Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-11-2010) 11-03-2011, n. 9881

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la decisione in epigrafe la Corte d’assise d’appello di Ancona confermava la sentenza emessa il 14 ottobre 2010 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pesaro nella parte in cui, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato C.A. responsabile dell’omicidio volontario di Ba.Mi., aggravato dalla minorata difesa e commesso il (OMISSIS), nonchè del connesso reato diporto illegale di due coltelli.

Escludeva la premeditazione ritenuta dal primo giudice e, ferma l’aggravante della premeditazione, rideterminava la pena in 18 anni e 40 giorni di reclusione.

Confermava le statuizioni civili.

1.1. A ragione della decisione la Corte di appello, dopo avere riassunto vicenda processuale, prove acquisite e motivi d’appello dell’imputato, osservava che:

a) doveva ritenersi la piena imputabilità del ricorrente sulla base delle considerazioni, condivisibili, del consulente medico del Pubblico ministero, che aveva escluso che i disturbi della personalità riscontrabili nel Co. fossero di consistenza, intensità e gravità tali da avere inciso sulla capacità d’intendere e di volere e nè essi nè lo stato emotivo-passionale potevano ritenersi condizionanti l’azione;

b) doveva ritenersi sussistente il nesso causale tra l’aggressione posta in essere dal Co. colpendo a coltellate la donna, e la morte di questa, giacchè, a prescindere dal rilievo che non era riscontrabile nel comportamento dei medici alcuna negligenza, negligenza o imperizia non potevano bastare ad elidere la derivazione causale della morte dall’aggressione perchè non potevano ritenersi cause sopravvenute da sole sufficienti a produrre l’evento, questo derivandone dal fatto lesivo che aveva determinato la necessità dell’intervento operatorio e non potendo comunque considerarsi eventuali negligenze o imperizie elementi eccezionali ed atipici rispetto alla serie causale antecedente;

c) doveva escludersi l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale prospettata dalla difesa, giacchè l’intenzione di uccidere emergeva dal numero delle coltellate inferte all’impazzata, arrestatesi solo dopo che la donna era stata colpita al cuore;

d) era configurabile la minorata difesa, giacchè la vittima era stata aggredita mentre si trovava all’interno della autovettura, in condizione tale da non potere reagire adeguatamente nè fuggire;

e) non potevano essere riconosciute all’imputato le circostanze attenuanti generiche, attese la gravità del fatto e la violenza dell’azione, nonchè la spregiudicatezza e il cinismo dimostrati nell’immediatezza, allorchè ai Carabinieri il Co. aveva detto che se la donna non era morta avrebbe completato l’opera; non rilevavano all’opposto le circostanze che il Co. si fosse costituito, perchè era inseguito dalle volanti, nè che avesse confessato, perchè limitandosi ad ammettere quanto non poteva assolutamente negare (attesa la presenza di teste oculare) e tentando anzi di sminuire le sue responsabilità, non aveva mostrato alcuna effettiva resipiscenza;

f) andava invece esclusa la premeditazione, perchè l’esistenza di un’acredine verso la B., ritenuta dall’imputato responsabile della sua crisi coniugale, non bastava a dimostrare che il Co. avesse da tempo meditato di ucciderla; il fatto che si fosse munito di due coltelli costituiva elemento neutro, non incidendo il numero sull’uso che avrebbe fatto delle armi ed essendo evidente che nel contesto poteva esserne usata una soltanto; la platealità del gesto e la mancanza di ogni accortezza per evitare di essere identificato rendevano inverosimile che l’azione fosse il frutto di una meditata risoluzione volta a ripianare le difficoltà coniugali causate dall’influenza esercitata dalla vittima sulla moglie.

2. Ricorre il Procuratore generale che chiede l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla esclusione della premeditazione, all’omissione dell’aumento della pena per la recidiva obbligatoria contestata, al calcolo della pena.

