Corte Costituzionale sentenza N. 227 21 – 24 giugno 2010 .

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 26 del 30-6-2010

Sentenza

nei giudizi di legittimita’ costituzionale degli artt. 18, comma 1,
lettera r), e 19, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n.
69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione
quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al
mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati
membri), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanze del 27
agosto, del 4 settembre, del 28 ottobre e dell’11 novembre 2009,
rispettivamente iscritte ai nn. 298 e 305 del registro ordinanze 2009
ed ai nn. 10 e 45 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 50 e 52, prima serie
speciale, dell’anno 2009 e nn. 5 e 9, prima serie speciale, dell’anno
2010.
Visti l’atto di costituzione di M.K.P. nonche’ gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
Udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 e nella camera di
consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
Uditi l’avvocato Antonio Fiorella per M.K.P. e l’avvocato dello
Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 27 agosto 2009
(r.o. n. 298 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli articoli 3,
27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della
legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto
interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13
giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure
di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se
il mandato d’arresto europeo e’ stato emesso ai fini della esecuzione
di una pena o di una misura di sicurezza privative della liberta’
personale», la corte di appello puo’ disporre che tale pena o misura
di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno,
soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano».
1.1. – Il giudice a quo espone che il Tribunale circondariale di
Rzeszow (Polonia), in data 6 luglio 2006, ha emesso nei confronti del
cittadino polacco M.K.P. un mandato di arresto europeo, in esecuzione
della sentenza definitiva, del 19 novembre 2003, di condanna alla
pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione, pronunciata dalla Corte
distrettuale di Debica (Polonia), per concorso in due rapine,
commesse nei giorni 11 gennaio 2003 e 15 gennaio 2003, mediante
violenza alle persone, uso di armi da fuoco e di fiamma ossidrica,
sottraendo denaro ed altro in due negozi di Debica (Polonia), reati
previsti e puniti dagli artt. 280, 157, ed 11 del codice penale
polacco.
Il condannato deve ancora espiare la pena di anni 3, mesi 1 e
giorni 22 di reclusione e dagli atti acquisiti nel giudizio, secondo
l’ordinanza di rimessione, risulta che egli ha effettiva residenza in
Italia ed ha qui stabilito la sede principale anche dei suoi
interessi affettivi.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 18 giugno 2009,
aveva disposto la consegna del predetto alla competente autorita’
della Polonia, che ne aveva fatto richiesta, ai fini dell’esecuzione
della pena detentiva, affermando che l’art. 18, comma 1, lettera r),
della legge n. 69 del 2005 – stabilendo che, «se il mandato d’arresto
europeo e’ stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una
misura di sicurezza privative della liberta’ personale», puo’ essere
disposto che queste siano eseguite in Italia, conformemente al
diritto interno, soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino
italiano» – escluderebbe che tale facolta’ possa concernere lo
straniero residente in Italia, come ritenuto anche dalla Corte di
cassazione.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.K.P.,
eccependo che erroneamente non sarebbe stato applicato l’art. 19,
comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, pur ricorrendone i
presupposti, e censurando il difetto di motivazione in ordine
all’effettivita’ e continuita’ della sua residenza in Italia. Il
ricorrente ha, inoltre, richiamato le conclusioni rese il 24 marzo
2009 dall’Avvocato generale della Corte di giustizia delle Comunita’
europee, nella causa C-123/08, promossa dal Rechtbank di Amsterdam,
avente ad oggetto l’interpretazione della Decisione quadro del
Consiglio del 13 giugno 2002, n. 2002/584/GAI, «Decisione quadro del
Consiglio relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di
consegna tra Stati membri» (in seguito denominata decisione quadro),
formulate nel senso che, «in conformita’ dell’art. 4, punto 6, della
decisione quadro», un cittadino di un altro Stato membro che dimori o
risieda nello Stato membro di esecuzione, ai sensi di questa
disposizione, e’ assimilato a un cittadino di tale Stato nel senso
che deve poter beneficiare di «una decisione di non esecuzione della
consegna e della possibilita’ di scontare la pena nel detto Stato»,
ed ha quindi chiesto la sospensione del giudizio sino all’esito della
decisione da parte di detta Corte.
1.2. – La Corte di cassazione osserva che il citato art. 18,
comma 1, lettera r), nel prevedere che il destinatario del mandato
d’arresto possa espiare la pena nel nostro Stato, qualora sia
cittadino italiano, riproduce l’art. 4, punto 6, della decisione
quadro e richiama una serie di sentenze della stessa Corte, le quali
hanno escluso l’applicabilita’ di tale norma, in via interpretativa,
allo straniero residente in Italia, osservando che detta decisione
quadro attribuisce agli Stati membri dell’Unione europea la mera
facolta’ di estendere a quest’ultima una tale previsione, qualora sia
stata prevista per i propri cittadini.
Secondo il rimettente, la censura con la quale il ricorrente ha
dedotto l’applicabilita’ nella specie dell’art. 19, comma 1, lettera
c), della legge n. 69 del 2005 e’ infondata. Tale norma prevede,
infatti, che, «se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo ai
fini di un’azione penale e’ cittadino o residente dello Stato
italiano, la consegna e’ subordinata alla condizione che la persona,
dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di
esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative
della liberta’ personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti
nello Stato membro di emissione». Dunque, la disposizione stabilisce,
univocamente, che «soltanto "la persona giudicanda" (cittadino o
residente dello Stato), e per la quale e’ appunto in corso l’azione
penale», puo’ invocare la «consegna subordinata», con conseguente
impossibilita’ di applicarla, mediante un’interpretazione
costituzionalmente orientata o per analogia, al diverso caso del
mandato d’arresto emesso ai fini della esecuzione di una pena
detentiva irrogata con sentenza di condanna irrevocabile.
1.3. – Posta questa premessa, il giudice a quo dubita, in
riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost.,
della legittimita’ costituzionale del citato art. 18, comma 1,
lettera r), nella parte in cui non prevede che anche lo straniero
residente in Italia possa ivi scontare la pena.
In punto di rilevanza, osserva che il ricorrente, «a quanto
risulta, ha fornito la prova necessaria, e nei termini richiesti
dalla giurisprudenza di questa Corte, del suo concreto radicamento
sul territorio e della sua abitudine alla dimora» (cosi’,
testualmente) in Italia.
A suo avviso, la nozione di «residente» va «determinata in modo
che sia funzionale all’assimilazione dello straniero residente al
cittadino, operata dall’art. 4, punto 6, della citata
decisione-quadro», quindi «assume rilievo l’esistenza, nella specie
non contestata, di un "radicamento reale e non estemporaneo" dello
straniero in Italia», qualora questi abbia dimostrato che qui ha
«istituito, con continuita’ temporale e sufficiente stabilita’
territoriale, la sede principale e non occasionale, anche se non
esclusiva, dei propri interessi affettivi, professionali od
economici», in virtu’ di una scelta indicativa di una volonta’ di
stabile permanenza nel territorio italiano, per un apprezzabile
periodo di tempo. Dunque, il ricorrente «avrebbe titolo a vedere
accolta la sua domanda», nel caso in cui la questione sia ritenuta
fondata.
1.3.1. – In ordine alla non manifesta infondatezza della
questione, il rimettente richiama le sentenze della Corte di
cassazione, secondo le quali la norma censurata concerne
esclusivamente il cittadino italiano, affermando che neppure in via
interpretativa essa e’ applicabile allo straniero che dimori o
risieda in Italia. La decisione quadro attribuirebbe, infatti, una
mera facolta’ agli Stati membri dell’Unione europea di estendere le
guarentigie eventualmente riconosciute ai propri cittadini anche agli
stranieri residenti sul loro territorio, in virtu’ di una scelta di
politica criminale riservata alla discrezionalita’ dei legislatori
nazionali, neppure censurabile per l’eventuale sua irragionevolezza.
