Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 03-03-2011) 11-03-2011, n. 10130 Competenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con ordinanza del 20 ottobre 2010 il G.u.p. del Tribunale di Napoli ha respinto l’eccezione di incompetenza funzionale avanzata nell’interesse di M.M.C., diretta a sostenere la competenza del collegio per i reati ministeriali previsto dalla L. Cost. 16 gennaio 1989, n. 1, art. 7, in quanto i delitti contestati all’imputato sarebbero stati commessi durante l’esercizio delle sue funzioni di Ministro della giustizia.

Il G.u.p. ha ritenuto che i reati contestati al M., seppure riferibili al periodo in cui era Ministro della giustizia, non sono collegabili all’esercizio di quella funzione, in quanto caratterizzati da un uso strumentale della sua carica politica di segretario nazionale del partito politico di appartenenza. Inoltre, ha escluso l’obbligo dell’autorità giudiziaria procedente di informare il Senato – cioè la Camera di appartenenza dell’imputato, che all’epoca era anche senatore (art. 5 della legge cost. cit.) – circa la decisione di qualificare come "non ministeriale" il fatto- reato oggetto del procedimento, precisando che un tale onere di comunicazione non è previsto dalla legge e non è neppure ricavabile dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 241 del 2009, ha risolto il conflitto di attribuzione insorto tra Camera e autorità giudiziaria, ritenendo che il dovere di comunicazione sussista pure nel caso di archiviazione del procedimento per diversa qualificazione giuridica del reato.

2. – I difensori dell’imputato hanno proposto ricorso immediato per cassazione sul presupposto dell’abnormità dell’ordinanza in questione, che avrebbe respinto l’eccezione di incompetenza funzionale sollevata dalla difesa dell’imputato senza neppure disporre l’invio degli atti al Senato e con una motivazione connotata da "singolarità ed eccentricità".

Sotto un primo profilo i difensori ricorrenti rilevano una contraddittorietà insita nel provvedimento impugnato là dove il giudice, dopo avere affermato che la riconducibilità dei reati nell’ambito della categoria di quelli indicati dall’art. 96 Cost. spetta solo al pubblico ministero, qualifica egli stesso la natura dei reati contestati all’imputato, escludendone il carattere ministeriale.

Inoltre, i ricorrenti affermano che la tesi sostenuta dal giudice, secondo cui l’obbligo di comunicazione – ovvero di trasmissione – al Senato sussisterebbe solo in caso di archiviazione da parte del collegio previsto dall’art. 7 legge cost. cit. del procedimento a carico di un ministro e non anche nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria, esclusa la natura ministeriale del reato, proceda secondo le vie ordinarie, si pone in netto contrasto con la disciplina vigente in materia, con l’effetto di attribuire alla sola autorità giudiziaria la insindacabile qualificazione del fatto-reato addebitato al ministro, così ledendo le attribuzioni costituzionalmente previste a favore del collegio per i reati ministeriali e della Camera competente, privati di esercitare le proprie competenze al riguardo.

Peraltro, viene evidenziato come la sentenza n. 241 del 2009 della Corte costituzionale, a differenza di quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, ha negato all’autorità giudiziaria procedente la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato, stabilendo che spetta anche alle Camere il diritto di adottare le proprie valutazioni in merito, attraverso l’attivazione del conflitto di attribuzione. hi conclusione, i difensori ricorrenti assumono che l’abnormità del provvedimento impugnato debba essere inquadrata nel fenomeno del cd. sviamento o eccesso di potere giurisdizionale, avendo il G.u.p. del Tribunale di Napoli svolto una funzione riservata ad un diverso organo giurisdizionale (collegio per i reati ministeriali); inoltre, avendo omesso di trasmettere gli atti al Senato, avrebbe privato quest’organo della possibilità di esercitare le proprie prerogative costituzionali.
Motivi della decisione

3. – L’ordinanza oggetto del presente ricorso per cassazione è stata emessa nel corso dell’udienza preliminare, disposta a seguito della richiesta di rinvio a giudizio di M.M.C. per i reati di abuso d’ufficio e di concussione, sull’eccezione di incompetenza funzionale avanzata dai difensori dell’imputato, secondo i quali la competenza a conoscere di tali reati sarebbe dell’apposito collegio previsto dalle L. Cost. n. 1 del 1989, art. 7 (cd. tribunale dei ministri).

