Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 16-12-2010) 09-03-2011, n. 9368 Sentenza penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte di Appello di Napoli con sentenza in data 21.11.2008, dichiarava inammissibile per carenza di interesse l’appello proposto dai difensori degli imputati avverso la sentenza emessa in data 21.5.2007 dal Tribunale di Torre Annunziata, con la quale D.S. F., R.G. e M.G. erano stati assolti ex art. 530 c.p.p., comma 2, perchè il fatto non sussiste, dall’imputazione di omicidio colposo. La Corte territoriale, richiamato l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, rilevava che in capo agli appellanti difettava alcun interesse ad impugnare la sentenza resa dal giudice di primo grado.

Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello di Napoli ha proposto ricorso per cassazione R.G., a mezzo del difensore, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 593 c.p.p., comma 2; rileva la parte che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto l’inammissibilità dell’appello, alla luce della sentenza n. 85/2008, con la quale la Corte costituzionale ha ripristinato la possibilità di appello contro le sentenze di proscioglimento.

Con secondo motivo, il ricorrente rileva che la Corte di Appello ha errato nell’escludere l’attualità dell’interesse ad impugnare la sentenza di primo grado da parte dell’imputato R., tenuto conto delle conseguenze extrapenali pregiudizievoli ex artt. 652 e 654 cod. proc. pen.; e rileva che la Corte territoriale non è entrata nel merito della posizione del R., in relazione alla ritenuta carenza di interesse.

E’ dato procedere alla trattazione unitaria dei motivi ai quali il ricorso è affidato. Il ricorrente impugna la sentenza della Corte di Appello di Napoli che ha dichiarato inammissibile il gravame proposto avverso la sentenza del primo giudice, il quale aveva mandato assolto il deducente, ex art. 530 c.p.p., comma 2, con la formula "perchè il fatto non sussiste"; l’esponente assume che la Corte territoriale abbia errato nell’escludere l’attualità dell’interesse ad impugnare la sentenza di primo grado da parte dell’imputato, tenuto conto delle conseguenze extrapenali.

Il ricorso è inammissibile per carenza di interesse.

Giova primieramente considerare che la Corte costituzionale con la sentenza n. 85 del 2008, pure richiamata dal ricorrente, ha ribadito che quella delle sentenze di proscioglimento è una categoria che "non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto". In questa categoria, infatti, sono comprese, oltre a decisioni ampiamente liberatorie, ossia quelle pronunciate con le formule "il fatto non sussiste" e "l’imputato non lo ha commesso", decisioni che, "pur non applicando una pena, comportano – in diverse forme e gradazioni – un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo". Quali esempi di quest’ultimo tipo, la Corte ricorda le sentenze dichiarative di estinzione del reato per prescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti (nel regime anteriore alla L. 5 dicembre 2005, n. 251); le sentenze di proscioglimento per cause di non punibilità legate a condotte o accadimenti post factum; o per concessione del perdono giudiziale (che si traducono in realtà in una affermazione di colpevolezza, non seguita dalla irrogazione della pena, ma con effetti preclusivi della reiterazione del beneficio); o per difetto di imputabilità; o anche perchè il fatto non costituisce reato.

Ciò premesso, si osserva che, relativamente al contenuto delle diverse formule assolutorie, è pacifico, in dottrina e giurisprudenza, che la formula "perchè il fatto non sussiste" indica la mancanza di uno degli elementi costitutivi di natura oggettiva del reato (la condotta, l’evento o il nesso di causalità), ossia l’esclusione del verificarsi di un fatto storico che rientri nell’ambito di una fattispecie incriminatrice, anche soltanto a livello di tentativo. E’ poi opportuno ricordare che, per quanto concerne la formula assolutoria da utilizzare, la regola di giudizio contenuta nell’art. 530 c.p.p., comma 2, impone l’adozione della formula in esame sia nel caso che sia stata raggiunta la prova positiva della insussistenza del fatto da parte dell’imputato, sia anche nel caso di mancanza, o di insufficienza o di contraddittorietà della relativa prova, dal momento che la diversa entità della prova non può riverberarsi sulla formula assolutoria da utilizzare, che deve rimanere uguale in entrambi i casi (Cass. Sez. Un., Sentenza n. 40049 del 29.05.2008, Rv. 240815). La formula assolutoria ora richiamata ha cioè contenuto "totalmente liberatorio". E ciò sia quando sia stata raggiunta la prova positiva dell’insussistenza del fatto, sia quando la prova contraria manchi del tutto o sia insufficiente o contraddittoria (in termini; Cass. Sez. Un., Sentenza n. 40049, cit.). Accertata dunque l’insussistenza del fatto (o mancando la prova della sua sussistenza), l’assoluzione con la formula "perchè il fatto non sussiste" deve essere pronunciata con prevalenza su qualsiasi altra e rende superflua ogni valutazione della condotta (Sez. 4, 5 giugno 1992, n. 1340, Battaglia, m. 193032). Tale formula, avendo una maggiore ampiezza di effetti liberatori, prevale anche su quella perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato (Cass. Sez. Un., 27 settembre 2007, n. 2451/08, Magera, m. 238195).

