come animato da dolo omicida a titolo di dolo eventuale, sulla base della ricostruzione del breve lasso di tempo tra la determinazione ad agire e l’azione. Nel dolo d’impeto è consequenziale che la condotta della AAA si sia esplicata in forma di volizione minore e di evanescente intensità.
Questo aspetto del breve arco di tempo in cui si sono svolte azioni e reazioni è stato del tutto trascurato dalla corte di appello, nonostante l’esplicito richiamo contenuto nei motivi dell’impugnazione.
Sul riconoscimento del dolo d’impeto e della minore intensità del dolo incide l’accertato strumento di offesa, l’ombrello. La corte ha omesso un’approfondita valutazione del mezzo utilizzato e delle prospettive che essa comporta in termini di accertamento del grado di dolosità. Né risulta accertata dalle sentenze dei giudici di merito la piena corrispondenza tra il punto mirato dall’imputata e quello effettivamente attinto. Nella sentenza di primo grado si fa riferimento come punto mirato alla parte alta del corpo. La corte afferma che l’imputata, nonostante che la compagna cercasse di trattenerla (e quindi limitandone la libertà di movimento), reagì in modo violento, usando l’ombrello, “come una spada”, mirando al viso (p. 5), precisando che la AAA “ha commesso l’atto con fredda determinazione e forza con lo scopo di colpire al volto”. La corte ha rilevato che il primo giudice ha esaminato con cura gli elementi e la destinazione del colpo al viso e quindi alla testa, “sede del cervello, organo principe e sovrano della vita” (p. 6).
Secondo la ricorrente questa equazione viso-testa-cervello non è logicamente consequenziale e si rivela un sillogismo empirico apodittico, in quanto apparato facciale e apparato cerebrale, pur insistendo nella stessa regione del corpo umano, sono diversi quanto a struttura e localizzazione: la consapevolezza di attingere l’uno non implica necessariamente la previsione di offendere l’altro.
Queste carenza motivazionale sul dolo e sui reali connotati dell’elemento psicologico costituisce una violazione dell’art. 192 co. 2 c.p.p., cioè della struttura legale della motivazione nella dimensione molecolare.
Posto che nel trattamento sanzionatorio è stato richiamata dai giudici la gravità del fatto, affrontata con riguardo all’intensità del dolo, manca, alla luce di queste considerazioni, la prova di questa gravità

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via di premessa, va precisato che le sentenze di primo e di secondo grado, avendo seguito un uniforme apparato logico argomentativo, costituiscono un risultato organico e inscindibile. Pertanto la presente analisi parte dal fatto e dalla sua qualificazione giuridica che risultano accertati, in maniera incontestabile, nel complessivo giudizio di merito, con particolare riguardo all’istruttoria svolta in sede di giudizio abbreviato, da cui emerge il quadro storico e tecnico su cui si sono confrontati accusa e difesa
1. Il motivo di dissenso formulato nel ricorso sulla sussistenza dell’aggravante del futile motivo è del tutto infondato. L’accertamento della sequenza dei fatti è stato compiuto in stretta e trasparente connessione con le risultanze processuali ed è stato esposto, in sede di merito, con compatto apparato logico argomentativo, assolutamente insuscettibile di censure sul piano della sua razionale linearità. La ricostruzione della condotta dell’imputata giustifica ampiamente le conclusioni tecniche che sono state tratte dai giudici di merito: il fatto è gemmato da un contrasto che normalmente sorge tra gli utenti dei servizi di trasporto pubblico, compressi, nelle ore di maggiore affluenza, in vagoni superaffollati, nei quali non desiderati contatti fisici e irritanti urti tra i corpi si susseguono inevitabilmente. Manifestazioni di malumore, proteste, aggressività verbale sono all’ordine del giorno per spinte e controspinte normalmente involontarie. In questo piccolo episodio di sgradita quotidianità si è innestata – secondo i giudici di merito – un’azione di straordinaria violenza della Doina, la cui aggressività, in reazione a parole di protesta e di invettiva, è traboccata in una condotta imprevedibile, inusuale, estranea agli schemi di azione/reazione ragionevolmente concepiti e accettati dai consociati. L’imputata è andata ben al di là delle civilmente accettabili manifestazioni di resistenza e di autotutela rispetto a comportamenti altrui, di lieve entità, vissuti come ingiusti. Il modo con cui la AAA ha risolto una controversia fatta di piccole spinte e di smodate reazioni verbali giustifica una severa reazione punitiva dello Stato, non solo per la lesione della sacra incolumità fisica della contendente, ma anche per la macroscopica sproporzione tra stimolo esterno, fatto di parole e di malgarbo, e immediata risposta, fatta di violenza fisica, di accertata intensità elevata. Sotto quest’ultimo profilo, i giudici di merito hanno ricostruito, con analisi rigorosa fondata su incontestati accertamenti medico-legali, la fragilità della parte del corpo presa di mira e aggredita dall’imputata (il volto, notoriamente vulnerabile all’impatto violento) e la forza impressa all’ombrello impugnato, che ha trapassato la palpebra della BBB, le lamine ossee posteriori all’orbita, (che sono sottili) e ha leso la sella turcica (di natura robusta) determinando la recisione dell’arteria basilare, posta al centro della scatola cranica. E’pertanto pienamente fondata la decisione di ritenere sussistente l’aggravante contestata dei futili motivi.
