Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 18-02-2011) 10-03-2011, n. 9858

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 18 febbraio 2010, la Corte di appello di Lecce, in riforma della sentenza emessa l’11 febbraio 2009 dal Tribunale di Lecce, Sezione distaccata di Galatina, con la quale O.C. era stato condannato alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 600,00 di multa, ha ridotto ad Euro 3.000,00 l’ammontare del risarcimento del danno in favore della parte civile, confermando nel resto la condanna inflitta in primo grado, quale imputato di appropriazione indebita aggravata per essersi appropriato di somme trattenute sulla retribuzione di una lavoratrice in vista del relativo versamento ad un istituto finanziario col quale la lavoratrice stessa aveva contratto un mutuo. In particolare, la Corte territoriale, nel disattendere la fondatezza dei rilievi dell’appellante, secondo i quali difetterebbe nella specie l’elemento costitutivo della altruità della res oggetto di appropriazione, al lume dei principi affermati dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 1327 del 27 ottobre 2004, ric. Li Calzi, ha sottolineato come, a base delle argomentazioni svolte in tale sentenza, fosse stato posto quale fulcro dello sviluppo motivazionale la necessità di distinguere i casi in cui il datore di lavoro operi quale sostituto d’imposta, rispetto a quelli in cui egli sia "meramente responsabile per debito altrui". Nella prima ipotesi infatti – e solo in quella – il datore di lavoro "è debitore in proprio", con la conseguenza che l’omesso versamento all’erario di tali somme, "sulle quali non può configurarsi una titolarità attiva da parte del lavoratore (liberato dall’obbligazione tributaria a seguito della ritenuta effettuata), non integra il reato di appropriazione indebita, la cui essenza consiste nella lesione del diritto di proprietà o di altro diritto reale mediante l’abuso di cosa o di denaro altrui". Da qui, sottolinea il Giudice a quo, la conclusione rassegnata nella circostanza dalle Sezioni unite, secondo la quale il mancato versamento alla Cassa edile delle somme "trattenute" dal datore di lavoro sulla retribuzione del dipendente per ferie, gratifiche natalizie e festività non integra il reato di appropriazione indebita, ma solo l’illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, art. 13.

Per contro, ha concluso la Corte territoriale evocando sempre la indicata pronuncia delle Sezioni unite, "in tutti gli altri casi trattati dalla giurisprudenza (come quello oggetto del procedimento in esame), il denaro o la cosa mobile di cui l’agente si appropria, non fanno mai parte ab origine del "patrimonio" del possessore, ma si tratta pur sempre di denaro o cose di "proprietà" diretta o indiretta di altri, che pur confluendo per una determinata ragione nel "patrimonio" dell’agente, non divengono, proprio per il vincolo di destinazione che le caratterizza di sua proprietà, in deroga, come espressamente previsto dall’art. 646 cod. pen. ai principi del diritto civile in tema di acquisto della proprietà di cose fungibili (…) Sicchè, ove l’agente dia alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo per cui la possiede, ovvero a richiesta o alla scadenza non restituisca la cosa o il denaro, commette il reato di appropriazione indebita; tutti casi, tradizionalmente individuati dalla giurisprudenza di legittimità, in cui la somma entra ab estrinseco a far parte del patrimonio del possessore e con questo non si confonde proprio perchè connotata da un vincolo specifico di destinazione". Il che, sottolinea il Giudice dell’appello, sarebbe esattamente ciò che è avvenuto nel caso di specie.

Ha proposto ricorso per cassazione il difensore, il quale contesta con articolati rilievi la tesi interpretativa fatta propria dai giudici del merito, secondo la quale sussisterebbero nella fattispecie in esame i presupposti per ritenere integrato il reato di cui all’art. 646 cod. pen., anch’egli facendo leva sulla richiamata pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte, alla quale, peraltro, ritiene di annettere una diversa portata, dovendosi nella specie applicare, mutatis mutandis, lo stesso principio di diritto evi enunciato, ed escludere, quindi, che le somme "trattenute" dal datore di lavoro a qualsiasi titolo e non versate agli aventi diritto, possa integrare una condotta punibile a norma dell’art. 646 cod. pen..