Le attribuzioni al collegio previsto dall’art. 7 legge Cost. cit. hanno come presupposto la natura ministeriale del reato e qualora tale presupposto manchi l’accertamento del reato, seppure commesso da un ministro, segue le ordinarie procedure. I problemi che possono sorgere in ordine all’individuazione di quale "giudice" deve procedere, anche in relazione alla qualifica del reato, danno luogo a questioni che investono la "competenza" funzionale dei diversi organi giudiziali interessati, questioni che devono essere risolte con i mezzi che l’ordinamento processuale in questi casi mette a disposizione.

Nella specie, i ricorrenti hanno sollevato un’eccezione di incompetenza che però non è stata accolta dal G.u.p., il quale ha motivato le ragioni della sua scelta con un’ordinanza, rispetto alla quale il nostro sistema processuale, ispirato al principio di tassatività delle impugnazioni, non prevede alcun mezzo tipico di gravame, se non quello dell’impugnazione della sentenza riguardante la responsabilità dell’imputato, momento in cui potrà proporsi nuovamente l’eccezione davanti a nuovi giudici.

D’altra parte non è previsto un mezzo per regolare la competenza, in maniera da assicurare un intervento immediato della Cassazione, come invece accade nel processo civile ove gli artt. 42 e seg. c.p.c., disciplinano appunto il regolamento di competenza (e di giurisdizione). Nella Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988 il mancato inserimento di un meccanismo preventivo che verifichi la corretta attribuzione della competenza è stato giustificato con la preoccupazione che "deduzioni defatigatorie di incompetenza potessero ritardare l’inizio del dibattimento":

scelta del tutto condivisibile in un sistema processuale – come quello riferibile al modello originario – che ha "assoluta urgenza di pervenire all’acquisizione delle prove", ma che oggi, dinanzi alla constatata dilatazione di fatto dei tempi del processo, meriterebbe di essere riconsiderata, in funzione di assicurare immediata certezza alle situazioni giuridiche processuali collegate alle questioni di competenza, anche in considerazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

In realtà, il legislatore ha attribuito alla Cassazione il ruolo di unica autorità deputata alla verifica della legittimità dei provvedimenti del giudice di merito sulla propria competenza, ma attraverso la predisposizione della disciplina sui conflitti di cui agli artt. 28 e seg. c.p.p., differenziandola nettamente dalla categoria delle impugnazioni. Ma perchè possa aversi un conflitto di competenza è necessario che almeno due giudici contemporaneamente prendano o ricusino di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla persona, situazione che nella specie non ricorre.

In conclusione, il provvedimento con cui il G.u.p. del Tribunale di Napoli ha deciso sull’eccezione di incompetenza sollevata dall’imputato non è autonomamente impugnabile.

Tuttavia, una deroga al principio di tassatività dei provvedimenti impugnabili e dei mezzi di impugnazione è prevista dall’art. 568 c.p.p., comma 2, che riconosce la generale ricorribilità per cassazione delle sentenze – ad eccezione di quelle sulla competenza che possono dare luogo a conflitto – e in questa deroga sono ricompresi anche gli atti abnormi. Infatti, "se per il principio di tassatività, dovrebbe essere esclusa ogni impugnazione non prevista, è vero pure che il generale rimedio del ricorso per cassazione consente comunque l’esperimento di un gravame atto a rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema processuale o adottato a fini diversi da quelli previsti dall’ordinamento" (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale 1988).

Ed è con riferimento alla ritenuta abnormità dell’ordinanza emessa dal G.u.p. del Tribunale di Napoli che i ricorrenti hanno proposto ricorso immediato per cassazione, sicchè questa Corte è chiamata, innanzitutto, a verificare la sussistenza di quei caratteri di eccezionalità e di singolarità denunciati dai ricorrenti che renderebbero comunque ammissibile il ricorso.

4. – Come è noto, la nozione di provvedimento abnorme è di creazione giurisprudenziale e si è venuta precisando nel tempo attraverso un percorso interpretativo che ha finito per definire come abnorme l’atto che presenti anomalie genetiche ovvero funzionali così incisive da porlo al di fuori dello schema processuale: è proprio questa totale estraneità al sistema che, in mancanza di una specifica impugnazione, giustifica e legittima il ricorso per cassazione, come il solo rimedio possibile.