2. E’altrettanto fondata l’affermazione della logica insussistenza della circostanza attenuante della provocazione Secondo un unanime orientamento interpretativo, l’aggravante dei futili motivi è incompatibile con la provocazione, non potendo coesistere stati d’animo contrastanti, dei quali l’uno esclude l’ingiustizia dell’azione dell’antagonista (sez. I, n. 24683 del 22.5.08, rv 240906; id, n. 3600 del 20.12.07, rv 238368; id, n. 7115 del 31.1.86, rv 73345). Correttamente, è stata riconosciuta esclusiva sussistenza della sproporzione tra movente e azione criminosa, rivelatrice di un istinto criminale più spiccato, meritevole di più severa punizione.
3. Ugualmente condivisibile è il convincimento sulla compatibilità dell’aggravante con il dolo d’impeto, riconosciuto dal giudice di primo grado e non smentito dalla corte di appello.
La volontà sottesa al gesto di così elevata violenza è stata tecnicamente valutata come dolo d’impeto, rientrante in una categoria di creazione teorica e giurisprudenziale, caratterizzante la trasgressiva risposta immediata o quasi immediata, a uno stimolo esterno. La sua compatibilità con l’aggravante sopra esaminata è affermata dal consolidato e condivisibile orientamento interpretativo (sez. I, n. 24894 del 28.5.09, rv 243804), secondo cui, nel breve intervallo tra deliberazione ed esecuzione dell’azione criminosa, è razionalmente concepibile che l’agente, percepito il lieve stimolo, si sia fatto guidare dal impulso lesivo, senza che sia stata necessaria un’interni meditazione o una composta comparazione tra condotte alternative. La AAA percepite le smodata espressioni, si è fatta guidare da un impulso di aggressione fisica, mirata al volto della vittima senza che sia stata necessaria una cadenza meditata tra decisione ed esecuzione dell’azione lesiva sproporzionatamente forte.
E’del tutto infondata l’argomentazione della difesa, secondo cui il riconoscimento del dolo d’impeto mitiga l’intensità dell’elemento psicologico e, conseguentemente, la gravità del fatto, ex art. 133 c.p. E’infatti del tutto arbitraria l’affermazione di un’equazione dolo d’impeto- dolo tenue: come già anticipato, la sola caratteristica di questa categoria è la ravvicinata scansione deliberazione/esecuzione dell’azione criminosa e questa rapida sequenza è razionalmente compatibile con una precisa previsione e un’intensa volontà del fatto lesivo.
L’elemento psicologico, in tutta la sua forte consistenza, è stato desunto dai giudici dai seguenti fatti: a) la AAA ha impugnato e brandito l’ombrello nell’unico modo in cui poteva infliggere una sicura e grave lesione; b) non l’ha utilizzato in altro modo (ed esempio come un bastone), per colpire parti meno vulnerabili del corpo; c) ha colpito facendone penetrare la punta, (di 10 centimetri) per circa 7 centimetri nell’angolo dell’occhio della BBB, facendola immediatamente cadere per terra, mentre il sangue fuoriusciva copiosamente dalla ferita; d) ha confermato che questo era l’evento previsto e voluto, in quanto, dopo aver percepito la grave lesione apportata, senza perplessità e senza indecisione, ha gettato l’ombrello e si è allontanata, per ricomparire nello scenario di questa vicenda solo a seguito dell’intervento coercitivo dello Stato.
E’razionalmente inammissibile invocare un dolo di ridotta intensità, alla luce delle risultanze processuali assolutamente incensurabili in sede di giudizio di legittimità.
4. Alla luce di questa ricostruzione storica, delineata in maniera del tutto esauriente dal giudice di primo grado e confermata dalla corte territoriale, si profilano un fatto di estrema gravità e una personalità, che giustificano la pena inflitta.
