Cass. civ. Sez. V, Sent., 12-05-2011, n. 10419 Atti e contratti Imposta di registro

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atti separati stipulati nella stessa data del 31.7.97 la società Merchant Fruit srl acquistava dalla società Ortofrutta di Maccabei Nazzareno sas un immobile destinato ad opificio industriale ed un complesso di beni mobili (attrezzature e beni strumentali). Entrambi gli atti di compravendita venivano assoggettati ad IVA, come compravendite in regime di impresa.

In data 11.2.01 l’Agenzia delle Entrate – ritenendo che detti atti di compravendita fossero solo formalmente distinti e, unitariamente considerati, dovessero qualificarsi come compravendita di azienda – emetteva avviso di liquidazione per la riscossione della relativa imposta di registro e delle imposte ipotecaria e catastale.

La Merchant Fruit srl impugnava il suddetto avviso di liquidazione, contestando che nella specie potesse configurarsi una cessione di azienda e sottolineando, al riguardo, che essa non aveva continuato l’attività aziendale della società venditrice.

La Commissione Tributaria Provinciale di Perugia accoglieva il ricorso della contribuente e la Commissione Tributaria Regionale di Perugia, adita dall’Ufficio con l’appello, confermava la pronuncia di primo grado con la sentenza 44/5/05 depositata il 11.2.05.

Nelle more del suddetto giudizio, e precisamente in data 8.8.2002, l’Agenzia delle Entrate – rilevando di aver erroneamente applicato anche al trasferimento dell’opificio l’aliquota del 3% (invece che quella del 7% prevista per gli atti traslativi della proprietà di fabbricati) – emetteva, per il recupero della differenza, un avviso di liquidazione di imposta di registro suppletiva.

Anche questo secondo avviso di liquidazione veniva impugnato dalla contribuente, per le stesse ragioni poste a fondamento dell’impugnativa dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale, ed annullato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, con decisione poi confermata dalla Commissione Tributaria Regionale di Perugia con la sentenza 36/1/07 depositata il 19.6.07.

Entrambe le suddette sentenze della Commissione Tributaria Regionale di Perugia venivano impugnate con ricorso per cassazione dall’Agenzia delle Entrate; quella del 2005 con il ricorso n. 26454/06 RG (proposto, oltre che dall’Agenzia, anche dal Ministero delle Finanze) e quella del 2007 con il ricorso n. 22881/08 RG. La società contribuente si è costituita con controricorso nel procedimento 26454/06 RG, mentre non si è costituita nel procedimento 22881/08 RG. I ricorsi sono stati discussi alla pubblica udienza del 22.3.011 in cui i PG ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione

Preliminarmente il Collegio rileva che la causa di impugnazione dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale, decisa in secondo grado con la sentenza del 2005 oggetto del ricorso per cassazione iscritto al numero 26454/06 RG, e la causa di impugnazione dell’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva, decisa in secondo grado con la sentenza del 2007 oggetto del ricorso per cassazione iscritto al numero 22881/08 RG, sono connesse per comunanza di titolo; in entrambe tali cause, infatti, la pretesa fiscale avversata dal contribuente è la medesima, vale a dire l’imposta di registro sui contratti conclusi tra la Merchant Fruit srl e la Ortofrutta di Maccabei Nazzareno sas. Va pertanto disposta la riunione dei procedimenti n. 22881/08 RG e n. 26454/06 RG, ai sensi dell’art. 274 c.p.c., applicabile anche nel giudizio di legittimità (tra le tante, Cass. SS.UU. 18125/2005 e, più di recente, Cass. 16405/2008), onde la trattare entrambe le cause nel processo simultaneo.

Tanto premesso, si rileva altresì che, per ragioni di ordine logico- espositivo, conviene esaminare per primo il ricorso iscritto al numero 22881/08 RG, fondato su cinque motivi.