Sottolinea in particolare il ricorrente che, nel caso di specie, la somma legittimamente "trattenuta" o "ritenuta" dal datore di lavoro per effetto del contratto di cessione del credito sottoscritto dalla parte civile U.S. il 10 febbraio 2000, sarebbe rimasta nella esclusiva disponibilità del "possessore", "confusa ab origine nel suo patrimonio con tutti gli altri beni ed elementi che lo componevano, senza che la stessa sia transitata "ab estrinseco" nella sua disponibilità". Da ciò l’assunto, mutuato dalla richiamata pronuncia delle Sezioni unite, secondo il quale "in tutti i casi di denaro trattenuto dal datore di lavoro al dipendente e destinato a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore), "il denaro trattenuto rimane sempre nel patrimonio del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, ed il datore di lavoro non perde la "proprietà" di tali somme, ma ha soltanto l’obbligo" di versarle alla scadenza all’ente o al terzo cui spettano per legge o per contratto o per accordo economico". Le somme trattenute dal datore di lavoro, dunque, non diverrebbero mai "di proprietà del lavoratore in quanto restano nel patrimonio del datore di lavoro senza che, rispetto ad esse, si realizzi un trasferimento effettivo e preliminare del loro possesso e senza che, rispetto alle medesime, possa dirsi sussistente un vincolo specifico di destinazione".

Sottolineato, poi, come la giurisprudenza più recente sembri orientata a rivalutare una concezione "pancivilistica" dei reati contro il patrimonio, con la conseguenza che le nozioni penalistiche dovrebbero integralmente rinviare alle corrispondenti definizioni date dal diritto privato, e pur dando atto delle peculiarità che caratterizzano il possesso del denaro (bene fungibile che si confonde col patrimonio di chi lo possiede) agli effetti di quanto previsto dall’art. 646 cod. pen., il quale pure ne fa menzione, deve ritenersi che, ove manchi – come nella specie – la consegna del denaro, alla luce dei dieta enunciati dalle Sezioni unite, non può sussistere il reato de quo. Da qui la censura di violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla coerenza delle prospettazioni ermeneutiche su cui si è fondata la sentenza oggetto di impugnativa.

Prima del segnalato intervento delle Sezioni unite, la giurisprudenza di questa Corte si era più volte espressa nel senso che le somme trattenute dal datore di lavoro sulle retribuzioni del dipendente e destinate a terzi a vario titolo (per legge, per contratto collettivo, o per ogni altro atto o fatto idoneo a far sorgere nello stesso datore di lavoro un obbligo giuridico di versare somme per conto del lavoratore) fanno parte integrante della retribuzione spettante al lavoratore come corrispettivo per la prestazione già resa; tali somme, dunque – si affermava – non appartengono più al datore di lavoro, che ne ha solo una disponibilità precaria, posto che esse hanno una destinazione precisa, non modificabile unilateralmente in maniera lecita ma vincolata ad un versamento da effettuare entro un certo termine previsto a garanzia del terzo e del lavoratore. Da ciò si desumeva che commettesse il reato di appropriazione indebita il datore di lavoro che scientemente lasciasse trascorrere il termine per il versamento, manifestando, così, la volontà di appropriarsi di una somma non sua e di cui solo provvisoriamente disponeva (Sez. 2^, 27 giugno 2003, Vecchio, RV 226684; Sez. 2^, 11 febbraio 1999, P.M. in proc. Visentin, RV 213304;

Sez. 2^, 12 maggio 1994, P.M. in proc. Giallini, RV 196734).

Dopo la citata pronuncia delle Sezioni unite, i cui passaggi argomentativi, come si è accennato, sono stati interpretati – con riferimento alla fattispecie in esame – in chiave divergente dalla Corte territoriale e dal ricorrente, sulla base di letture che non appaiono implausibili, si registra un contrasto di giurisprudenza.

Nella sentenza della Sezione 2^ n. 15115 del 4 marzo 2010, ric. P.M. in proc. Russo, si è infatti espressamente richiamata la pronuncia delle Sezioni unite n. 1327 del 2005 per affermare che non sussiste il requisito della altruità del denaro e non può quindi ravvisarsi il reato di appropriazione indebita, in riferimento alla ipotesi di mancato versamento delle quote associative spettanti al sindacato di categoria al quale erano iscritti dipendenti della imputata, che era stata delegata dai lavoratori interessati al versamento delle quote stesse trattenute sullo stipendio.

In altra circostanza, si è, invece, affermato che integra il reato di appropriazione indebita la condotta del datore di lavoro che omette di versare nel termine assegnato le somme di denaro trattenute a titolo di contributi previdenziali sui compensi spettanti al lavoratore (Sez. 2^, 18 marzo 2009, Montanucci, RV 244737).

Alla stregua dei riferiti rilievi, il ricorso deve pertanto essere rimesso alle Sezioni unite di questa Corte per la risoluzione dell’indicato contrasto di giurisprudenza.
P.Q.M.

Visto l’art. 618 cod. proc. pen., rimette il ricorso alle Sezioni unite.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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