Su tale facolta’ non avrebbe inciso la sentenza della Corte di
giustizia del 17 luglio 2008, n. 66, Kozlowsky, che ha soltanto
offerto l’interpretazione della nozione di residenza richiamata
nell’art. 4, punto 6, di detta decisione quadro.
La chiara ed univoca lettera del citato art. 18, comma 1, lettera
r), e la sua comparazione con l’art. 19, comma 1, lettera c), della
legge n. 69 del 2005 non permetterebbero una interpretazione diversa
e meno restrittiva di quella offerta nella sentenza impugnata. Anche
la Corte di giustizia ha, infatti, affermato che i giudici nazionali
devono interpretare le norme nazionali alla luce della lettera e
dello scopo della decisione quadro, entro i limiti consentiti dalla
lettera delle medesime (sentenza 16 giugno 2005, n. 105/03, Pupino).
Il rimettente sintetizza, quindi, gli argomenti svolti
dall’Avvocato generale presso la Corte di giustizia, per sostenere
che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro attribuirebbe al
legislatore nazionale la facolta’ di prevedere che l’autorita’
giudiziaria possa rifiutare la consegna per un mandato di arresto
europeo, avente ad oggetto l’esecuzione di una pena, emanato in danno
di un cittadino di tale Stato, ovvero che vi risieda, ma non
consentirebbe di differenziare la situazione del primo rispetto a
quella del secondo. La possibilita’ di prevedere che la pena possa
essere espiata nello Stato al quale e’ richiesta non configurerebbe,
infatti, un privilegio per il cittadino del medesimo, la cui
estensione al mero residente possa essere meramente eventuale,
poiche’ essa e’ strumentale allo scopo di garantire la
«risocializzazione del condannato», mediante la conservazione dei
suoi legami familiari e sociali, cosi’ da permetterne un corretto
reinserimento al termine dell’esecuzione della pena, in virtu’ di una
funzione che non tollera distinzioni tra cittadino e residente.
Identiche ragioni, a suo avviso, sarebbero alla base dell’art. 5,
punto 3, della citata decisione quadro (concernente il mandato
d’arresto processuale), il quale, al fine che qui interessa, parifica
la posizione del cittadino a quella del residente, escludendo che il
legislatore nazionale possa differenziarle. Pertanto, non sarebbe
giustificata la disciplina stabilita nella norma censurata, che opera
una tale differenza, e cio’ anche in quanto l’art. 19, comma 1,
lettera c), della legge n. 69 del 2005, concernente il mandato
d’arresto europeo «processuale», parifica invece il secondo al primo.
Il rimettente sostiene che il «principio di individualizzazione
del regime di (futura) esecuzione» della pena non tollera una
distinzione tra cittadino italiano e straniero residente nel
territorio dello Stato, poiche’ esso e’ preordinato ad «accrescere le
opportunita’ di inserimento del condannato nel tessuto relazionale,
sociale, affettivo, ma anche economico ed abitativo, piu’ funzionale
allo sviluppo delle potenzialita’ socializzanti e rieducative della
pena, inflitta (oppure infliggenda) dallo Stato di emissione, ma
della cui positiva operativita’ vengono a trarre diretto ed immediato
beneficio sia lo Stato di esecuzione, in quanto Stato della
cittadinanza o della residenza del consegnando, sia gli altri Stati
dell’Unione europea», come sottolineato dall’Avvocato generale della
Corte di giustizia nelle conclusioni sopra richiamate.
Lo scopo degli artt. 4, punto 6, e 5, punto 3, della citata
decisione quadro e’ coerente con il principio della finalita’
rieducativa della pena, stabilito dall’art. 27, terzo comma, Cost.,
con la conseguenza che la disciplina stabilita dalla norma censurata
violerebbe anche detto parametro.
Sotto un ulteriore profilo, poiche’ nel caso in esame si tratta
di un cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea, l’art. 18,
comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005 si porrebbe in
contrasto con il principio di non discriminazione stabilito dall’art.
12 del Trattato del 15 marzo 1957 (Trattato che istituisce la
Comunita’ europea), nella versione in vigore dal 1° febbraio 2003 al
30 novembre 2009, in virtu’ del quale chiunque abbia la cittadinanza
di uno Stato membro e’ cittadino dell’Unione (art. 17, n. 1) ed ha
diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni
previste dal Trattato CE e dalle disposizioni adottate in
applicazione dello stesso (art. 18, n. 1).
Pertanto, la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma,
Cost., poiche’ non risulterebbero osservati i «vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario» e l’art. 27, terzo comma, Cost.
1.3.2. – In linea subordinata, e per il caso in cui le censure
riferite ai suindicati parametri costituzionali siano giudicate
infondate, il giudice a quo prospetta che l’art. 18, comma 1, lettera
r), della legge n. 69 del 2005, violerebbe l’art. 3 Cost.
A suo avviso la diversita’ della disciplina rispettivamente
stabilita da detta norma e dall’art. 19, comma 1, lettera c), della
stessa legge sarebbe, infatti, priva di ragionevole giustificazione;
anzi, nel caso disciplinato dalla prima disposizione l’esecuzione
della pena in Italia consente al condannato il mantenimento, per
quanto possibile, delle sue relazioni familiari e sociali, mentre in
quello oggetto della seconda il destinatario del mandato d’arresto
deve essere consegnato allo Stato a cui appartiene l’autorita’ che lo
ha emesso e la restituzione all’Italia, per scontare la pena, e’
destinata ad avvenire quando tali rapporti hanno subito un
affievolimento. Dunque, nella fattispecie disciplinata dal citato
art. 19, comma 1, lettera c), l’esecuzione della condanna nello Stato
di emissione sarebbe meno dannosa che nel caso oggetto della norma
censurata.
2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si e’ costituito M.K.P.,
ricorrente nel processo principale, chiedendo che la questione sia
accolta.
A conforto della rilevanza, la parte deduce che nel giudizio a
quo e’ stato accertato che egli risiede «effettivamente e stabilmente
in Italia con il proprio nucleo familiare», quindi la dichiarazione
di illegittimita’ costituzionale della norma censurata gli
permetterebbe di espiare la pena in Italia, con conseguente rilevanza
delle censure.
M.K.P. fa, quindi, proprie le argomentazioni svolte
nell’ordinanza di rimessione che, sostanzialmente, riproduce per
sostenere che l’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del
2005 violerebbe l’art. 27, terzo comma, Cost., il quale, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, che richiama, vieterebbe che siano
previste modalita’ di esecuzione della pena le quali «azzerino
sostanzialmente i rapporti, le situazioni e i contesti personali e
che comunque ne ostacolino irragionevolmente la prosecuzione,
compatibilmente con l’esecuzione della pena e nel costante rispetto
del principio di proporzione». Questo risultato sarebbe, invece,
realizzato dalla norma censurata che comporterebbe anche
l’impossibilita’ per lo straniero, pur residente in Italia, una volta
consegnato all’autorita’ dello Stato di emissione del mandato di
arresto, di «accedere alle misure alternative previste dalla legge
penitenziaria dello Stato italiano», alle quali «il legislatore
collega effetti sospensivi ed estintivi della pena» e «che potrebbero
consentirgli di conservare – sempre nel limite di compatibilita’ con
i fini della pena – i legami che lo avvincono al territorio ove
stabilmente risiede».
Il citato art. 18, comma 1, lettera r), non ragionevolmente
impedirebbe allo straniero un «effettivo recupero», reso possibile
anche dalla «vicinanza del condannato al suo tessuto esistenziale»,
«criterio espressamente menzionato dall’ordinamento penitenziario
nella disciplina delle assegnazione e dei trasferimenti ai diversi
istituti di pena» (artt. 12 e 42 della legge 26 luglio 1975, n. 354),
impedendogli di fruire dei benefici previsti dall’ordinamento
penitenziario italiano, che gli permetterebbero di avere rapporti di
lavoro utili al sostentamento della propria famiglia, evitando che la
pena, in violazione del principio di proporzione, abbia un contenuto
afflittivo eccedente quello strettamente necessario.