La casistica è molto ampia, ma volendo offrire una definizione che ricomprenda i principali caratteri del provvedimento abnorme, può dirsi, utilizzando espressioni che si rinvengono in numerose pronunce di questa Corte, che è tale non solo il provvedimento caratterizzato da un contenuto singolare ed eccentrico, tanto da risultare "avulso dall’intero ordinamento processuale", ma anche quello che, "pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite" (Sez. un., 21 gennaio 2010, n. 12822, Marcarino; Sez. un., 26 marzo 2009, n. 25957, P.M. in proc. Toni;

Sez. un., 20 dicembre 2007 n. 5307, Battistella; Sez. un., 24 novembre 1999 n. 26, Magnani; Sez. 2^, 5 giugno 2003, n. 27716, p.o. in proc. Biagia). Si è anche precisato che l’abnormità dell’atto può coinvolgere tanto il profilo strutturale, che riguarda il caso in cui l’atto si pone al di fuori del sistema normativo, quanto il profilo funzionale, che concerne l’ipotesi in cui, pur non ponendosi al di fuori del sistema, determini comunque una stasi del processo, con impossibilità di proseguirlo.

Sulla base dei suindicati criteri, utilizzati dalla giurisprudenza per riconoscere l’abnormità di un provvedimento, deve procedersi a verificare se l’ordinanza impugnata sia affetta da tale tipo di patologia.

5. – Innanzitutto, l’ordinanza non può considerarsi abnorme con riferimento ad una ritenuta contraddittorietà della motivazione, nel punto in cui i ricorrenti rilevano una antinomia tra l’affermazione che attribuisce al pubblico ministero "la verifica che gli atti consentano di ipotizzare un reato" e il riconoscimento della natura non ministeriale dei reati da parte dello stesso G.u.p..

Ciò che è stato dedotto è, a tutto concedere, un vizio di motivazione, inidoneo di per sè a dimostrare l’abnormità dell’atto.

In ogni caso, nel passaggio motivazionale censurato non si rinviene alcuna contraddizione, anzi l’argomentazione che riconosce sia al pubblico ministero che al giudice il compito di qualificare il reato appare coerente e corretta, come si dirà in prosieguo.

6. – Più articolate le ragioni poste a fondamento dell’altro motivo, con cui i ricorrenti denunciano l’abnormità del provvedimento sotto differenti profili, tutti riconducibili alla ritenuta violazione della disciplina in materia, con riferimento, in particolare, all’obbligo di informare comunque la Camera di appartenenza dell’imputato, la cui omissione sarebbe lesiva delle attribuzioni costituzionalmente previste a favore del Parlamento, perchè significherebbe riconoscere alla sola autorità giudiziaria procedente "la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato", in contrasto con quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 241 del 2009, secondo cui all’organo parlamentare non può essere sottratta l’autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati. Sarebbero questi i sintomi dello sviamento di potere in cui sarebbe incorso il G.u.p. ponendo in essere il provvedimento ritenuto, per questo, abnorme.

6.1. – Con la riforma del 1989 il legislatore, nel modificare l’art. 96 Cost., che originariamente prevedeva il sistema di messa in stato di accusa dei ministri da parte del Parlamento e il relativo giudizio affidato alla Corte costituzionale in composizione aggregata ( artt. 134 e 135 Cost.), ha voluto valorizzare i meccanismi del "diritto processuale comune" (Corte cost., n. 134/2002), riconducendo l’accertamento della responsabilità penale dei ministri nell’ambito del "processo ordinario", sebbene differenziato per consentire alle Camere, attraverso l’autorizzazione a procedere, di valutare se la condotta oggetto dell’imputazione sia da porre in relazione con un "interesse dello Stato di rilievo costituzionale" ovvero con il perseguimento di un "preminente interesse pubblico".