Deve poi considerarsi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, l’interesse a proporre impugnazione deve essere apprezzabile non solo nei termini dell’attualità, ma anche in quelli della concretezza, sicchè non può risolversi nella mera aspirazione alla correzione di un errore di diritto contenuto nella sentenza impugnata. La concretezza dell’interesse può peraltro ravvisarsi anche quando l’impugnazione sia volta esclusivamente a lamentare una violazione astratta di una norma di diritto formale, purchè però da essa derivi un reale pregiudizio dei diritti dell’imputato, che si intendono tutelare attraverso il raggiungimento di un risultato non soltanto teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Cass. Sez. Un., 11 maggio 1993, n. 6203, Amato, m. 193743; Cass. Sez. Un., 24 marzo 1995, n. 9616, Boido, m. 202018). In particolare, l’interesse richiesto dall’art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente (Cass. Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 42/1996, Timpani, m. 203093).

La concretezza dell’interesse peraltro è ravvisabile non solo quando l’imputato, attraverso l’impugnazione, si riprometta di conseguire effetti penali più vantaggiosi (come, ad esempio, l’assoluzione o la mitigazione del trattamento sanzionatorio), ma anche quando miri ad evitare conseguenze extrapenali pregiudizievoli ovvero ad assicurarsi effetti extrapenali più favorevoli, come quelli che l’ordinamento rispettivamente fa derivare dal giudicato delle sentenze di condanna o di assoluzione nei giudizi di danno ( artt. 651 e 652 c.p.p.) o in altri giudizi civili o amministrativi ( art. 654 c.p.p.) e dal giudicato di assoluzione nei giudizi disciplinari ( art. 653 c.p.p.) (Sez. 6, 30 marzo 1995, n. 6989, Stella, m. 201953). Secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, cioè, l’impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere alla eliminazione della lesione di un diritto o di un interesse giuridico dell’impugnante, non essendo prevista la possibilità di proporre un’impugnazione che si risolva in una mera pretesa teorica che miri alla sola esattezza giuridica della decisione, che di per sè non sarebbe sufficiente a integrare il vantaggio pratico in cui si compendia l’interesse normativamente stabilito che sottende l’impugnazione di ogni provvedimento giurisdizionale (Cass. Sez. Un., 13 dicembre 1995, Timpani, cit.). Con specifico riferimento all’ipotesi in cui la sentenza di assoluzione sia impugnata dall’imputato prosciolto, come nel caso che occupa, è sufficiente richiamare quanto osservato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 85 del 2008, ossia che le uniche decisioni totalmente assolutorie sono quelle pronunciate con le formule "il fatto non sussiste" e "l’imputato non lo ha commesso", mentre tutte le altre formule di assoluzione comportano, con forme e gradazioni diverse, un riconoscimento della responsabilità dell’imputato o comunque l’attribuzione del fatto allo stesso, e quindi, sebbene non applichino una pena, sono sicuramente idonee ad arrecare ugualmente all’imputato significativi pregiudizi di ordine sia morale sia giuridico. All’imputato va, quindi, normalmente riconosciuto il diritto di impugnare una sentenza di proscioglimento per ottenere una assoluzione con una formula per lui migliore perchè totalmente liberatoria o comunque produttiva di effetti extrapenali più favorevoli o meno pregiudizievoli. In tal caso, infatti, l’interesse ad impugnare assume il carattere della concretezza in quanto tende non solo all’applicazione della formula giuridicamente più esatta ma anche alla eliminazione di un qualche effetto pregiudizievole. E’ dunque pacificamente riconosciuto l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza di assoluzione con la formula "perchè il fatto non costituisce reato" al fine di ottenere la più ampia formula liberatoria "perchè il fatto non sussiste" o "perchè l’imputato non lo ha commesso", e ciò perchè, a parte le conseguenze di natura morale, l’interesse giuridico risiede nei diversi e più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 c.p.p., connettono al secondo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare, a fronte degli effetti pregiudizievoli in tali giudizi derivanti dalla prima formula assolutoria (Sez. 6, 9 gennaio 2001, n. 2227, Viola, m. 217976; Sez. 4, 5 novembre 2002, n, 45976, Fasanella, m. 226719; Sez. 6, 6 febbraio 2003, n. 13621, Valle, m. 227194; Sez. 5, 28 settembre 2004, n. 14542/05, Carretti, m. 231680, in un caso di ritenuto esercizio putativo del diritto di critica; Sez. 4, 17 maggio 2006, n. 4675, Bartalini, m. 235655).

Nella specie, a fronte della intervenuta assoluzione dell’imputato con la formula "il fatto non sussiste", di natura totalmente liberatoria – per le spiegate ragioni – sfugge un apprezzabile interesse in capo al ricorrente, il quale neppure ha indicato nel ricorso quale fatto possa risultare produttivo di effetti potenzialmente pregiudizievoli in altri ambiti giurisdizionali (Cass. Sez. 5^, sentenza n. 45091/2008).

Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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