Secondo la parte, «l’effetto di sradicamento» prodotto da detta
norma recherebbe vulnus anche al diritto inviolabile all’unita’ della
famiglia stabilito dagli artt. 2, 29 e 30 Cost., ed al diritto al
rispetto dell’unita’ familiare sancito dall’art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo (Cedu), ratificata con legge 4 agosto
1955, n. 848.
A suo avviso la norma censurata, in violazione dell’art. 3 Cost.,
non ragionevolmente prevedrebbe una diversita’ di disciplina tra il
mandato di arresto avente ad oggetto una pena e quello cosiddetto
processuale, potendo anzi ritenersi giustificato, contrariamente a
quanto stabilito, che in relazione al secondo lo straniero non possa
espiare la pena in Italia.
Il citato art. 18, comma 1, lettera r), sarebbe, inoltre, in
contrasto con la garanzia della liberta’ di circolazione e di
soggiorno spettante ai cittadini dei Paesi dell’Unione europea, in
violazione degli artt. 12, 18 e 49 del Trattato CE, disposizioni che
«si collocano propriamente nell’istituto della cittadinanza
dell’Unione», che ha assunto maggiore rilevanza con il Trattato di
Lisbona, data la sua collocazione nell’art. 9, in apertura del Titolo
II, recante «Disposizioni relative ai diritti democratici»,
risultando ora il diritto alla libera circolazione solennemente
richiamato nel preambolo del Trattato sull’Unione europea ed
esplicitato nell’art. 3, comma 2, e dettagliatamente regolato dagli
artt. 26, comma 2, e 45 e seguenti del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea.
Il ricorrente, a conforto della denunciata violazione delle norme
comunitarie, richiama quindi la sentenza della Corte di giustizia del
6 ottobre 2009, n. 123, secondo la quale «gli Stati membri non
possono, nell’ambito dell’attuazione di una decisione quadro, recare
pregiudizio al diritto comunitario, in particolare alle disposizioni
del Trattato CE relative alla liberta’ riconosciuta a qualsiasi
cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente sul
territorio degli Stati membri» e la discrezionalita’ attribuita agli
Stati membri nel disciplinare i limiti della consegna del
destinatario del mandato di arresto non puo’ essere esercitata in
modo irragionevole e discriminatorio e deve essere ispirata alla
finalita’ di «aumentare le opportunita’ di reinserimento sociale
della persona ricercata alla scadenza della pena cui quest’ultima e’
stata condannata».
La norma censurata violerebbe la liberta’ di circolazione e
soggiorno stabilita dalle norme comunitarie ed il divieto di
discriminazioni fondato sulla nazionalita’. La violazione del diritto
di soggiornare nel territorio dello Stato appare ancora piu’ chiara,
qualora lo straniero risieda da lungo tempo in Italia, tenuto conto
del disposto dell’art. 9, comma 1, lettera d), della legge 5 febbraio
1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), il quale prevede che
puo’ essere concessa la cittadinanza italiana «al cittadino di uno
Stato membro delle Comunita’ europee se risiede legalmente da almeno
quattro anni nel territorio della Repubblica».
Il diritto del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea
di stabilirsi in altro Stato membro della medesima e di soggiornarvi
senza limite di tempo e’ disciplinato anche dalla direttiva 29 aprile
2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di
circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le
direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE,
75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), la quale stabilisce
che «la cittadinanza dell’Unione conferisce a ciascun cittadino
dell’Unione il diritto primario e individuale di circolare e di
soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» e che «la
cittadinanza dell’Unione dovrebbe costituire lo status fondamentale
dei cittadini degli Stati membri quando essi esercitano il loro
diritto di libera circolazione e di soggiorno» (secondo e terzo
«considerando»). Il ventesimo «considerando» dispone, quindi, che
«ogni cittadino dell’Unione e i suoi familiari il cui soggiorno in
uno Stato membro e’ conforme alla presente direttiva dovrebbero
godere in tale Stato membro della parita’ di trattamento rispetto ai
cittadini nazionali nel campo d’applicazione del trattato, fatte
salve le specifiche disposizioni previste espressamente dal trattato
e dal diritto derivato», principio al quale si conformano gli artt.
24 e 27 della direttiva, i quali, rispettivamente, stabiliscono il
principio della parita’ di trattamento e prevedono che il diritto di
circolazione puo’ subire limitazioni soltanto per ragioni di ordine
pubblico, sicurezza pubblica e sanita’, che sono espressamente
identificate.
Siffatta direttiva e’ stata attuata dal decreto legislativo 6
febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa
al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di
circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri), che ha disciplinato le limitazioni al diritto di ingresso e
soggiorno nell’art. 20, stabilendo una disciplina che conferma il
principio in virtu’ del quale l’esistenza di condanne penali non
giustifica di per se’ l’adozione di un provvedimento, come invece
prevedrebbe la norma censurata.
Infine, secondo la parte, neppure puo’ ritenersi che il citato
art. 18, comma 1, lettera r), abbia la finalita’ di dare piena
attuazione alla collaborazione tra gli Stati membri, realizzata anche
mediante il riconoscimento delle sentenze emesse in ciascuno di essi,
dato che questo, nell’attuale stato della legislazione, trova un
limite nel caso in cui la pronuncia concerna un cittadino italiano,
mentre la norma censurata escluderebbe che tale limite venga in
rilievo in riferimento allo straniero residente in Italia.
3. – Nel giudizio e’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
A suo avviso, il rimettente non avrebbe esplicitato le ragioni
che possano far ritenere omologhe, al fine che qui interessa, la
situazione del cittadino italiano e dello straniero che risiede in
Italia e la questione sollevata «poggia contraddittoriamente sulla
negazione del potere discrezionale» del legislatore nazionale di
differenziare dette situazioni.
La difesa dello Stato riproduce il quinto, il settimo e l’ottavo
«considerando» della decisione quadro n. 2002/584/GAI, sostenendo che
obiettivo di tale atto e’ di abolire, tra gli Stati membri, la
procedura di estradizione, sostituendola con un sistema di consegna
tra autorita’ giudiziarie, che appare quindi, fondato sul principio
del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale, che
e’ alla base della cooperazione giudiziaria tra detti Stati.
L’interveniente trascrive l’art. 1 della citata decisione quadro,
nonche’ gli artt. 2 e 3, concernenti le condizioni che rendono
ammissibile l’esecuzione del mandato d’arresto europeo; osserva che
l’art. 4, punto 6, dispone che, «se il mandato d’arresto europeo e’
stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura
di sicurezza privative della liberta’, qualora la persona ricercata
dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o vi
risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena o
misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno», mentre
l’art. 5, punto 3, prevede che, «se la persona oggetto del mandato
d’arresto europeo ai fini di un’azione penale e’ cittadino o
residente dello Stato membro di esecuzione, la consegna puo’ essere
subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata
ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per
scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della liberta’
eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro
emittente»; sintetizza la disciplina stabilita dagli artt. 11, 15 e
17 in tema di diritti della persona destinataria del mandato
d’arresto europeo e di modalita’ della consegna e della esecuzione.
Posta questa premessa, la difesa erariale deduce che la sentenza
della Corte di giustizia del 17 luglio 2008, causa C-66/08,
Kozłowski, ha affermato che l’art. 4, punto 6, della citata decisione
quadro va interpretato nel senso che una persona ricercata abbia
fissato la residenza effettiva nello Stato membro dove deve essere
eseguito il mandato d’arresto, ovvero abbia nello stesso la propria
dimora, allorche’ ci si trovi in presenza di un soggiorno stabile di
una certa durata, che permetta di acquisire con tale Stato quei
legami di particolare intensita’ che si instaurano in caso di
residenza, dovendo le nozioni di «residenza» e «dimora» essere
identiche per tutti gli Stati dell’Unione europea.