Si è trattato, quindi, di una riforma certamente non funzionale alla creazione di una speciale guarentigia per i ministri e la riprova è che la competenza a giudicare dei "reati cd. ministeriali" è stata attribuita all’autorità giudiziaria ordinaria, evitando l’istituzione di una giurisdizione speciale. Ed infatti il collegio per i reati ministeriali è "organo specializzato del giudice ordinario", quindi tutto interno alla giurisdizione (Sez. 1^, 22 maggio 2008, n. 28866, conti, comp. in proc. Amato; Sez. 6^, 17 febbraio 1999, n. 564, confl., comp. in proc. De Lorenzo; Sez. 1^, 31 ottobre 1995, n. 5447, confl., comp. in proc. Acampora). Il preliminare compito (rectius competenza) che gli assegna la legge costituzionale è quello di svolgere le indagini, al termine delle quali, ove non ritenga di disporre l’archiviazione, deve trasmettere gli atti al procuratore della Repubblica per l’inoltro immediato alla Camera di appartenenza dell’interessato per le competenti valutazioni in merito all’autorizzazione a procedere e, in caso in cui l’autorizzazione venga concessa, sono attribuiti allo stesso organo specializzato anche poteri decisori in ordine al rinvio a giudizio all’esito della udienza preliminare. E’ una disciplina che, come ha affermato la Corte costituzionale, è volta a "contemperare la garanzia della funzione di governo e l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge", realizzando un ragionevole bilanciamento tra le due esigenze indicate.

6.2. – La sentenza costituzionale n. 241 del 2009, invocata dalle difese ricorrenti, si è preoccupata di garantire tale bilanciamento, chiarendo che in tutti i casi in cui il collegio per i reati ministeriali disponga l’archiviazione debba essere data comunicazione al Presidente della Camera competente.

Invero, nel risolvere il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato la Corte costituzionale, con la sentenza suindicata, ha affermato che l’onere di dare comunicazione al Presidente della Camera competente, previsto dalla L. Cost. n. 1 del 1989, art. 8, comma 4 per i casi di archiviazione, sussiste anche qualora il collegio disponga la cd. archiviazione "asistematica", che non implica una "determinazione negativa sull’esercizio dell’azione penale", ma una diversa qualificazione del reato, escludendone la natura ministeriale. In quest’ultimo caso, la L. n. 219 del 1989, art. 2 prevede che il collegio trasmetta gli atti all’autorità giudiziaria "competente a conoscere del diverso reato" e tale disposizione era stata interpretata dal collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Firenze, nella fattispecie oggetto del conflitto di attribuzione, come non implicante nessun obbligo informativo nei confronti delle Camere.

La Corte costituzionale, invece, ha evidenziato che se l’obbligo di comunicazione è previsto dall’art. 8, comma 4, legge cit. per le ipotesi di archiviazione che definiscono il procedimento – perchè viene ritenuta infondata la notizia di reato, ovvero perchè si ritiene che l’indiziato non abbia commesso il fatto o che il fatto non è previsto come reato o che il reato è estinto ovvero che manchi una condizione di procedibilità – a maggior ragione la comunicazione deve essere data quando la decisione del collegio implica il proseguimento del procedimento nelle forme ordinarie, declinando la propria competenza a conoscere il reato. E’ soprattutto in questa situazione, afferma la Corte costituzionale, che la Camera competente "ha un interesse costituzionalmente protetto ad essere tempestivamente informata, per via istituzionale ed in forma ufficiale", in quanto tale comunicazione costituisce lo strumento con cui la Camera, preso atto che il procedimento contro il ministro prosegue, è posta in condizione di esercitare i propri poteri, compreso quello di sollevare il conflitto di attribuzione qualora ritenga di esser stata "menomata, per effetto della decisione giudiziaria, della potestà riconosciutale dall’art. 96 Cost.".

Ne deriva che una volta che il collegio sia stato investito del reato ritenuto ministeriale, le decisioni che assume al riguardo dovranno sempre essere comunicate alla Camera competente: qualora ritenga di non archiviare, investirà la Camera che dovrà decidere se concedere o meno l’autorizzazione di cui all’art. 96 Cost.; nei casi di archiviazione, compresa quella cd. asistematica, dovrà comunque informare la Camera competente che, ove ritenga siano state violate le prerogative del Parlamento, potrà, ricorrendone le condizioni, sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale.