Non appare fondata la doglianza sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche: la mancata capacità persuasiva degli argomenti della difesa è ampiamente argomentata nella sentenza impugnata, laddove, nell’esercizio del potere discrezionale riconosciuto dall’art. 132 c.p., richiama la gravità del fatto, la gravità del danno, il mezzo, il luogo, le cadenze temporali dell’azione lesiva, i motivi della condotta lesiva, il comportamento successivo al verificarsi dell’evento. I giudici di merito, nella determinazione della pena hanno dato conto, sia pure con toni e stili diversi, a gran parte degli elementi indicati dall’art. 133 c.p. Va anche tenuto conto il razionale orientamento interpretativo, secondo cui – in relazione alla struttura base della pena e ai suoi profili di complessiva dimensione punitiva- il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, non deve dar conto di tutti gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., bensì unicamente di quelli cui ha ritenuto di attribuire prevalente e decisiva rilevanza. (sez. II, n. 36245 del 26.6.09; sez. II n. 19907 del 19.2.09; sez. IV, n. 41702 del 20.9.04; sez. II n. 5787 del 16.4.1993; sez. IV n. 7173 del 23.2.1988.)
In linea con questa giurisprudenza, il giudice di appello può trascurare le deduzioni nei motivi di appello in ordine alla pena detentiva e alla concessione delle attenuanti generiche quando abbia individuato, tra i criteri ex art. 133 c.p., quelli che nel caso concreto accertato minuziosamente -come nel caso in esame- hanno assunto rilievo decisivo.
In conclusione – sul punto del trattamento sanzionatorio – deve ritenersi che è stato correttamente esercitato il potere discrezionale in sede giudiziaria, che – a differenza della discrezionalità amministrativa- vincola totalmente il giudice al principio di fedeltà e soggezione alla legge. In presenza quindi di disposizioni di ampio spettro interpretativo -quali sono quelle ex artt. 133 e 62 bis c.p. – deve seguire criteri legali eteronomi. Si tratta quindi di discrezionalità vincolata (cosiddetta discrezionalità regolamentata), nel cui esercizio il giudice deve esser guidato da criteri legali, che possono sintetizzarsi in quelli della gravità complessiva del fatto (che incide sulla quantificazione della pena in correlazione alla sua finalità retributiva) e della capacità a delinquere (che incide sulla determinazione della pena in correlazione alla sua finalità di prevenzione speciale e di educazione del reo; vedi in tal senso sez. F. n. 12372 del 21.8.1990, rv. 185328 e sez. II, n. 2240 del 17.12.1990, rv 186541). Secondo un criterio interpretativo indicato dalla Corte costituzionale (sentenza 2 luglio 1990, n. 313), il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena (art. 27 co. 3 Cost.), che informa tutto il sistema penale e non soltanto la fase dell’esecuzione, si riflette sul meccanismo delineato dall’art. 133 c.p., orientando il potere discrezionale del giudice di cognizione. Nel quadro di quest’ultima finalità, riceve ulteriore e specifico rilievo l’obbligo di motivazione della sentenza penale di condanna: solo dalla piena conoscenza dei motivi giustificativi del sua assoggettamento alla sofferenza carceraria, la persona condannata potrà ricevere utili elementi di riflessione sulla passata scelta trasgressiva e spunti motivazionali per diverse scelte future.
Nel caso in esame alla AAA e alla difesa sono stati esposti tutti gli ineludibili aspetti storico-giuridici della vicenda. Sono precisamente rievocati e correttamente valutati:
a) l’incontro/scontro tra la AAA e la BBB, fatto di spinte e sgradevoli reazioni verbali,
b) l’aggressione fisica posta in essere dalla prima,
c) c) lo stimolo esterno di lievissima entità,
d) il ruolo/guida dell’antecedente, interno, impulso criminale,
e) i segni della condotta, dimostrativi dell’intensità del dolo,
f) il non voluto evento/morte,
g) la responsabilità dell’imputata a norma dell’art. 584 c.p.
h) i dati giustificativi del giudizio di gravità del fatto e della capacità a delinquere della AAA,
i) i dati giustificativi dell’impossibilità di mitigare il peso sanzionatorio,
l) la commisurazione finale della pena, modulata secondo i criteri di legge.
Conclusivamente, in via generale, deve ritenersi che nei motivi del ricorso sono rilevati la violazione di specifiche regole preposte alla formazione del convincimento del giudice e radicali vizi di motivazione, che non corrispondono alla realtà processuale. In realtà, con il ricorso, si propone la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, incompatibili con i limiti posti dal legislatore alla verifica della legittimità del percorso giustificativo della decisione, incompatibilità resa ancor più palese dalla complessiva motivazione della condanna e della pena, pienamente aderente alle risultanze processuali ed esposta in maniera chiara e razionale.
Il ricorso va quindi rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese delle parti civili, rappresentate dall’avv. Giovanni Spina, che liquida in € 4000, e delle parti civili rappresentate dall’avv. Alberto Feliziani, che liquida in € 5.000, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese delle parti civili rappresentate dall’avv. Spina, che liquida in € 4.000,00, e delle parti civili rappresentate dall’avv. Feliziani, che liquida in € 5.000,00 (oltre accessori come per legge)
Roma, 26.1.2010.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 7 MAGGIO 2010

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *