Cons. Stato Sez. IV, Sent., 09-03-2011, n. 1505 Assegni vari Procedimento e punizioni disciplinari Rapporto di pubblico impiego, Sospensione cautelare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso proposto in data 15 ottobre 1997 innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio- Roma il dott. D.P. Giuseppe, già Direttore Generale del Ministero dei lavori Pubblici, agiva per la condanna in suo favore della differenza retributiva complessiva tra quanto spettantegli e quanto effettivamente erogato a seguito di assegno alimentare per il periodo dal 10 marzo 1988 al 31 gennaio 1992 pari a lire 72.399.897 oltre rivalutazione monetaria e interessi, esponendo che la sospensione cautelare non era stata seguita dal procedimento disciplinare.

Il dott. D.P., all’epoca Direttore Generale del Ministero Lavori Pubblici, venne sospeso cautelativamente dal servizio con D.M. n.401 del 10 marzo 1988 a seguito dell’inizio di un procedimento penale per il reato di concussione; con sentenza 8 marzo 1995 la Corte di cassazione rigettò il suo ricorso, sicchè la condanna alla pena di tre anni e sei mesi inflittagli per tale reato dalla Corte di appello di Roma con sentenza 8 novembre 1993 divenne definitiva.

A decorrere dal 1 febbraio 1992 il medesimo veniva collocato a riposo per sopraggiunti limiti di età.

Il Ministero dei Lavori Pubblici non si attivò per la instaurazione del procedimento disciplinare, anche se dalla motivazione della sentenza della Corte di Cassazione risulta che il medesimo fu raggiunto da ordine di cattura e si rese latitante e che la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per cinque anni fu condonata dalla Corte di appello ai sensi dell’art. 2 dpr 394 del 1990.

Il giudice di primo grado, con la sentenza impugnata, ha accolto il proposto ricorso, condannando l’amministrazione statale a corrispondere al D.P., già condannato definitivamente per concussione, la somma di lire 72.339.897 oltre accessori: secondo il principio di diritto statuito dal primo giudice, il mancato inizio del procedimento disciplinare nei prescritti termini comporta il venir meno del provvedimento di sospensione cautelare con effetto ex tunc, sicchè in caso di cessazione dal servizio del dipendente sottoposto a sospensione cautelare a seguito di procedimento penale, qualora l’amministrazione decida di non iniziare l’azione disciplinare dopo l’intervento del giudicato penale al fine di regolare gli effetti della stessa sospensione cautelare, al medesimo dipendente compete la differenza tra la retribuzione spettante e l’assegno alimentare.

Venivano solo esclusi i periodi relativi alla detenzione patita e alla interdizione dall’impiego.

Avverso tale sentenza propongono appello i Ministeri delle Infrastrutture e il Ministero dei Trasporti; l’appello delle amministrazioni statali sottolinea di condividere il principio secondo cui la mancata attivazione del procedimento disciplinare determina in via generale l’obbligo per l’amministrazione di corrispondere le differenze tra l’assegno alimentare e il trattamento dovuto e non percepito, secondo quanto espresso anche dalla Adunanza Plenaria n.8 del 1997; pur tuttavia, secondo l’appello, quando l’accertamento definitivo che pone termine alla natura provvisoria si conclude con la conferma delle ragioni di cautela che avevano indotto l’amministrazione a sospendere il dipendente dal servizio e quindi la interruzione del rapporto non è imputabile alla amministrazione, tale differenza retributiva non è dovuta. Nella specie, poiché la condanna penale inflitta al dipendente è di anni 3 e sei mesi e poiché il periodo in questione è pari a tre anni e undici mesi, al più potrebbero spettargli le differenze retributive per cinque mesi, ossia per il periodo di sospensione cautelare decurtato della pena detentiva inflittagli.

Inoltre, secondo l’appello, la sentenza non ha tenuto conto del fatto che il pagamento di tali differenze retributive – tra le somme effettivamente spettanti e quelle effettivamente percepite a titolo di assegno alimentare durante tutto il periodo di sospensione cautelare dal servizio – non spetta se difetta la causa giustificativa e cioè in caso di imputabilità all’altra parte: nella specie, il D.P., come emerge dalla narrativa della sentenza della Corte di Cassazione, raggiunto da ordine di cattura, si rese latitante.

Da ultimo, secondo l’appellante amministrazione statale, non può non tenersi conto del fatto che – invocando la c.d. eccezione di dolo generale, la correttezza e la buona fede nei rapporti – la obiettiva mancanza lavorativa del soggetto determinerebbe quanto meno un ingiustificato arricchimento per il medesimo se dovesse valere il principio della spettanza anche in caso di mancanza di effettuazione delle dovute prestazioni di direttore generale.

L’appellato si è costituito con controricorso, con il quale deduce in via preliminare la inammissibilità del ricorso, perché non si comprenderebbe quale dei due ministeri sia l’effettiva parte appellante, essendo stata, la condanna, emessa nei confronti del ministero dei Lavori Pubblici, che oggi non esiste in quanto tale.

Nel merito deduce la infondatezza dell’appello chiedendone il rigetto e facendo presente che il Ministero aveva l’obbligo di attivarsi ai sensi della legge 19 del 1990 per il procedimento disciplinare.

Alla camera di consiglio del 22 maggio 2007 questa sezione ha accolto la istanza cautelare di sospensione di esecutività della sentenza.

Alla udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 la causa è stata trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

Va rigettata – e comunque se ne può prescindere, attesa la infondatezza dell’appello – la eccezione preliminare con la quale parte appellata deduce la inammissibilità dell’appello, perché non si desumerebbe quale dei due Ministeri appellanti (Infrastrutture e Trasporti) sia legittimato attivamente, abbia cioè interesse a ricorrere in virtù delle modifiche intervenute nella organizzazione dei due Ministeri: è evidente che si tratta delle amministrazioni statali (organi dello Stato) che derivano dal c.d. spacchettamento dei due Ministeri nel consueto decreto di inizio legislatura o in altro provvedimento di legge. Potrebbe, al più, porsi un problema di difetto di legittimazione attiva di uno dei due Ministeri (estraneo al rapporto con l’ex dipendente); ma la parte che ha eccepito non ha indicato quale sarebbe, ai sensi anche della regola di cui alla legge 260 del 1958, l’effettivo organo dello Stato parte del giudizio, che per ciò deve intendersi nella sua unitarietà di persona giuridica.

Nel merito l’appello è infondato.

L’appellante amministrazione statale invoca il principio secondo cui l’obbligo di reintegrare la posizione del dipendente ai fini sia economici che giuridici onde eliminare le conseguenze negative di una sospensione rimasta priva di titolo, presuppone che la prestazione lavorativa sia mancata per causa esclusivamente imputabile alla p.a. e che ad essa possa interamente ascriversi la compromissione del sinallagma contrattuale (Consiglio Stato, V, 10 luglio 2000, n.l3848).

Il motivo è infondato.

Come ritenuto correttamente dal primo giudice, all’esito del giudicato penale di condanna, l’amministrazione deve valutare se iniziare o meno il procedimento disciplinare a carico del dipendente già sospeso in via cautelare, e può iniziarlo ancorchè il dipendente sia cessato dal servizio anteriormente al giudicato penale, e ciò al fine precipuo di regolare gli effetti della sospensione cautelare, che è titolo per sua natura provvisorio; tale potere va esercitato nei termini previsti per l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dell’impiegato in servizio con la conseguenza che il mancato inizio dell’azione disciplinare nei termini comporta il venire meno con effetto ex tunc del provvedimento di sospensione cautelare (Consiglio Stato a.plen. 6 marzo 1997 n.8).