Col primo motivo – rubricato Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3 e D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 42, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – l’Agenzia deduce che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in error in procedendo omettendo di rilevare d’ufficio l’inammissibilità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, comma 3, del ricorso del contribuente. Secondo l’Agenzia infatti, poichè l’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva è atto meramente consequenziale all’avviso di liquidazione dell’imposta principale, la relativa impugnativa sarebbe possibile solo per contestazioni relative alla riliquidazione dell’imposta, rimanendo le questioni concernenti l’an debeatur (vale a dire l’assoggettabilità dei contratti all’imposta di registro) confinate nell’ambito del giudizio di impugnazione dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale.

Col secondo motivo rubricato Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – la ricorrente assume che la sentenza impugnata avrebbe violato le regole di formazione della prova e del convincimento del giudice nel ritenere che la potenzialità produttiva del complesso di beni oggetto dei contratti della cui tassazione si tratta dovesse formare oggetto di prova da parte dell’Ufficio e non – pacifiche essendo l’identificazione e le caratteristiche dei beni compravenduti – oggetto di valutazione tecnico-economica cui il giudice sarebbe dovuto pervenire, eventualmente con l’ausilio di una consulenza tecnica, secondo il proprio apprezzamento.

Col terzo motivo – rubricato Violazione e falsa applicazione dell’art. 2555 c.c. e D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 20 e 40 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – la ricorrente censura l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui nella fattispecie non si tratterebbe di cessione di azienda perchè non risultano ceduti i rapporti col personale, l’avviamento, i debiti e i crediti, nè risulta se le attrezzature siano state cedute in tutto o in parte. Tale affermazione violerebbe il principio che per aversi azienda è sufficiente un complesso di beni tecnicamente organizzato in modo da consentire in potenza o in atto un esercizio di attività imprenditoriale, a nulla rilevando che nella cessione non risultino compresi tutti i beni e i rapporti aziendali.

Col quarto motivo – rubricato Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 20 e 40; artt. 1 e 2 Tariffa parte prima annessa al medesimo D.P.R.; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 2, comma 3, lett. b); art. 2555 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – la ricorrente censura l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui la ricorrenza, nella fattispecie, dell’ipotesi di cessione di azienda risulterebbe esclusa dal comportamento delle parti, avendo il cedente continuato l’esercizio della propria impresa in (OMISSIS) e non avendo la cessionaria iniziato alcun esercizio di impresa in (OMISSIS). Afferma al riguardo la ricorrente che, ai fini della configurazione della cessione di azienda, sarebbe sufficiente l’oggetti va idoneità, anche potenziale, dei beni ceduti – per la loro consistenza tecnica e nella loro interrelazione – a consentire l’esercizio di un’ impresa, irrilevanti essendo le scelte soggettive dei contraenti.

Col quinto motivo rubricato Omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – la ricorrente censura la sentenza impugnata per essere la stessa sorretta da motivazioni fondate su considerazioni legate al profilo soggettivo degli atti, omettendo la motivazione in ordine al fatto decisivo delle caratteristiche oggettive dei beni compravenduti.

Il primo motivo è infondato.

L’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva di registro contiene l’accertamento amministrativo di un credito pecuniario del Fisco avente, per titolo, l’assoggettamento di un atto privato all’imposta di registro e, per oggetto, la somma di denaro corrispondente alla differenza tra l’importo dovuto a titolo di imposta e l’importo liquidato nell’avviso di liquidazione dell’imposta principale. Il fatto che l’assoggettabilità dell’atto all’imposta di registro costituisca causa della pretesa fiscale già dispiegata con l’avviso di liquidazione dell’imposta principale non toglie che detto accertamento costituisca causa (anche) della pretesa fiscale dispiegata con l’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva;

quest’ultimo avviso, in altri termini, contiene il triplice accertamento che:

1) L’atto sottoposto a tassazione debba scontare l’imposta di registro;

2) La somma dovuta sia superiore a quella liquidata nell’avviso di liquidazione dell’imposta principale;

3) La differenza tra quanto dovuto e quanto liquidato nell’avviso di liquidazione dell’imposta principale dipenda da errori od omissioni dell’ufficio.