La sentenza confermerebbe che la decisione quadro non equipara il
cittadino al dimorante e al residente e che il parametro di
riferimento per non dare corso al mandato di arresto sarebbe
costituito dal livello di integrazione del destinatario del mandato
di arresto con lo Stato dove esso deve essere eseguito.
L’interveniente riproduce, quindi, ampi brani della sentenza
della Corte di giustizia del 6 ottobre 2009, C-123/08, Wolzenburg,
secondo la quale l’art. 4, punto 6, della citata decisione quadro
attribuirebbe al legislatore nazionale la facolta’ di disciplinare
diversamente la situazione del cittadino e quella dello straniero
residente nel territorio dello Stato. Siffatta facolta’ ha costituito
oggetto degli artt. 18 e 19 della legge n. 69 del 2005, che la difesa
erariale si limita a trascrivere, affermando che tali disposizioni
«costituiscono presupposto per la valutazione delle scelte operate in
merito alla consegna del destinatario di un mandato d’arresto
europeo», senza svolgere ulteriori considerazioni.
Relativamente alle censure riferite agli artt. 3 e 27, terzo
comma, Cost., l’interveniente osserva che l’art. 4, punto 6, della
decisione quadro disciplina il caso in cui puo’ essere rifiutata la
consegna del destinatario del mandato d’arresto, stabilendo una
disciplina ispirata alla finalita’ di favorire il reinserimento
sociale del condannato, tenendo conto dei legami che egli ha in un
determinato Stato. Tuttavia, a suo avviso, questa finalita’, secondo
la Corte di giustizia, non esclude che il legislatore nazionale possa
limitare le situazioni riconducibili al citato art. 4, punto 6,
sicche’ i vizi denunciati dalla Corte di cassazione consisterebbero
in «una censura all’esercizio del potere di recepimento». Le
situazioni del cittadino e dello straniero residente nello Stato
sarebbero diverse e la circostanza che il condannato si e’
allontanato dallo Stato di cui e’ cittadino ed in cui dovrebbe
scontare la pena sarebbe «significativa della sua personalita’
sociale»; la sua consegna «al giudice naturale» consentirebbe a
questi di «valutare la condotta del reo e di comminargli la pena che,
in base all’ordinamento penale naturale, ne consenta il recupero
sociale attraverso la presa di coscienza dei valori violati». La
decisione di consegnare il destinatario del mandato d’arresto sarebbe
«conseguenza di una valutazione complessiva, operata in base a canoni
prestabiliti, del "fatto reato" e della sua "valutazione" da parte
dell’ordinamento richiedente». Inoltre, il ravvedimento del
condannato dovrebbe essere «rapportato non ad una societa’ astratta,
ma alla societa’ di appartenenza», che e’ appunto quella nazionale.
La «cittadinanza», la «residenza» e la «dimora»
identificherebbero l’ambito della discrezionalita’ riservata agli
Stati membri che, in base ad esse, possono apprezzare se la condanna
comprometta la politica criminale scelta; la ragione della mancata
consegna «sta all’evidenza nell’interesse dell’Italia a che la
rieducazione del condannato avvenga con riferimento alla societa’
italiana anche se il valore sociale vulnerato non e’ condiviso dalla
societa’ italiana».
In definitiva, conclude l’Avvocatura, «la ragione per la quale
non e’ concessa la consegna del cittadino italiano per espiare una
condanna inflitta dal giudice naturale del "fatto reato" e’
chiaramente quella del disvalore sociale della condotta di un
cittadino che si sottrae alla responsabilita’ contratta con la
commissione di un reato nello Stato richiedente; mentre per il caso
del "residente" il disvalore per la sua condotta nulla ha a che fare
con la sua personalita’ e con le ragioni che lo hanno condotto ad
esercitare il diritto di stabilimento in via strumentale», con
conseguente infondatezza della questione.
4. – La Corte di cassazione, con tre ordinanze, del 4 settembre
2009 (r.o. n. 305 del 2009), del 28 ottobre 2009 (r.o. n. 10 del
2010) e dell’11 novembre 2009 (r.o. n. 45 del 2010), pronunciate in
altrettanti giudizi, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27,
terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della
legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto
interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13
giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure
di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se
il mandato d’arresto europeo e’ stato emesso ai fini della esecuzione
di una pena o di una misura di sicurezza privative della liberta’
personale», la corte di appello puo’ disporre che tale pena o misura
di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno,
«qualora la persona ricercata sia cittadino italiano».
4.1. – La prima ordinanza (r.o. n. 305 del 2009) espone che
M.C.N., cittadino rumeno, e’ stato arrestato in Italia l’11 giugno
2009, in quanto destinatario di un mandato arresto europeo emesso dal
Tribunale di Strehaia (Romania) in data 12 marzo 2009, in esecuzione
della sentenza pronunciata dal medesimo Tribunale in data 1° marzo
2005, divenuta irrevocabile il 6 ottobre, di condanna alla pena di
anni tre di reclusione, per il reato di omicidio colposo previsto e
punito dall’art. 178 del codice penale della Romania, commesso nel
maggio 2004. Detta pronuncia ha anche disposto la revoca del
beneficio della sospensione condizionale della pena concesso dal
Tribunale di Drobetsa Turno, con sentenza del 14 ottobre 2002, di
condanna per il reato di furto, previsto e punito dagli artt. 208 e
209 del codice penale di tale Stato.
La Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 7 agosto 2009,
aveva disposto la consegna di M.C.N. al Tribunale di Strehaia, ai
sensi della legge n. 69 del 2005, ritenendo inapplicabile l’art. 18,
comma 1, lettera r), di tale legge.
Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione
M.C.N., deducendone l’erroneita’, in quanto non ha ritenuto
applicabile quest’ultima norma, ed eccependo la mancanza e/o
manifesta illogicita’ della motivazione e la violazione di legge,
nella parte in cui ha escluso l’applicabilita’ dell’art. 19, comma 1,
lettera c), della legge n. 69 del 2005.
4.2. – La seconda ordinanza (r.o. n. 10 del 2010) osserva che
P.S., cittadino polacco residente in Italia, e’ destinatario di un
mandato d’arresto europeo emesso dal Tribunale di Katowice il 4
novembre 2008, in esecuzione della sentenza definitiva, pronunciata
dallo stesso Tribunale il 18 dicembre 2003, di condanna alla pena di
anni tre di reclusione, per il reato di rapina aggravata in danno di
un minore, commesso il 2 gennaio 2003 in Jaworzno (Polonia).
La Corte d’appello di Ancona, con sentenza del 12 agosto 2009,
aveva disposto la consegna di P.S. all’autorita’ richiedente, ai
sensi della legge n. 69 del 2005, ritenendo inapplicabile l’art. 18,
comma 1, lettera r), di tale legge.
P.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza
deducendo l’erronea applicazione delle norme sul mandato di arresto
europeo e la violazione dell’art. 5 della decisione quadro n.
2002/584/GAI, in considerazione della disparita’ di trattamento
realizzata tra cittadini dell’Unione e della sostanziale violazione
del diritto dello straniero di scontare la pena definitiva nello
Stato nel quale, per libera scelta ed in attuazione del principio di
libera circolazione, ha stabilito il centro dei propri interessi.
4.3. – La terza ordinanza (r.o. n. 45 del 2010) deduce che A.S.,
cittadino romeno, e’ stato attinto da un mandato di arresto europeo
del 27 marzo 2007, emesso in esecuzione della sentenza irrevocabile,
pronunciata dal Tribunale di Husi il 24 giugno 2004, per il reato di
guida in stato di ebbrezza, commesso in detta citta’ il 6 agosto
2003; la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 14 settembre
2009, ne aveva disposto la consegna all’autorita’ richiedente.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.S.,
deducendo la violazione dell’art. 7 della legge n. 69 del 2005, in
quanto, alla data del reato, la condotta ascrittagli era punita in
Italia a titolo di contravvenzione, con pena piu’ mite di quella
inflitta dal tribunale romeno, eccependo che, comunque, «lo stesso
fatto di reato oggi in Italia sarebbe "gia’ ricaduto nell’indulto"»;
in ogni caso la pena, se inflitta da un Tribunale italiano, sarebbe
estinta per prescrizione e, comunque, la Corte d’appello avrebbe
dovuto verificare se in Romania fosse intervenuta la prescrizione.