In forza di una interpretazione estensiva dell’art. 118 t.u. imp. Civ. Stato – che consente espressamente la prosecuzione del procedimento disciplinare anche in caso di dimissioni del dipendente se la sua definizione influisce sul trattamento di quiescenza e previdenza – la giurisprudenza amministrativa assolutamente prevalente, avallata dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ha ritenuto doverosa la esperibilità del procedimento disciplinare, anche dopo la cessazione del rapporto di servizio, in presenza di una pregressa sospensione cautelare del dipendente pubblico (così Cons. Stato, comm. Spec. 5 febbraio 2001, n.482; ad. Plen. 6 marzo 1997, n.8; sezione V, 24 maggio 1995, n.360).

Tanto sul presupposto che la sospensione cautelare, quale ne sia il tipo, debba essere sempre sostituita da un diverso titolo giuridico costituito dal provvedimento disciplinare; sicchè la sorte del provvedimento cautelare è rimessa alla iniziativa dell’amministrazione, cui spetta il potere di valutare, anche ai fini della eventuale destituzione, il comportamento del dipendente, onde regolare in maniera definitiva l’assetto degli interessi provvisoriamente determinati dalla sospensione cautelare, ben potendo retroagire gli effetti della destituzione al momento della sospensione, anche dopo le dimissioni o il collocamento in quiescenza del dipendente, per evitare pericolose richieste di restituito in integrum (cfr. Consiglio Stato, ad.plen. nn. 2 e 4 del 2002; commissione speciale 5 febbraio 2001, n.482; ad.plen. n.8 del 1997 citata).

Tanto è vero ciò che coerentemente si è ritenuta l’amministrazione legittimata a rifiutare o ritardare la accettazione delle dimissioni volontarie in caso di pendenza del procedimento penale, impeditivo fino al suo termine dell’inizio di quello disciplinare ex art. 117 t.u., sulla falsariga di quanto stabilito dall’art. 124 del medesimo t.u..

Nell’esercitare l’azione punitiva l’amministrazione è comunque astretta al rispetto dei termini perentori di inizio e conclusione del procedimento disciplinare (Cons. Stato, IV, 30 maggio 2005, n.2830).

Ne deriva che il mancato inizio del procedimento disciplinare nei prescritti termini – come nella specie – comporta il venir meno del provvedimento di sospensione cautelare con effetto ex tunc, sicchè in caso di cessazione dal servizio del dipendente sottoposto a sospensione cautelare a seguito di procedimento penale, qualora l’amministrazione decida di non iniziare l’azione disciplinare dopo l’intervento del giudicato penale al fine di regolare gli effetti della stessa sospensione cautelare, al medesimo dipendente compete la differenza tra la retribuzione spettante e l’assegno alimentare.

La sospensione cautelare dall’impiego, per sua natura interinale e provvisoria, è destinata a produrre effetti solo fino a quando non intervenga un provvedimento definitivo, ravvisabile esclusivamente in quello adottato al termine del procedimento disciplinare.

Al pubblico dipendente sottoposto a sospensione cautelare a cui non è seguito il provvedimento di destituzione deve essere concessa la "restituito in integrum", dedotto il periodo della eventuale detenzione sofferta e dedotti tutti i compensi percepiti a qualsiasi titolo sul periodo di allontanamento dal lavoro.

Correttamente, quindi, il primo giudice, nel riconoscere le differenze retributive, ha detratto da queste il periodo di detenzione patito, così come quello di interdizione dall’impiego sancito con sentenza penale; debbono essere detratte somme eventualmente percepite in tale periodo; non può invece darsi rilievo alla latitanza che, se impedisce (di fatto) l’effettuazione della prestazione lavorativa, non ostava né alla interruzione della sospensione cautelare né alla attivazione del procedimento disciplinare.

Il pubblico dipendente, nei cui confronti sia stata disposta prima la sospensione cautelare dal servizio per la instaurazione di un processo penale, definito con sentenza di condanna, e poi la sanzione disciplinare della sospensione della qualifica, ha diritto alla "restituito in integrum" per il periodo di sospensione cautelare sofferto in eccedenza rispetto alla durata della sanzione disciplinare (anche Consiglio Stato, ad.plen. 2 maggio 2002, n.4).

Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto.

Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese del presente grado di giudizio, in relazione alla particolarità della fattispecie.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede:

rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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