Il contribuente che intenda contestare uno qualunque di tali tre accertamenti ha il diritto di impugnare giudizialmente l’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva e nel relativo giudizio egli può far valere sia vizi pertinenti alla assoggettabilità dell’atto all’imposta, sia vizi pertinenti alla liquidazione dell’imposta, sia vizi relativa alla legittimità procedurale dell’avviso impugnato, giacchè tutti tali vizi sono propri dell’atto impugnato, ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3.

Naturalmente, giova precisare, se la assoggettabilità dell’atto all’imposta di registro sia già stata definitivamente accertata a seguito della mancata impugnazione (o del passaggio in giudicato della sentenza di rigetto della impugnazione) dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale, il ricorso contro l’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva non potrebbe fondarsi sulla contestazione della assoggettabilità dell’atto all’imposta di registro; ma ciò non perchè l’eventuale non assoggettabilità dell’atto all’imposta di registro non costituisca vizio proprio dell’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva, bensì perchè la relativa questione risulterebbe preclusa dall’accertamento definitivo formatosi a seguito della mancata impugnazione (o del passaggio in giudicato della sentenza di rigetto della impugnazione) dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale. Nella specie, per contro, l’avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva fu emesso quando ancora pendeva il giudizio sul ricorso contro l’avviso di liquidazione dell’imposta principale, cosicchè sulla questione dell’assoggettabilità dell’atto all’imposta di registro non si era formato alcun accertamento definitivo. Pertanto il contribuente, per contestare la pretesa azionata dall’Ufficio mediante avviso di liquidazione dell’imposta suppletiva (e non avendo, peraltro, nulla da eccepire in ordine alla nuova aliquota ivi applicata dall’Ufficio), non solo poteva impugnare tale avviso contestando l’assoggettabilità degli atti all’imposta di registro, ma aveva l’onere di proporre tale impugnazione, per impedire che la pretesa fiscale a riguardo si consolidasse proprio in conseguenza della mancata impugnazione dell’atto impositivo (vedi le sentenze di questa Corte nn. 2272, 7179, 13211, 20392 del 2004).

Il primo motivo di ricorso va quindi respinto.

Gli altri motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, essendo intimamente connessi.

Tutti tali motivi, inquadrando il tema da diverse angolazioni, convergono in sostanza nell’assunto che la sentenza impugnata sarebbe giunta alla conclusione della non ravvisabilità, nella specie, della cessione di azienda valorizzando elementi a tal fine irrilevanti (la mancata cessione dei rapporti di lavoro, dell’avviamento, dei debiti e crediti, l’incertezza sul fatto se le attrezzature siano state cedute in tutto o in parte, il fatto che il cedente abbia continuato l’esercizio della propria impresa e la cessionaria non abbia iniziato alcuna attività imprenditoriale in (OMISSIS)) e trascurando (ed omettendo al riguardo di motivare) gli unici elementi effettivamente rilevanti, ossia la oggettiva idoneità dei beni compravenduti, per la loro consistenza tecnica e le loro interrelazioni, all’esercizio, anche potenziale, di una impresa.

Al riguardo si osserva che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che, in tema di trasferimento della proprietà di un complesso di beni strumentali, si deve ravvisare una cessione di azienda, soggetta ad imposta di registro, quando i beni strumentali ceduti siano atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di una impresa, anche se non si richiede che tale esercizio sia attuale (essendo sufficiente l’attitudine potenziale all’utilizzo per un’attività d’impresa) nè che la cessione comprenda anche le relazioni finanziarie, commerciali e personali;

mentre la cessione di singoli beni, inidonei di per se ad integrare la potenzialità produttiva propria dell’impresa, deve essere assoggettata ad IVA. La cessione dell’azienda, quindi, pur non richiedendo che l’esercizio dell’impresa sia attuale (bastando la preordinazione dei beni strumentali tra loro interdipendenti ad integrare la potenzialità produttiva dell’azienda, che permane ancorchè non risultino cedute le pregresse relazioni finanziarie, commerciali e personali), presuppone comunque il trasferimento non già di uno o più beni considerati nella loro individualità giuridica, ma di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attività di impresa (tra le tante, si vedano le sentenze nn. 897/2002,11457/2005, 23857/2007, 16818/2008).