2.1. In relazione alla esclusione premeditazione denunzia mancanza e contraddittorietà della motivazione, osservando:

la giustificazione, al limite dell’apodittico, della Corte d’appello si limitava a venti righe, mentre la sentenza di primo grado aveva dedicato all’argomento otto pagine con puntuali richiami alle emergenze processuali che confermavano il lungo e convinto iter psicologico e la determinazione tenacemente perseguita;

le affermazioni conclusive della Corte d’appello erano in contrasto con la ricostruzione fattuale riassunta in premessa, che dimostrava detta determinazione e la predisposizione dei mezzi necessari a realizzarla;

la pervicacia dell’intenzione era dimostrata dalle frasi proferite dinanzi ai Carabinieri, manifestanti l’intenzione di "completare l’opera" se la donna non fosse già morta, nonchè dall’attesa del rientro per oltre due ore;

la Corte d’assise d’appello aveva dimenticato di considerare che dagli elementi acquisiti risultava che il Co. riteneva la vittima responsabile anche della morte di suo padre e che secondo le testimonianze durante l’aggressione aveva anche gridato "questo è per mio padre";

l’affermazione che la predisposizione di due coltelli era ininfluente perchè poteva esserne usato solo uno era in contrasto con il riferimento fatto, in premessa, all’uso di entrambi i coltelli e con la descrizione dei coltelli, entrambi macchiati di sangue, rinvenuti;

il richiamo alla platealità del fatto e alla incuranza della presenza di testimoni, quale sintomi di un atteggiamento opposto alla premeditazione, era manifestamente illogico perchè sempre dagli atti risultava che l’intenzione di vendicarsi della donna era stata tante volte manifestata dal Co. che mai avrebbe potuto illudersi di commettere l’omicidio sfuggendo alle conseguenze penali, ed era in contrasto con nozioni di comune esperienza afferenti le caratteristiche delle "vendette esemplari". 2.2. In relazione alla recidiva denunzia violazione della legge penale, perchè all’imputato risultava contestata la recidiva obbligatoria ex art. 99 c.p., comma 1 e comma 2, nn. 1, 2 e 3, commi 4 e 5 e nessuna considerazione di tale circostanza risultava nel calcolo della pena.

2.3. La pena di 18 anni e 40 giorni di reclusione inflitta era stata calcolata in motivazione riducendo di un terzo la pena di 24 anni e 2 mesi di reclusione, e siffatto calcolo appariva aritmeticamente errato.

3. Propone ricorso anche l’imputato a mezzo del difensore di fiducia, avvocato Maria Rita Cicero, e chiede l’annullamento della sentenza impugnata censurando l’affermazione della piena capacità d’intendere e di volere e il diniego di perizia psichiatrica; la ritenuta sussistenza di nesso causale tra aggressione e morte e dunque la qualificazione del fatto; il diniego delle circostanze attenuanti generiche; la ritenuta aggravante della minorata difesa.

3.1. Con il primo motivo denunzia in particolare violazione dell’art. 192 c.p.p., art. 441 c.p.p., comma 5, e art. 603 c.p.p., comma 3, nonchè degli artt. 88 e 89 c.p. per il mancato espletamento, da parte del G.u.p., di perizia psichiatrica sulla capacità d’intendere e di volere dell’imputato e per la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in relazione a tale prova decisiva, e inoltre mancanza e manifesta illogicità della motivazione sulla non necessità di ulteriori approfondimenti in ordine alla imputabilità.

Evidenzia che con l’atto d’appello si erano impugnate anche le ordinanze di rigetto delle richieste di integrazione probatoria e si era sollecitato l’esercizio dei poteri officiosi della Corte d’assise d’appello in vista dell’espletamento di una perizia collegiale che verificasse la parziale incapacità d’intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto, sul rilievo che la consulenza dell’accusa aveva espresso un giudizio incompleto e provvisorio, facendo esplicitamente salve eventuali "integrazioni" e riconoscendo di non avere somministrato all’imputato test psichiatrici completi, dei quali riservava l’espletamento. In sede di discussione tali istanze erano state ribadite. La Corte d’assise d’appello aveva, ciò nonostante, completamente omesso di rispondere.

3.2. Con il secondo motivo denunzia violazione degli artt. 88 e 89 c.p. e sostanziale mancanza di motivazione in relazione alla giustificazione data dalla Corte d’assise d’appello alla ritenuta capacità d’intendere e di volere dell’imputato. Afferma che la Corte d’appello s’era attestata sulla scarna motivazione della sentenza di primo grado, priva di rigore scientifico, e aveva ignorato le articolate deduzioni difensive sugli elementi pretermessi dal consulente dell’accusa, sicuramente significativi ai fini del riconoscimento della seminfermità mentale e relativi in particolare:

alla storia clinica e alle risultanze psicodiagnostiche, alla gravità sintomatologica dello stesso fatto reato posto a confronto del comportamento tenuto prima durante e dopo la sua commissione (sintomatici di un delitto disorganizzato, psicotico), all’insieme degli aspetti evidenziati dalla difesa e significativi alla stregua di indicatori (psichiatrici) di un disturbo mentale transitorio o del funzionamento bordeline della personalità, (rappresentati dai fattori stressanti precedenti lo scompenso quali crisi del rapporto, gelosia; dalla frattura dello stile di vita; dalla sproporzione della reazione; dalla evidente compromissione dello stato di coscienza, come da dichiarazioni testimoniali A. e G.; dalla manifestazione di disturbi della percezione e di idee deliranti non organizzate quali tentati suicidi pur solo annunciati, minacce spropositate, assunzione recente di droga; da segni rivelatori di turbe dell’affettività e del tono timico quali depressione e perdita di peso; dalla natura disorganizzata del comportamento tenuto nell’atto criminale e successivamente).

3.3. Con il terzo motivo lamenta violazione di legge e motivazione mancante, illogica e contraddittoria in ordine alla esistenza di nesso causale tra l’azione aggressiva posta in essere (che aveva provocato alla vittima ferite della quale una trapassante il cuore) e il decesso avvenuto molte ore dopo, a seguito di intervento chirurgico connotato da imperizia quanto a punti di sutura erroneamente apposti dall’operatore sulla coronaria lesa.

Afferma che, dimenticando tale dato, pur evidenziato a pag. 7, la sentenza impugnata aveva contraddittoriamente affermato che non era ravvisabile alcun negligenza dei medici intervenuti, e nonostante il giudizio pendente a carico degli stessi per omicidio colposo. Nessuna risposta era stata fornita inoltre alle deduzioni difensive con le quali si evidenziava che dopo la emotrasfusione i parametri vitali della vittima apparivano in ripresa e che era stato organizzato ed era possibile (contrariamente a quanto affermato dal primo giudice) il trasporto in un ospedale specializzato, inopinatamente posto nel nulla dalla decisione del dott. Co., che aveva deciso di eseguire lui stesso l’intervento. Tando evidenziando l’esistenza dunque di un comportamento commisivo sopravvenuto, tanto gravemente imperito e imprudente quanto eccezionale e atipico, che aveva sovvertito il decorso causale.

3.4. Con il quarto motivo denunzia violazione di legge e vizi di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

I giudici di merito avevano confuso tra gravità del reato e gravità della condotta. Avevano omesso di considerare, almeno sotto il profilo dell’attenuazione della risposta sanzionatoria ai sensi dell’art. 62 bis c.p., da un lato i conclamati disturbi della personalità; dall’altro l’incidenza causale del comportamento colposo di terzi nella produzione dell’evento. Avevano inoltre arbitrariamente svalutato l’immediata confessione dell’imputato ponendo l’accento sulla linea processuale difensiva, legittimamente rivolta ad evidenziare il significato giuridico di certi aspetti dell’azione, ed aveva erroneamente posto l’accento sulla presenza di testimoni che pure ben avrebbero potuto avvalersi della facoltà di non rispondere.

3.5. Con il quinto motivo deduce violazione di legge e vizi di motivazione in ordine all’aggravante della minorata difesa.

La Corte d’appello aveva completamente omesso di considerare la presenza di altre persone e la circostanza che nella stessa autovettura in cui stava la vittima si trovava, al posto di guida, la sua amica, che ben avrebbe potuto, a motore acceso, ripartire e ovviare con la fuga all’aggressione. Le stesse lesioni infette dalla vittima all’aggressore dimostravano d’altronde che essa aveva reagito.

3.6. Con il sesto motivo denunzia violazione di legge in ordine alla determinazione della pena.

Assume che la pena massima ex art. 78 c.p. per l’omicidio, pari a 24 anni, non poteva essere superata neppure grazie alla continuazione.

Mentre la pena finale, considerata la pena base e l’aumento per l’aggravante avrebbe dovuto essere pari a 16 anni e 40 giorni e non a 18 anni e 40 giorni.
Motivi della decisione

1. Osserva il Collegio che sia il ricorso del Procuratore generale sia il ricorso dell’imputato appaiono in parte fondati, Occorre tuttavia esaminare i motivi articolati in ciascuno di essi in base al loro ordine pregiudiziale.

2. Va anzitutto detto, perciò, che le censure articolate dalla difesa dell’imputato nel secondo motivo, che cadono sul nesso causale, sono prive di fondamento.

