Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 16-12-2010) 11-03-2011, n. 10109 Relazione tra la sentenza e l’accusa contestata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Catania, in data 26 gennaio 2010, ha confermato la sentenza del Tribunale di Catania del 16 gennaio 2009, che ha condannato C.A. alla pena di anni sei di reclusione e pene accessorie, per i reati di cui all’art. 609-quater c.p., comma 1, n. 1; in danno di Co.Lu., minore infraquattordicenne, in (OMISSIS).

Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato a mezzo di proprio difensore chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:

1. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza della motivazione. I giudici di appello non avrebbero preso in considerazione le seguenti specifiche censure mosse con l’atto d’appello: 1) la minore non avrebbe affermato, difformemente da quanto ritenuto dalla sentenze di primo e secondo grado, di aver subito attenzioni sessuali da parte del C.; 2) l’imputato non avrebbe affatto ammesso il fatto nel corso del colloquio con Co.

C..

2. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La sentenza avrebbe erroneamente confermato la valutazione di attendibilità soggettiva ed oggettiva della minore espressa dal giudice di primo grado, mentre la minore avrebbe fornito tre diverse versioni del fatto (ai Carabinieri, al Pm ed al G.i.P. in sede di incidente probatorio). Le risultanze processuali già segnalate nell’atto d’appello evidenzierebbero l’assoluta mancanza di prova in ordine alla sussistenza degli atti sessuali e dimostrano la inaffidabilità della persona offesa che avrebbe inizialmente affermato di avere subito violenza sessuale.

3. Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c, per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità. Non sussisterebbe correlazione tra accusa e sentenza in quanto non c’è alcun rapporto di continenza o di genere a specie tra il fatto contestato (violenza sessuale) e il fatto per il quale l’imputato è stato ritenuto responsabile (atti sessuali con minore).
Motivi della decisione

Questa Corte ha affermato il principio di diritto in base al quale, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). E’ stato inoltre precisato che se l’appellante ha riproposto questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’Impugnazione ben può motivare per relationem.

Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle esaustive argomentazioni sviluppate nel dettaglio nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione autonoma dei motivi di appello sui punti specificamente indicati, verificando sia le ragioni dell’attendibilità della minore, alla luce di principi giurisprudenziali in materia, sia gli elementi probatori di riscontro dei fatti, consistenti nelle modalità casuali della "scoperta" da parte dei genitori dell’anomala relazione dell’anziano amico di famiglia con la loro figlia e nella dichiarazione implicitamente ammissoria resa dall’imputato al padre della ragazzina.

Ritiene questa Corte che i giudici di Appello abbiano, dunque, esaustivamente e correttamente motivato le ragioni della piena attendibilità della persona offesa, fornendo spiegazioni in merito ad alcune difformità nelle dichiarazioni rese dalla minore, che si giustificano con il tentativo, inizialmente posto in essere dalla stessa, di non rivelare ai propri genitori i rapporti sessuali che erano intercorsi con l’anziano imputato. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, è possibile scindere la valutazione della prova testimoniale, ritenendo alcune parti delle dichiarazioni non veridiche, purchè, come avvenuto nel caso di specie, i giudici diano conto con adeguata motivazione delle ragioni di tale diversa valutazione e di come tale apparente contrasto non si riverberi in un contrasto logico-giuridico della prova stessa (Cfr. Sez. 6, n. 7900 del 6/7/1998, Martello, Rv. 211376 e Sez. 6, n. 10625 del 3/11/1992, Palmucci, Rv. 192149). Sono pertanto da rigettare i primi due motivi di ricorso e questa Corte ritiene infondato anche il terzo motivo di ricorso, relativo alla violazione del principio tra correlazione tra accusa e sentenza, motivo peraltro non avanzato in grado di appello.

Infatti, in tema di obbligo di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, il giudice può dare al fatto una diversa qualificazione giuridica solo a condizione che il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell’autore (Sez. 3, n. 19118 del 12/5/2008, D.S., Rv. 239873), al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Cfr. Sez. 6, n. 34879 del 14/9/2007, Sartori e altri, Rv. 237415). Di conseguenza per mutamento del fatto si deve intendere "una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, che non consenta di rinvenire, tra il fatto contestato e quello accertato, un nucleo comune identificativo della condotta, riscontrandosi invece un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità che si risolve in un vero e proprio stravolgimento dei termini dell’accusa a fronte del quale si verifica un reale pregiudizio dei diritti della difesa" (Cfr. Sez. 2, n. 45993 del 10/12/2007, Cuccia e altri, Rv. 239320).

Pertanto non è corretto ritenere, come asserito dal ricorrente, che tra i reati di violenza sessuale e quello di atti sessuali con minore di età sussista una "irriducibile alterità". Al contrario, il fatto addebitato al C. è il medesimo: il rapporto sessuale con la ragazzina infraquattordicenne. Tale rapporto, originariamente contestato dall’organo dell’accusa come frutto di minaccia e violenza per effetto delle dichiarazioni rese dalla minore, è stato poi riconosciuto, all’esito dell’acquisizione probatoria – come congruamente motivato nelle decisioni di primo e secondo grado – quale frutto di un’opera di persuasione, fatta di attenzioni, lusinghe e regali, volta ad ottenere il consenso della ragazzina e quindi tale da integrare il meno grave delitto di atto sessuale con minorenne. Tale modifica della qualificazione giuridica del medesimo fatto è per l’appunto avvenuta per effetto della valutazione diversificata delle dichiarazioni rese dalla minore ed alla luce degli altri elementi probatori del processo. Non si è pertanto verificata alcuna violazione del diritto di difesa dell’imputato, che ha potuto nel corso del giudizio difendersi, esercitando il diritto alla prova, in ordine a tutte le circostanze relative a quel rapporto sessuale ed ai rapporti intercorrenti tra lo stesso, la minore e la famiglia di questa.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p..
P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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