Tali consolidati principi di diritto, richiamati anche nel ricorso per cassazione della difesa erariale, non risultano sostanzialmente disattesi dalla Commissione Tributaria Regionale.

Certamente talune affermazioni contenute nella sentenza impugnata vanno giudicate erronee e giustamente sono state censurate dalla ricorrente; ci si riferisce, in particolare, alle affermazioni con cui il giudice di merito argomenta la propria decisione facendo riferimento alla mancata cessione dei rapporti di lavoro, dell’avviamento, dei debiti e crediti e alla mancata apertura di una unità locale in (OMISSIS) da parte dell’acquirente (da ultimo, su questi punti, Cass. 9162/2010, dove si esclude che, per integrare la cessione di azienda, "abbia rilievo alcuno nè l’assenza di attualità dell’esercizio dell’impresa nè la mancata cessione delle relazioni finanziarie, commerciali e personali".); o all’affermazione con cui il giudice di merito argomenta la propria decisione facendo riferimento al fatto che la società venditrice ha continuato ad esercitare la propria impresa in (OMISSIS) (circostanza del tutto irrilevante, posto che la cessione di un ramo di azienda non è incompatibile con il fatto che il cedente continui ad esercitare la propria impresa con i beni aziendali residuati in sua disponibilità).

Il nucleo della ratio decidendi della sentenza impugnata, tuttavia, non risiede nelle suddette erronee affermazioni, sostanzialmente pleonastiche e ininfluenti, bensì nell’affermazione che "il fatto che i beni venduti abbiano una potenzialità produttiva è un assunto dell’Ufficio privo di prova. Questa Commissione non ha alcun elemento per affermare che i beni mobili ceduti siano sufficienti ad avviare o proseguire un’attività di commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli". (pag. 3, quartultimo rigo, della sentenza).

Tale affermazione è del tutto conforme ai principi di diritto sopra richiamati, giacchè proprio alla stregua di tali principi – desumibili dalle disposizioni della cui violazione o falsa applicazione la ricorrente si duole con il terzo e il quarto mezzo di ricorso – è necessario, per la configurabilità di una cessione di azienda, che l’oggetto del trasferimento sia costituito da beni atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di una impresa; e l’onere della dimostrazione di tale attitudine grava sull’Amministrazione finanziaria, la quale deve provare i fatti a cui la legge collega l’insorgenza dell’obbligazione tributaria azionata con l’atto impositivo impugnato.

Il terzo e il quarto motivo di ricorso vanno quindi disattesi, perchè le relative censure si appuntano avverso affermazioni non essenziali nella ratio decidendi della sentenza impugnata; mentre, per contro, le norme di legge richiamate in detti motivi non risultano nè violate, nè falsamente interpretate, dalla decisione che esclude la configurabilità di una cessione d’azienda quando manchi la prova che i beni ceduti siano, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, atti all’esercizio di una impresa.

Il tema del giudizio di legittimità si concentra allora sull’accertamento di fatto operato dalla Commissione Tributaria Regionale sulla potenzialità produttiva dei beni compravenduti, in relazione al quale vanno esaminati il secondo ed il quinto mezzo di impugnazione.

Col secondo motivo di ricorso la ricorrente in sostanza assume che, poichè l’identificazione e le caratteristiche dei beni compravenduti erano pacifiche in causa, nessun onere probatorio sarebbe residuato a carico dell’Amministrazione finanziaria, in quanto sarebbe stato compito del giudice stabilire, eventualmente con l’ausilio di una consulenza tecnica, se i suddetti beni avessero o meno, nel loro complesso, una potenzialità produttiva; da ciò il vizio della sentenza impugnata – prospettato sia come violazione di legge che come error in procedendo (nella rubrica del motivo si richiamano sia il n. 3 che il n. 4 dell’art. 360 c.p.c.) – per violazione degli artt 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c..