La sentenza impugnata ha in premessa riportato le parole del medico legale che aveva eseguito l’autopsia, secondo cui la morte era stata causata dal colpo da punta e da taglio inferto dall’imputato che, trapassando il torace e il cuore della vittima, aveva attinto la parte anteriore del ventricolo sinistro in prossimità del setto e leso la coronaria interventricolare anteriore. Ha quindi anche ricordato che, sempre secondo il medico legale, il chirurgo nell’eseguire l’intervento d’urgenza su cuore aperto, in presenza di una "perdita ematica considerevole all’interno del sacco pericardio", aveva apposto dei punti di sutura in corrispondenza della coronaria lesionata così aggravando l’ipoafflusso coronario, fino a determinare una ischemia acuta che aveva dato luogo ad arresto cardiaco al termine dell’intervento: fermo restando che la morte era stata causata, per continuare ad usare le parole del medico legale:

"da un’unica ferita, quella trapassante il torace e il cuore" che aveva dato altresì luogo alla "complicazione precedentemente descritta". Nel rigettare le deduzioni difensive relative all’interruzione del nesso causale per effetto della condotta dei sanitari, la sentenza impugnata ha quindi affermato che non era ravvisabile alcuna negligenza di costoro e che un’eventuale imperizia non era idonea ad interrompere il nesso di derivazione della morte dall’azione dell’imputato.

La motivazione è immune da vizi.

Contrariamente a quanto si assume in ricorso, l’esclusione di negligenza non si pone in contraddizione con la descrizione dell’intervento operatorio riassunta all’inizio, perchè soltanto tale specifico profilo di colpa è stato ritenuto insussistente, coerentemente con la descrizione, versata in atti, delle solerti e complete iniziative terapeutiche e chirurgiche intraprese.

Per quel che concerne l’eventuale inadeguatezza dell’operatore, la Corte d’assise d’appello si è astenuta sostanzialmente dal formulare giudizi, limitandosi ad osservare che non bastava comunque tale fattore concorrente ad interrompere il nesso causale.

Sul piano fattuale, il giudizio è del tutto plausibile, giacchè è riferito ad un’azione lesiva di tale intensità da essere di per sè idonea a determinare il decesso in assenza di interventi salvifici.

In diritto, poi, è appena il caso di ricordare che rapporto causalità e interferenza causale riposano, secondo le regole codificati negli artt. 40 e 41 c.p., sulla teoria della condizione necessaria e sufficiente, ribadita in negativo dal riferimento alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento (S.U. n. 30328 del 10/07/2002, Franzese). La condotta umana attiva o omissiva – dolosa o colposa – è dunque causa penalmente rilevante allorchè si ponga come conditio sine qua non nella catena degli antecedenti che hanno prodotto il risultato. Anche l’accertamento della causalità attiva e della interferenza di un eventuale fatto concorrente deve fare riscorso perciò a verifiche controfattuali ipotetiche e postula un giudizio condizionale esprimibile secondo la formula "se … allora …": dove la protasi assume l’assenza del fatto sopravvenuto e l’apodosi la produzione, ciò nonostante, "sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica", di evento corrispondente a quello verificatosi in concreto.

Di conseguenza, a fronte della situazione descritta – di ferita trapassante il torace e il cuore che aveva leso il ventricolo sinistro e la coronaria interventricolare anteriore, con perdita ematica considerevole interna al sacco pericardico – appare indubitabilmente corretto il giudizio controfattuale espresso dalla Corte d’assise d’appello con la considerazione che anche i rischi estremamente elevati di insuccesso del tentativo di riparazione chirurgica del danno prodotto non potevano non essere riferiti, in base al principio condizionalistico, all’imputato che aveva prodotto il fatto lesivo idoneo di per sè a causare la morte.

3. Appare fondato, invece, il secondo motivo del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato, laddove lamenta la mancanza di risposta da parte della Corte d’assise d’appello alle deduzioni in punto di seminfermità.

Con gli atti difensivi, in specie nei motivi d’appello, erano state effettivamente svolte molte articolate censure a confutazione del giudizio formulato dal consulente del Pubblico ministero di piena capacità d’intendere e di volere dell’imputato, al quale si erano già acriticamente rifatti i giudici di primo Grado.