Il ricorrente, all’udienza camerale, ha chiesto di potere
scontare la pena in Italia.
4.4. – Le ordinanze di rimessione, poste tali premesse, dubitano,
in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma,
Cost., della legittimita’ costituzionale del citato art. 18, comma 1,
lettera r), della legge n. 69 del 2005, nella parte in cui prevede
che il destinatario del mandato d’arresto europeo «emesso ai fini
della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative
della liberta’ personale» possa scontare la pena in Italia,
esclusivamente qualora «sia cittadino italiano».
Secondo i giudici a quibus, la questione sarebbe rilevante,
poiche’ i ricorrenti hanno fornito la prova necessaria del loro
«concreto radicamento sul territorio» e della loro stabile ed
abituale dimora in Italia, sicche’ avrebbero titolo a vedere accolta
la domanda, qualora la norma censurata sia dichiarata
costituzionalmente illegittima.
I rimettenti motivano, quindi, la non manifesta infondatezza in
relazione ai parametri evocati riproducendo, quasi testualmente, le
argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione della Corte di
cassazione del 27 agosto 2009, sopra sintetizzata, anche in ordine
all’impossibilita’ di superare il dubbio di illegittimita’ mediante
un’interpretazione costituzionalmente orientata.
5. – Nel giudizio introdotto dall’ordinanza r.o. n. 10 del 2010,
la Corte di cassazione, con nota ricevuta da questa Corte il 28
dicembre 2009, ha trasmesso l’istanza del 15 dicembre 2009 inoltrata
da P.S. alla Corte d’appello di Ancona, con la quale egli dichiara di
non opporsi alla consegna all’autorita’ giudiziaria della Polonia,
poiche’ in tale Stato vivono la figlia di 16 mesi, la convivente e
tutta la sua famiglia e «dichiara di voler rinunciare da subito alla
eventuale udienza dinanzi alla Corte costituzionale», avente ad
oggetto la questione di legittimita’ sopra indicata.
La Corte di cassazione, con nota del 17 febbraio 2010, ha
trasmesso dichiarazione di rinuncia all’impugnazione proposta da P.S.
in data 28 gennaio 2010 e con la quale egli insiste, affinche’ sia
autorizzata la sua consegna all’autorita’ giudiziaria della Polonia.
6. – In tutti i giudizi dinanzi a questa Corte e’ intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nei distinti atti, di
contenuto sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia
dichiarata infondata, riproducendo a conforto gli argomenti svolti
nell’atto di intervento relativo al giudizio introdotto
dall’ordinanza n. 298 del 2009, sopra sintetizzato.

Considerato in diritto

1. – Vengono all’esame della Corte quattro ordinanze di
rimessione (r.o. n. 298 e 305 del 2009 e r.o. n. 10 e 45 del 2010) –
la prima trattata all’udienza pubblica dell’ 11 maggio 2010 e le
altre nella camera di consiglio del successivo 12 maggio – con le
quali la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22
aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno
alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002,
relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna
tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se il mandato
d’arresto europeo e’ stato emesso ai fini della esecuzione di una
pena o di una misura di sicurezza privative della liberta’
personale», la Corte di appello puo’ rifiutare l’esecuzione del
mandato d’arresto e disporre che la pena o la misura di sicurezza sia
eseguita in Italia conformemente al diritto interno, soltanto
«qualora la persona ricercata sia cittadino italiano».
1.1. – In virtu’ dell’identita’ delle questioni sollevate e degli
argomenti utilizzati va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di
un’unica trattazione e di un’unica pronuncia.
2. – I rimettenti deducono, in primo luogo, la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto la norma dell’Unione
europea che integra il parametro costituzionale, l’art. 4, punto 6,
della decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002, n.
2002/584/GAI, «Decisione quadro del Consiglio relativa al mandato
d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri» (in
seguito denominata decisione quadro), attribuisce al legislatore
nazionale la facolta’ di prevedere che l’autorita’ giudiziaria
rifiuti la consegna del condannato ai fini dell’esecuzione della pena
detentiva nello Stato emittente quando si tratti di un cittadino
dello Stato dell’esecuzione, ovvero ivi risieda o vi abbia dimora, ma
non consentirebbe di limitare il rifiuto al solo cittadino, come
viceversa ha disposto la norma censurata della legge italiana di
attuazione della decisione quadro.
2.1. – Inoltre, e di conseguenza, la disposizione in esame, nel
dare attuazione in modo non corretto alla disposizione corrispondente
della decisione quadro, avrebbe violato anche il principio di non
discriminazione in base alla nazionalita’ (art. 12 del Trattato CE,
nella versione in vigore fino al 30 novembre 2009, poi art. 18 TFUE,
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), in quanto ha negato
in modo assoluto al cittadino di altro Stato membro dell’Unione la
possibilita’ della detenzione in Italia, che ha invece consentito al
cittadino italiano.
2.2. – In linea subordinata, i rimettenti ritengono che la
possibilita’ di espiare la pena nello Stato del quale il destinatario
del mandato di arresto europeo (in seguito, MAE) e’ cittadino o nel
quale risiede o dimora e’ diretta a garantire la «risocializzazione
del condannato», mediante la conservazione dei suoi legami familiari
e sociali, allo scopo di facilitarne il corretto reinserimento al
termine dell’esecuzione della pena, funzione, questa, che costituisce
attuazione della finalita’ rieducativa della pena sancita dall’art.
27, terzo comma, Cost. Ne conseguirebbe la violazione anche di questo
parametro costituzionale, che al riguardo non consentirebbe una
discriminazione tra cittadino italiano e cittadino di altro Stato
membro dell’Unione.
2.3. – In linea subordinata, e per il caso che le censure
riferite ai suindicati parametri costituzionali non fossero giudicate
fondate, i rimettenti deducono che la citata disposizione
contrasterebbe altresi’ con l’art. 3 Cost., poiche’ sarebbe priva di
ragionevole giustificazione la diversita’ di disciplina stabilita
dalla medesima rispetto all’art. 19, comma 1, lettera c), della legge
n. 69 del 2005. Quest’ultima norma riguarda l’ipotesi di MAE
finalizzato allo svolgimento del processo penale e pone sullo stesso
piano il cittadino e il residente nel subordinare la consegna a
determinate condizioni.
2.4. – In punto di rilevanza, i giudici a quibus precisano che le
persone per le quali sono stati emessi i MAE ai fini dell’esecuzione
della pena risiedono legittimamente in Italia, in quanto hanno
fornito la prova di un «concreto radicamento sul territorio» e di
«abitudine alla dimora»; in breve, di un «radicamento reale e non
estemporaneo» in Italia, avendo qui individuato la sede principale
dei loro interessi. I rimettenti deducono, pertanto, che tali
soggetti hanno titolo a che, se la sospetta incostituzionalita’ della
norma impugnata venisse accertata, la consegna sia rifiutata e la
pena detentiva espiata in Italia.
3. – Preliminarmente, in relazione al giudizio relativo
all’ordinanza iscritta al r.o. n. 10 del 2010, va rilevato che la
rinuncia al ricorso, trasmessa dalla Corte di cassazione, con nota
del 17 febbraio 2010, non puo’ esplicare effetti sul giudizio di
legittimita’ costituzionale, in quanto questo, «una volta iniziato in
seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente non e’
suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto
concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato»,
come previsto dall’art. 18 delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale, nel testo approvato il 7 ottobre
2008 (in riferimento all’identica norma contenuta in precedenza
nell’art. 22: sentenza n. 244 del 2005; ordinanze n. 270 del 2003 e
n. 383 del 2002).