6.3. – Ed è proprio con riferimento all’obbligo informativo stabilito dalla sentenza n. 241/2009 che i difensori ricorrenti sostengono la natura abnorme dell’ordinanza impugnata, sulla base di una lettura estensiva di quella stessa decisione, da cui ricavano un principio generale, secondo cui in caso di indagine riguardante un ministro l’autorità giudiziaria dovrebbe sempre informare la Camera di riferimento in ordine alla qualifica del reato come non ministeriale, altrimenti all’organo parlamentare verrebbe impedito di esprimere la propria valutazione e, conseguentemente, di sollevare conflitto di attribuzione.

Ma la situazione alla quale si vorrebbero applicare le conclusioni cui è giunta la sentenza sopra menzionata è profondamente diversa dalla fattispecie decisa dalla Corte costituzionale.

Nel procedimento in esame l’autorità giudiziaria procede per un reato comune, ritenuto tale sia dal pubblico ministero, che ha svolto le indagini ed esercitato l’azione penale, richiedendo il rinvio a giudizio dell’imputato, sia dal G.u.p. che su tale richiesta è chiamato a decidere e che, su eccezione della difesa, ha escluso la natura ministeriale dei reati; il collegio previsto dalla L. Cost. n. 1 del 1989, art. 7 non è mai stato investito di alcun reato e di conseguenza non ha emesso alcuna decisione nè, in particolare, ha mai declinato la propria competenza a favore di altra autorità giudiziaria, dopo avere escluso la natura ministeriale dei reati.

Nella presente fattispecie l’obbligo informativo non è richiesto nè dalla legge, nè dalla sentenza n. 241/2009. Ciò proprio perchè, non essendo mai stato chiamato in causa il collegio per i reati ministeriali, non è neppure profilabile un interesse giuridicamente qualificato e, per di più, attuale della Camera di appartenenza dell’inquisito ad interloquire all’interno del procedimento, non venendo in considerazione la natura ministeriale del reato, ma soltanto la qualità soggettiva dell’imputato; una qualità da sola irrilevante al fine dell’esercizio dei poteri di cui alla L. Cost. n. 1 del 1989, art. 9, comma 3.

Ne deriva allora che il "coinvolgimento" parlamentare "per via istituzionale ed in forma ufficiale" è ipotizzabile, nello specifico, solo in presenza dell’archiviazione, soprattutto quella cd. asistematica, disposta dal collegio per i reati ministeriali. Il principio estraibile dalla sentenza della Corte costituzionale è appunto quello secondo cui di ogni provvedimento del collegio per i reati ministeriali che disponga l’archiviazione deve essere data comunicazione al Presidente della Camera competente, tramite la procedura prevista dalla L. Cost. n. 1 del 1989, art. 8, comma 4. Con la conseguenza che la disciplina sul dovere informativo riguarda esclusivamente i rapporti tra collegio per i reati ministeriali e Parlamento, mentre nessun obbligo di tal genere è previsto per l’autorità giudiziaria "ordinaria".

Peraltro, nel caso dell’archiviazione "asistematica", normalmente, si è già verificata una duplice e difforme opinione sulla competenza tra il pubblico ministero, che ha trasmesso la notizia di reato all’organo specializzato ex art. 7 L. cit., e il collegio stesso, che invece ha declinato la sua competenza, negando il carattere ministeriale del reato: è in questa situazione di "incertezza" che la sentenza richiede la comunicazione ufficiale alla Camera, proprio perchè possa intervenire qualora non condivida le determinazioni negative del collegio, sollevando il conflitto di attribuzione.

D’altra parte, che il legislatore del 1989 non abbia voluto prevedere sempre e comunque un dovere informativo a carico dell’autorità giudiziaria lo si desume anche dal fatto che con la riforma sui reati ministeriali non è stata riproposta una disposizione generale come quella delle L. 25 gennaio 1965, n. 20, art. 12, secondo cui in caso di esercizio dell’azione penale nei confronti di un ministro il pubblico ministero doveva sempre informare il Presidente della Camera, che poi avrebbe dato la relativa comunicazione alla Commissione parlamentare inquirente.

6.4. – Sotto un diverso, ma collegato, profilo deve evidenziarsi che l’affermazione della Corte costituzionale, secondo cui all’organo parlamentare non può essere sottratta "una propria e autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria" non può essere intesa, così come assume la difesa dell’imputato, nel senso di negare all’autorità giudiziaria procedente la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato ovvero di attribuirla, sullo stesso piano, al Parlamento.