Il motivo è inammissibile perchè difetta di specificità e risulta privo di attinenza al decisum della sentenza impugnata (cfr. Cass. 13066/2007: "Posto, in generale, il principio che il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, deve ritenersi, in particolare, inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata e di assolvere, così, il compito istituzionale di verificare il fondamento della suddetta violazione.

Qualora, peraltro, venga allegata (come prospettalo nella specie dal ricorrente principale) l’erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze della causa di merito, tale deduzione è da ritenersi esterna alla esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione ma non sotto il profilo della violazione o falsa applicazione di legge"). La Commissione Tributaria Regionale ha giudicato non raggiunta la prova dei fatti da cui desumere la potenzialità produttiva dei beni compravenduti, affermando che non aveva (il che vale dire: non erano stati provati in giudizio) elementi per valutare se i beni ceduti avessero, nel loro complesso, una potenzialità produttiva ("Questa Commissione non ha alcun elemento per affermare che i beni mobili ceduti siano sufficienti ad avviare o proseguire un ‘attività di commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli"). Tale affermazione costituisce il giudizio di fatto che compete al giudice di merito (misurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), ossia la valutazione dei fatti di causa a cui il giudice è giunto, secondo il suo prudente apprezzamento, sulla base delle prove offerte dalle parti. La ricorrente non specifica sotto quali profili l’espressione di tale giudizio contrasterebbe con le disposizioni di cui lamenta la violazione o falsa interpretazione col motivo in esame, ossia in cosa la suddetta affermazione contrasterebbe con le disposizioni secondo cui il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, ( art. 115 c.p.c.) e deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento ( art. 116 c.p.c.) e con la disposizione secondo cui chi vuoi far valere in diritto un giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento ( art. 2697 c.c.). L’assunto della ricorrente secondo cui nel giudizio di merito non vi sarebbe stata contestazione sulla identificazione e sulle caratteristiche dei beni compravenduti, nonchè sul "punto di fatto specifico che il compendio ceduto possedesse o potesse possedere in sè una potenzialità produttivà (pag. 16, rigo 4, del ricorso) può costituire argomento di censura della sufficienza e logicità della motivazione della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 5, ma risulta del tutto inidoneo a sorreggere la censura di violazione di legge ed error in procedendo svolta col secondo mezzo di ricorso, che, pertanto, risulta non congruente rispetto al contenuto della sentenza impugnata.

Il quinto motivo di ricorso, con quale appunto si censura il vizio motivazionale della sentenza impugnata, è infine inammissibile, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (abrogato dalla L. n. 69 del 2009 ma applicabile nella fattispecie in esame, avendo il ricorso ad oggetto una sentenza depositata il 19.6.07 e, dunque, nel periodo di vigenza di tale disposizione), perchè nella sua formulazione il ricorrente non ha assolto all’onere di offrire "la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione"; tale indicazione infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve emergere da un momento di sintesi esposto in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata – del tutto assente nel quinto motivo proposto nel ricorso dell’Agenzia – che circoscriva puntualmente i limiti della censura, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità.

Si veda al riguardo Cass. 8897/2008: "Allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un "quid pluris" rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (in applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso nel quale la sentenza impugnata veniva censurata per avere integralmente recepito una consulenza tecnica d’ufficio, ma senza indicare in modo chiaro e sintetico le ragioni per cui tale motivazione fosse inidonea a sorreggere la decisione)".

Per una efficace sintesi dei principi elaborati in proposito da questa Corte, si veda altresì il seguente stralcio della motivazione della ordinanza 27680/2009:

Questa Corte regolatrice, infatti – alla stregua della stessa letterale formulazione dell’art. 366 bis c.p.c., introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. art. 6 e abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, ma applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 14 luglio 2009 (cfr, L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5) – è fermissima nel ritenere che a seguito della novella del 2006 nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 allorchè, cioè, il ricorrente denunzi la sentenza impugnata lamentando un vizio della motivazione, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione.

Ciò importa in particolare che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ed esempio, Cass., sei. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Al riguardo, ancora è incontroverso che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte, del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata.