3.1. – Ancora in limine, deve rilevarsi che i parametri ed i
profili di costituzionalita’, evocati dalla parte privata costituita
nel giudizio innanzi a questa Corte, introdotto dall’ordinanza r.o.
n. 298 del 2009, e diversi da quelli evocati dal giudice rimettente,
non possono formare oggetto della decisione. Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di
costituzionalita’ in via incidentale e’, infatti, limitato alle norme
ed ai parametri indicati, pur se implicitamente, nelle ordinanze di
rimessione, non potendo essere presi in considerazione, oltre i
limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di
costituzionalita’ dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti
ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad
ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse
ordinanze (sentenze n. 50 del 2010; n. 236 e n. 56 del 2009; n. 130
del 2008).
4. – Nel merito la questione relativa alla violazione dell’art.
117, primo comma, Cost., e’ fondata.
5. – La censura principale svolta nelle quattro ordinanze
denuncia un contrasto, insanabile in via interpretativa, tra una
norma interna e la disposizione di un atto dell’Unione europea alla
quale la prima ha dato attuazione.
L’atto dell’Unione che viene in rilievo e’ la decisione quadro n.
584 del 2002, relativa al MAE. Con tale atto gli Stati membri hanno
sostituito, nei loro rapporti reciproci, la procedura di estradizione
prevista da piu’ convenzioni internazionali con un sistema
semplificato, diretto, per quanto qui interessa, alla consegna da uno
Stato membro (di esecuzione) ad un altro (di emissione) di soggetti
da sottoporre a giudizio penale ovvero gia’ condannati e che devono
espiare una pena detentiva: la seconda ipotesi e’ quella di specie.
Il quinto «considerando» della decisione quadro spiega che la
creazione di uno spazio di liberta’, sicurezza e giustizia impone la
soppressione dell’estradizione tra Stati membri e la sua sostituzione
con un sistema di consegna tra autorita’ giudiziarie. Il decimo
«considerando» indica che la decisione quadro si fonda su un «elevato
grado di fiducia tra gli Stati membri», sul presupposto della
omogeneita’ di sistemi giuridici e sulla garanzia equivalente dei
diritti fondamentali.
L’introduzione del nuovo sistema semplificato di consegna delle
persone condannate o imputate consente, in breve, di eliminare la
complessita’ e i potenziali ritardi inerenti alla disciplina
dell’estradizione. Questa Corte ha in proposito rilevato che «Il
mandato d’arresto europeo poggia sul principio dell’immediato e
reciproco riconoscimento del provvedimento giurisdizionale. Tale
istituto, infatti, a differenza dell’estradizione non postula alcun
rapporto intergovernativo, ma si fonda sui rapporti diretti tra le
varie autorita’ giurisdizionali dei Paesi membri, con l’introduzione
di un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate
o sospettate» (sentenza n. 143 del 2008).
Il sistema del MAE, in definitiva, da’ luogo ad un rapporto
semplificato e diretto fra autorita’ giudiziarie, volto a consentire
la circolazione delle decisioni giudiziarie aventi ad oggetto un
mandato, in funzione di un processo penale ovvero dell’esecuzione di
una pena detentiva. L’obiettivo e’ stato poi sancito anche nella
successiva decisione quadro del Consiglio, 27 novembre 2008, n.
2008/909/GAI «relativa all’applicazione del principio del reciproco
riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o
misure privative della liberta’ personale, ai fini della loro
esecuzione nell’Unione europea». Tale decisione e’ entrata in vigore
il 5 dicembre 2008, mentre il termine di trasposizione per gli Stati
membri e’ il 5 dicembre 2011 (art. 29, par. 1).
La decisione quadro n. 584 del 2002 relativa al MAE e’ un atto
posto in essere nel periodo nel quale, in forza dei Trattati di
Maastricht e poi di Amsterdam, fu introdotto un ambito di competenze
dell’Unione europea relative alla cooperazione di polizia e
giudiziaria in materia penale (c.d. terzo pilastro), esercitate con
modalita’ (metodo intergovernativo) e strumenti normativi almeno
formalmente diversi da quelli comunitari. In particolare, per il
ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli
Stati membri in questa materia, il Consiglio adottava, su iniziativa
di uno o piu’ Stati membri o della Commissione, una decisione quadro.
L’atto vincolava gli Stati membri «quanto al risultato da ottenere,
salva restando la competenza delle autorita’ nazionali quanto alla
forma e ai mezzi» (art. 34 TUE), con una formula che ripeteva quella
da sempre utilizzata per le direttive. Sul versante dell’Unione, la
decisione quadro richiedeva l’unanimita’ del Consiglio, quindi degli
Stati membri; sul versante interno, richiedeva, in quanto
espressamente sprovvista della diretta applicabilita’ ed efficacia,
gli adempimenti dovuti per la sua puntuale attuazione.
La Corte di giustizia delle Comunita’ europee (ora Corte di
giustizia dell’Unione europea) ha chiarito gli effetti della
decisione quadro. In particolare, il giudice del Lussemburgo ha
affermato, in primo luogo, l’obbligo di interpretazione conforme del
diritto interno alla lettera ed allo scopo della decisione quadro,
muovendo dal riconoscimento del carattere vincolante dell’atto quanto
al risultato, analogo a quello della direttiva, cosi’ realizzandone
una parziale parificazione (sentenza 16 giugno 2005, C-105/03,
Pupino). In successive occasioni, lo stesso giudice, ha confermato la
validita’ della decisione quadro sul MAE (sentenza 3 maggio 2007,
C-303/05, Advocaten voor de Wereld), ed ha fornito, su rinvio
pregiudiziale di giudici nazionali, la sua interpretazione della
norma sul rifiuto di consegna e sulle nozioni di residenza e dimora,
affermando che i soggetti esclusi dal beneficio del rifiuto della
consegna ai fini dell’esecuzione della pena sono legittimati a far
valere la lesione derivante dal contrasto di norme nazionali con le
norme della decisione quadro (sentenze 6 ottobre 2009, C-123/08,
Wolzenburg; 17 luglio 2008, C-66/08, Kozlowsky).
Con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre del
2009 e precedentemente oggetto della legge italiana di adattamento 2
agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona
che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che
istituisce la Comunita’ europea e alcuni atti connessi, con atto
finale, protocolli e dichiarazioni, firmato a Lisbona il 13 dicembre
2007), la cooperazione giudiziaria in materia penale non e’ piu’
oggetto di un ambito di competenze esercitate con metodo
intergovernativo, ma e’ disciplinata dal capo 4, titolo V, del
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 82 e seguenti),
quindi oggetto di competenze esercitate con l’ordinario e diverso
metodo comunitario; l’atto con il quale si interviene sulla
disciplina della materia e’ la direttiva, adottata secondo la
procedura legislativa ordinaria (art. 82 TFUE).
6. – Alla decisione quadro sul MAE e’ stata data attuazione nel
nostro ordinamento con la legge 22 aprile 2005, n. 69.
L’articolo 18 prevede una serie di motivi che rendono
obbligatorio il rifiuto della consegna; il comma 1, lettera r), e’ la
disposizione che ha inteso dare specifica attuazione all’art. 4,
punto 6, della decisione quadro. Oggetto della presente questione di
legittimita’ costituzionale e’ la limitazione del rifiuto al solo
cittadino italiano.
7. – I giudici rimettenti hanno evocato il parametro dell’art.
117, primo comma, della Costituzione, facendo applicazione, peraltro,
dei principi della giurisprudenza costituzionale in ordine al
complessivo rapporto tra l’ordinamento giuridico italiano e il
diritto dell’Unione europea affermati e ribaditi in forza dell’art.
11 Cost. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la
questione di legittimita’ costituzionale va «scrutinata avendo
riguardo anche ai parametri costituzionali non formalmente evocati
[…], qualora tale atto faccia ad essi chiaro riferimento, sia pure
implicito […], mediante il richiamo dei principi da questi
enunciati» (ex multis sentenze n. 170 del 2008, n. 26 del 2003, n. 69
del 1999, n. 99 del 1997).