Il potere di qualificazione del reato, anche con riferimento alla sua natura, ministeriale o meno, spetta sempre all’autorità giudiziaria.

Secondo la L. Cost. n. 1 del 1989 è il pubblico ministero che ricevuta la notitia criminis riguardante una condotta attribuita ad un ministro, omessa ogni indagine, deve trasmettere nel termine di quindici giorni gli atti al collegio per i reati ministeriali.

L’obbligo di trasmissione al collegio, e di conseguenza il divieto di compiere indagini, scatta in presenza di una notitia criminis qualificata, nel senso che dalla stessa sia possibile "direttamente ed immediatamente" ricollegare al ministro la commissione del reato, anche in relazione al collegamento con l’esercizio delle sue funzioni, come prescrive la L. Cost. n. 1 del 1989, art. 4. Ciò significa che in questa prima fase al pubblico ministero è attribuito il compito di valutare, sulla base degli atti ricevuti, se il reato appartiene o meno alla competenza del collegio, valutazione che può comportare anche la possibilità di escludere tale competenza, ritenendo il reato non ministeriale. D’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte afferma che, perchè sia radicata la competenza del collegio, l’ipotesi del "reato ministeriale" deve assumere una qualche consistenza, anche per quanto concerne la riconducibilità del rapporto di strumentale connessione alla competenza funzionale del soggetto politico (Sez. 1^, 22 maggio 2008, n. 28866, confl., comp. in proc. Amato; Sez. un., 20 luglio 1994, n. 14, De Lorenzo, secondo cui sarebbe "arbitrario tanto identificare quel rapporto in un nesso di mera occasionalità con l’esercizio delle funzioni, quanto pretendere che esso sia arricchito di ulteriori elementi qualificanti, come l’abuso dei poteri o delle funzioni, ovvero la violazione dei doveri d’ufficio, non richiesti dalla legge nè suggeriti da una corretta interpretazione").

Pertanto, se al pubblico ministero è riconosciuto, in prima battuta, il potere di qualificare il reato, a maggior ragione si deve ritenere che lo stesso potere spetti al giudice, al quale è sempre attribuita la verifica dei presupposti della propria competenza.

L’autonoma valutazione da parte del Parlamento sulla natura ministeriale del reato, cui si riferisce la Corte costituzionale, va intesa nel senso che la Camera competente deve essere messa in condizione di "interloquire" per esercitare le proprie prerogative, fermo restando che all’autorità giudiziaria spetta la qualifica del reato e l’individuazione del giudice competente. Il coinvolgimento del Parlamento deve avverare "per via istituzionale e in forma ufficiale" solo nei casi in cui il collegio specializzato sia investito della competenza a conoscere del reato; invece, nelle altre ipotesi, in cui l’autorità giudiziaria procede in via "ordinaria", per un reato che non ha ritenuto di natura ministeriale, la Camera competente non "beneficia" di alcuna informativa per via ufficiale, non potendosi comunque escludere che, ricorrendone i presupposti, possa ricorrere allo strumento del conflitto di attribuzione, qualora si ritenga lesa nelle sue prerogative.

Del resto è ciò che è accaduto nel caso in esame, in cui la Camera, a cui del tutto correttamente e legittimamente non è stata data alcuna comunicazione del procedimento in corso, si è attivata autonomamente, richiedendo la trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria e sollevando il conflitto contro la Procura della Repubblica e il G.u.p. del Tribunale di Napoli.

6.5. – L’abnormità del provvedimento in questione deve essere esclusa anche in considerazione del fatto che non si è realizzata alcuna stasi processuale, in quanto le questioni sulla competenza rientrano nelle normali evenienze processuali a cui il sistema reagisce con i meccanismi che si sono sopra indicati e che consentono all’imputato, all’interno del processo, di contestare le scelte del giudice.

7. – Deve pertanto riconoscersi che l’ordinanza impugnata non presenta alcun carattere di abnormità, in quanto il G.u.p. poteva pronunciarsi sulla propria competenza e poteva qualificare il reato come non ministeriale, senza essere tenuto a comunicare alcunchè alla Camera competente.

8. – Esclusa la natura abnorme dell’ordinanza il ricorso deve, conseguentemente, essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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