Conclusivamente, non potendosi dubitare che allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366-bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta a giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (In termini, ad esempio, Cass. 7 aprile 2008, n. 8897), non controverso che nella specie l’unico motivo di ricorso, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 5, è totalmente privo di tale indicazione, è palese che deve dichiararsene la inammissibilità (in argomento, tra le tantissime, Cass. 13 maggio 2009, n. 11094, in motivazione).

In definitiva il ricorso iscritto a ruolo con il numero 22881/08 RG, proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso a sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Perugia n. 36/1/07, deve essere rigettato, essendo infondati il primo, il terzo e il quarto motivo ed inammissibili il secondo e il quinto motivo.

Passando all’esame del ricorso per cassazione iscritto a ruolo con i numero 26454/06 RG proposto, oltre che dall’Agenzia, anche dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, avverso la sentenza 44/5/05 della Commissione Tributaria Regionale di Perugia, va preliminarmente dichiarato inammissibile il ricorso del proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Quest’ultimo, infatti, non è stato parte del giudizio di secondo (nè di primo) grado, cosicchè non ha alcun titolo che lo legittimi a partecipare al presente giudizio.

Quanto a ricorso dell’Agenzia delle Entrate, esso si fonda su un solo articolato motivo – rubricato Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 20 e 40; artt. 1 e 2 Tariffa parte prima annessa al medesimo D.P.R.; D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 2, comma 3, lett. b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; omessa insufficiente, contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – con il quale l’Agenzia censura la sentenza 44/5/05 della Commissione Tributaria Regionale di Perugia per avere confermando la sentenza di primo grado di annullamento dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale di registro, violando le norme richiamate e offrendo una motivazione della propria decisione insufficiente e contraddittoria.

Il ricorso (che non soggiace alla disciplina dell’art. 366 bis c.p.c., avendo ad oggetto una sentenza depositata nel 2005) si fonda su una censura esatta, poichè la motivazione della sentenza impugnata va giudicata, alla semplice lettura, meramente apparente e, peraltro, in palese contraddizione con il dispositivo. L’esattezza della censura non consente tuttavia di accogliere il ricorso avverso la sentenza 44/5/05 della Commissione Tributaria Regionale di Perugia perchè per effetto del rigetto – che con questa stessa sentenza si pronuncia – del ricorso dell’Agenzia delle Entrate iscritto a ruolo con il numero 22881/08 RG, si determina il passaggio in giudicato della sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Perugia n. 36/1/07 e conseguentemente la definitività, nei rapporti tra la Merchant Fruit srl e l’Amministrazione finanziaria, dell’accertamento giudiziale, in quest’ultima sentenza contenuto, della non assoggettabilità all’imposta proporzionale di registro dei contratti di compravendita dai cui trae origine il presente giudizio.

Pertanto deve essere definitivamente confermato l’annullamento, deciso in primo grado dalla Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, dell’avviso di liquidazione dell’imposta di registro principale emesso dall’Ufficio nei confronti della Merchant Fruit srl per la tassazione dei due atti di compravendita da cui nasce la presente controversia e, conseguentemente, non vi è ragione di cassare la sentenza di secondo grado che ha respinto l’appello avverso la sentenze di primo grado. Anche il ricorso per cassazione avverso la sentenze della Commissione Tributaria Regionale n. 44/5/05 va dunque respinto, ancorchè fondato su una censura esatta, perchè il dispositivo della sentenza va giudicato conforme a diritto, alla stregua della situazione processuale determinatasi all’esito del rigetto del ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale n. 36/1/07.

Entrambi i ricorsi riuniti vanno dunque in definitiva dunque rigettati.

Le spese del procedimento n. 26454/06 RG si compensano, mentre non vi è luogo a regolazione di spese nel procedimento n. 22881/08 RG, non essendosi in esso costituita la Merchant Fruit srl.
P.Q.M.

La Corte, riuniti i procedimenti n. 26454/06 RG e n. 22881/08 RG, dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’Economia e della Finanze nel proc. 26454/06 e rigetta entrambi i ricorsi dell’Agenzia delle Entrate. Compensa le spese del procedimento n. 26454/06 RG. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 marzo 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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