Questa Corte, fin dalle prime occasioni nelle quali e’ stata
chiamata a definire il rapporto tra ordinamento nazionale e diritto
comunitario, ne ha individuato il «sicuro fondamento» nell’art. 11
Cost. (in particolare, sentenze n. 232 del 1975 e n. 183 del 1973; ma
gia’ in precedenza, le sentenze n. 98 del 1965 e n. 14 del 1964). E’
in forza di tale parametro, collocato non senza significato e
conseguenze tra i principi fondamentali della Carta, che si e’
demandato alle Comunita’ europee, oggi Unione europea, di esercitare
in luogo degli Stati membri competenze normative in determinate
materie, nei limiti del principio di attribuzione. E’ sempre in forza
dell’art. 11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto il potere-dovere
del giudice comune, e prima ancora dell’amministrazione, di dare
immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto
diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto
insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di
legittimita’ costituzionale per violazione di quel parametro
costituzionale quando il contrasto fosse con norme comunitarie prive
di effetto diretto (sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). E’,
infine, in forza delle limitazioni di sovranita’ consentite dall’art.
11 Cost. che questa Corte ha riconosciuto la portata e le diverse
implicazioni della prevalenza del diritto comunitario anche rispetto
a norme costituzionali (sentenza n. 126 del 1996), individuandone il
solo limite nel contrasto con i principi fondamentali dell’assetto
costituzionale dello Stato ovvero dei diritti inalienabili della
persona (sentenza n. 170 del 1984).
Quanto all’art. 117, primo comma, Cost., nella formulazione
novellata dalla riforma del titolo quinto, seconda parte della
Costituzione, questa Corte ne ha precisato la portata, affermando che
tale disposizione ha colmato la lacuna della mancata copertura
costituzionale per le norme internazionali convenzionali, ivi
compresa la Convenzione di Roma dei diritti dell’uomo e delle
liberta’ fondamentali (CEDU), escluse dalla previsione dell’art. 10,
primo comma, Cost. (sentenze n. 348 e 349 del 2007). L’art. 117,
primo comma, Cost. ha dunque confermato espressamente, in parte, cio’
che era stato gia’ collegato all’art. 11 Cost., e cioe’ l’obbligo del
legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario. Il limite all’esercizio della funzione
legislativa imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e’ tuttavia
solo uno degli elementi rilevanti del rapporto tra diritto interno e
diritto dell’Unione europea, rapporto che, complessivamente
considerato e come disegnato da questa Corte nel corso degli ultimi
decenni, trova ancora «sicuro fondamento» nell’art. 11 Cost. Restano,
infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al
vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilita’
internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano dalle
limitazioni di sovranita’ che solo l’art. 11 Cost. consente, sul
piano sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e i
giudici. In particolare, quanto ad eventuali contrasti con la
Costituzione, resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme
internazionali convenzionali (compresa la CEDU: sentenze n. 348 e n.
349 del 2007), l’esercizio dei poteri normativi delegati all’Unione
europea trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali
dell’assetto costituzionale e nella maggior tutela dei diritti
inalienabili della persona (sentenze n. 102 del 2008, n. 284 del
2007, n.169 del 2006).
7.1. – Nel caso in esame, i rimettenti hanno correttamente
valutato, in primo luogo, l’esistenza del contrasto tra la norma
impugnata e la decisione quadro, esplicitando le ragioni che
precludono l’interpretazione conforme. La motivazione sul punto e’
plausibile, in quanto numerose decisioni della stessa Corte di
cassazione configurano un «diritto vivente» in ordine
all’applicabilita’ nella specie ed alla portata dell’art. 18, comma
1, lettera r), in particolare alla non riferibilita’ di questa norma
allo straniero dimorante o residente in Italia. Peraltro, tale
interpretazione risulta suffragata sia dalla lettera della
disposizione, che dai lavori preparatori, espressivi dell’intento
specifico di escludere per il MAE in executivis il rifiuto di
consegna dei cittadini di altri Paesi dell’UE, esclusione oggetto di
uno specifico emendamento.
Ne consegue, anzitutto, che il contrasto tra la normativa di
recepimento e la decisione quadro, insanabile in via interpretativa,
non poteva trovare rimedio nella disapplicazione della norma
nazionale da parte del giudice comune, trattandosi di norma
dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere
sottoposto alla verifica di costituzionalita’ di questa Corte. In
secondo luogo, gli atti nazionali che danno attuazione ad una
decisione quadro con base giuridica nel TUE, ed in particolare
nell’ex terzo pilastro relativo alla cooperazione giudiziaria in
materia penale, non sono sottratti alla verifica di legittimita’
rispetto alle conferenti norme del Trattato CE, ora Trattato FUE, che
integrano a loro volta i parametri costituzionali – artt. 11 e 117,
primo comma, Cost. – che a quelle norme fanno rinvio.
Nella specie rileva, infatti, oltre alla decisione quadro sul
MAE, l’art. 12 del TCE, oggi art. 18 del TFUE, che vieta ogni
discriminazione in base alla nazionalita’ nel campo di applicazione
del Trattato. Anche sotto tale profilo e’ corretto il ricorso al
giudice delle leggi, dal momento che il contrasto della norma con il
principio di non discriminazione di cui all’art. 12 del Trattato CE,
non e’ sempre di per se’ sufficiente a consentire la «non
applicazione» della confliggente norma interna da parte del giudice
comune. Invero, il divieto in esame, come si evince anche dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia, pur essendo in linea di
principio di diretta applicazione ed efficacia, non e’ dotato di una
portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile
la norma nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello
Stato membro, infatti, e’ consentito di prevedere una limitazione
alla parita’ di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino
di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata,
come, ad esempio, in una fattispecie quale quella che ci occupa, la
previsione di un ragionevole limite temporale al requisito della
residenza del cittadino di uno Stato membro diverso da quello di
esecuzione (Corte di giustizia, sentenza Wolzenburg). Non solo, ma a
precludere al giudice comune la disapplicazione della norma interna
in ipotesi incompatibile, vale anche la circostanza che nella specie
si verte in materia penale e che un provvedimento straniero che
dispone la privazione della liberta’ personale a fini di esecuzione
della pena nello Stato italiano non potrebbe essere eseguito in forza
di una norma dell’Unione alla quale non corrisponda una valida norma
interna di attuazione (sentenza n. 28 del 2010, punto 5).
L’ipotesi di illegittimita’ della norma nazionale per non
corretta attuazione della decisione quadro e’ riconducibile,
pertanto, ai casi nei quali, secondo la giurisprudenza di questa
Corte, non sussiste il potere del giudice comune di «non applicare»
la prima, bensi’ il potere-dovere di sollevare questione di
legittimita’ costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117,
primo comma, Cost., integrati dalla norma conferente dell’Unione,
laddove, come nella specie, sia impossibile escludere il detto
contrasto con gli ordinari strumenti ermeneutici consentiti
dall’ordinamento.
8. – La questione di costituzionalita’ va dunque scrutinata alla
luce dei principi sopra richiamati e della giurisprudenza della Corte
di giustizia in ordine all’interpretazione della decisione quadro. Al
riguardo, infatti, rileva che le sentenze della Corte di giustizia
vincolano il giudice nazionale all’interpretazione da essa fornita,
sia in sede di rinvio pregiudiziale, che in sede di procedura
d’infrazione (sentenze n. 168 del 1991, n. 389 del 1989 e n. 113 del
1985).
Ora, la Corte di giustizia ha affrontato il tema specifico del
rifiuto di consegna oggetto dell’art. 4, punto 6, della decisione
quadro nelle gia’ qui ricordate sentenze Wolzenburg, di cui le
ordinanze di rimessione della Corte di cassazione hanno esaminato le
conclusioni dell’avvocato generale, e Kozlowski. La prima sottolinea
che il motivo di rifiuto stabilito all’art. 4, punto 6, della
decisione quadro, al pari dell’art. 5, punto 3, della stessa, mira a
permettere di accordare una particolare importanza alla possibilita’
di accrescere le opportunita’ di reinserimento sociale della persona
ricercata una volta scontata la pena cui essa e’ stata condannata
(punti 62 e 67); e con questo preciso intento lo Stato membro e’
legittimato a limitare il rifiuto alle «persone che abbiano
dimostrato un sicuro grado di inserimento nella societa’ di detto
Stato membro» (punto 67). D’altra parte, e’ questo uno degli
obiettivi principali («favorire il reinserimento sociale della
persona condannata») del sistema di cooperazione giudiziaria in
materia penale, fondato sul reciproco riconoscimento enunciato dal
Consiglio europeo di Tampere nel 1999, com’e’ ribadito anche all’art.
3 della decisione quadro n. 909 del 2008, sopra ricordata.
Se questa e’ la ratio della norma della decisione quadro cosi’
come interpretata dalla Corte di giustizia, e’ agevole dedurre che il
criterio per individuare il contesto sociale, familiare, lavorativo e
altro, nel quale si rivela piu’ facile e naturale la
risocializzazione del condannato, durante e dopo la detenzione, non
e’ tanto e solo la cittadinanza, ma la residenza stabile, il luogo
principale degli interessi, dei legami familiari, della formazione
dei figli e di quant’altro sia idoneo a rivelare la sussistenza di
quel «radicamento reale e non estemporaneo dello straniero in Italia»
che costituisce la premessa in fatto delle ordinanze di rimessione.
Utilizzando il criterio esclusivo della cittadinanza, escludendo
qualsiasi verifica in ordine alla sussistenza di un legame effettivo
e stabile con lo Stato membro dell’esecuzione, la norma impugnata
tradisce, in definitiva, non solo la lettera, ma anche e soprattutto
la ratio della norma dell’Unione europea alla quale avrebbe dovuto
dare corretta attuazione.
Gli Stati membri certamente avevano la facolta’ di prevedere o di
non prevedere il rifiuto di consegna (di «potere discrezionale certo»
si legge al riguardo nella sentenza Wolzenburg della Corte di
giustizia), non rientrando l’ipotesi di cui all’art. 4, punto 6, qui
rilevante tra le ipotesi di rifiuto obbligatorio prefigurate dalla
decisione quadro. Tuttavia, una volta operata la scelta di prevedere
il rifiuto, andava rispettato il divieto di discriminazione in base
alla nazionalita’ sancito dall’art. 12 del TCE (art. 18 del TFUE a
partire dall’entrata in vigore del Trattato di riforma di Lisbona),
peraltro pienamente osservato dal citato art. 4, punto 6, della
decisione quadro, che espressamente recita: «se il mandato d’arresto
europeo e’ stato rilasciato ai fini dell’esecuzione di una pena o di
una misura di sicurezza privative della liberta’, qualora la persona
ricercata dimori nello Stato membro di esecuzione, ne sia cittadino o
vi risieda, se tale Stato si impegni a eseguire esso stesso tale pena
o misura di sicurezza conformemente al suo diritto interno» [corsivi
aggiunti]. Il divieto di discriminazione in base alla nazionalita’
consente si’ di differenziare la situazione del cittadino di uno
Stato membro dell’Unione rispetto a quella del cittadino di un altro
Stato membro, ma la differenza di trattamento deve avere una
giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad un rigoroso
test di proporzionalita’ rispetto all’obiettivo perseguito. La
previsione, in particolare, di una residenza per la durata di 5 anni
per il non cittadino e’ stata ritenuta dalla Corte di giustizia non
andare oltre quanto e’ necessario per conseguire l’obiettivo volto a
garantire il reinserimento nello Stato membro di esecuzione (sentenza
Wolzenburg, punto 73). A differenza, tuttavia, della legge olandese
di recepimento della decisione quadro sul MAE, oggetto del caso
appena ricordato, la disposizione qui censurata non opera una
limitazione alla parita’ di trattamento del cittadino di un altro
Stato membro dell’Unione rispetto al cittadino italiano con riguardo,
ad esempio, alla durata della residenza aut similia, ma esclude
radicalmente l’ipotesi che il cittadino di altro Stato membro possa
beneficiare del rifiuto di consegna e dunque dell’esecuzione della
pena in Italia. Cio’ si traduce in una discriminazione soggettiva,
del cittadino di altro Paese dell’Unione in quanto straniero, che, in
difetto di una ragionevole giustificazione, non e’ proporzionata.
Va in proposito precisato, poi, che le nozioni di residenza e di
dimora utilizzate dalla decisione quadro, nonche’ per altra ipotesi
dalla legge italiana di recepimento, sono nozioni comunitarie, che
richiedono una interpretazione autonoma ed uniforme, a ragione della
esigenza e della finalita’ di applicazione uniforme che e’ alla base
della decisione quadro. Ebbene, la Corte di giustizia non ha mancato,
nella ricordata sentenza Kozlowski, di fornire la sua interpretazione
al giudice nazionale; e gli ha fornito indicazioni utili anche su un
piano piu’ generale. In particolare, ha identificato la nozione di
«residenza» con una residenza effettiva nello Stato dell’esecuzione;
e la nozione di «dimora» con un soggiorno stabile di una certa durata
in quello Stato, che consenta di acquisire con tale Stato legami
d’intensita’ pari «a quelli che si instaurano in caso di residenza»
(punto 46). Ad esempio, e per quanto qui rileva, il giudice
comunitario ha sottolineato l’esigenza che il giudice nazionale
proceda ad una valutazione complessiva degli elementi oggettivi che
caratterizzano la situazione del ricercato, come la durata, la natura
e le modalita’ del suo soggiorno, nonche’ i legami familiari ed
economici che ha stabilito nello Stato dell’esecuzione (punti 48 e
54). Ed ha sottolineato, nell’ipotesi che lo straniero risieda o
abbia dimora nello Stato dell’esecuzione, l’esigenza che il giudice
valuti anche l’esistenza di un interesse legittimo del condannato a
che la pena sia scontata in quello Stato (punto 44). La Corte di
giustizia ha, infine, precisato quali circostanze, pur non essendo di
per se’ decisive, possono essere valutate al giusto ai fini della
decisione sulla consegna, ad esempio una dimora non ininterrotta
ovvero il mancato rispetto delle norme in materia di ingresso e
soggiorno nello Stato dell’esecuzione (punto 50).
9. – Alla stregua dei rilievi svolti, va dichiarata
l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r),
della legge di attuazione della decisione quadro sul MAE,
limitatamente alla parte in cui non prevede il rifiuto di consegna
anche del cittadino di un altro Paese membro dell’UE, che
legittimamente ed effettivamente risieda o abbia dimora nel
territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in
Italia conformemente al diritto interno.
All’autorita’ giudiziaria competente spetta, pertanto, accertare
la sussistenza del presupposto della residenza o della dimora,
legittime ed effettive, all’esito di una valutazione complessiva
degli elementi caratterizzanti la situazione della persona, quali,
tra gli altri, la durata, la natura e le modalita’ della sua presenza
in territorio italiano, nonche’ i legami familiari ed economici che
intrattiene nel e con il nostro Paese, in armonia con
l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia dell’Unione
europea. Resta riservata, poi, al legislatore la valutazione
dell’opportunita’ di precisare le condizioni di applicabilita’ al non
cittadino del rifiuto di consegna ai fini dell’esecuzione della pena
in Italia, in conformita’ alle conferenti norme dell’Unione europea,
cosi’ come interpretate dalla Corte di giustizia.
La pronuncia di illegittimita’ costituzionale con riferimento
agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., determina l’assorbimento
delle questioni poste con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma,
Cost.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Riuniti i giudizi,
Dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 18, comma 1,
lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per
conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del
Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo
e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui
non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro
Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed
effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai
fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al
diritto interno.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2010.

Il Presidente: Amirante

Il redattore: Tesauro

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria il 24 giugno 2010.

Il direttore della cancelleria: Di Paola

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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