Per tutta risposta i giudici di secondo grado si sono limitati, dopo considerazioni puramente teoriche, a richiamare le conclusioni del consulente, senza tuttavia neppure mostrare di avere esaminato, per aderirvi, le ragioni specifiche che le sostenevano. Soprattutto, però, la Corte d’appello ha completamente omesso di richiamare e valutare, anche soltanto per smentirle o di affermarne la non decisività in concreto, obiezioni della difesa che certamente non potevano considerarsi in astratto impertinenti e irrilevanti perchè cadevano, ad esempio, sulla parzialità dell’indagine effettuata dal consulente e sulla riserva dallo stesso espressa di ulteriori approfondimenti, ovverosia sulla esaustività e sufficienza della base empirico-diagnostica che è presupposto e condizione di validità di ogni giudizio scientifico.

La superficialità con la quale la Corte d’assise d’appello ha affrontato il tema della imputabilità, rende impossibile per questa Corte di legittimità apprezzare autonomamente la consistenza delle contestazioni difensive, imponendo l’annullamento con rinvio, sul punto, della sentenza impugnata.

4. Resta con ciò assorbito, allo stato, il primo motivo, relativo al mancato espletamento di perizia d’ufficio sulla piena capacità d’intendere e di volere dell’imputato, la cui fondatezza dipende, a maggior ragione essendosi prescelto il giudizio abbreviato, dalla congruenza e adeguatezza delle motivazioni che sostengono la considerazione della sufficienza degli elementi e della consulenza già versati in atti.

Occorre tuttavia sottolineare che la circostanza che il giudizio sia stato celebrato con giudizio abbreviato non è di per sè sufficiente ad eliminare il rilievo che assume nell’impostazione del "nuovo" codice di rito la formulazione dell’art. 220 c.p.p.. Bastando, sul significato della norma, ricordare le indicazioni che provengono dallo stesso legislatore: "L’espressione "la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini …" intende sottolineare due aspetti: da un lato la obbligatorietà del ricorso allo strumento tecnico …; dall’altro, e sempre in quest’ordine di idee, un ampliamento dell’ammissibilità della perizia …. La variante espressiva … è parsa idonea ad attenuare il rigore imposto dalla norma attuale ("qualora sia necessaria …"), nella sempre maggiore consapevolezza dell’anacronismo dell’idea esasperata dello "iudex peritus peritorum". Ferma, ovviamente, la devoluzione al giudice del "riesame critico sull’elaborato peritale, nel contraddittorio delle parti" (Relazione al P.P. del 1988, p. 137 s.).

5. Il sesto motivo del ricorso della difesa, relativo alla circostanza aggravante della minorata difesa ritenuta sussistente, e il primo motivo del ricorso del Procuratore generale, che lamenta la esclusione della aggravante premeditazione, criticano entrambi sostanzialmente, pur da prospettive e in relazione ad aspetti differenti, la ricostruzione fattuale e non possono trovare accoglimento in questa sede, perchè la motivazione sui punti denunziati è in realtà adeguata, esauriente quanto agli aspetti decisivi, ed immune da vizi logici.

5.1. Prendendo le mosse dalle censure del Procuratore generale, è sufficiente evidenziare che nessuno dei profili – per lo più, per altro, esclusivamente di fatto – che il ricorrente asserisce essere stati ingiustificatamente svalutati o addirittura pretermessi appare dirimente nella individuazione di un atteggiamento psicologico sicuramente riferibile alla premeditazione anzichè, al più, alla mera preordinazione.

Come si rilevava già nella Relazione al codice (p. 188), la premeditazione venne mantenuta tra le circostanze aggravanti sul rilievo che "nel dolo vi è una scala, che sale per gradi, dal cosiddetto dolo di impeto, alla riflessione normale, ed infine alla premeditazione" e che la premeditazione aggiunge "un quid pluris a quel grado di riflessione, che è comune alla maggior parte delle azioni delittuose", perchè in essa "la riflessione, inerente al proposito di delinquere, si protrae più o meno lungamente nel tempo, senza soluzione di continuità, alimentando continuamente il proposito stesso, alla ricerca o in attesa dell’occasione di attuarlo". Proprio "tale persistenza, la quale sopraffa tutti i motivi inibitori che via via vanno presentandosi alla coscienza e che avrebbero vinto un comune proposito delittuoso" costituendo indice di quella "maggiore perversità e pericolosità del delinquente" che giustifica l’aumento di pena.

Secondo principi consolidati ad integrare l’aggravante della premeditazione concorrono così due elementi essenziali: l’elemento cronologico, che consiste in un intervallo tra l’insorgenza e l’attuazione del proposito criminoso, apprezzabile dal punto di vista temporale e rilevante al fine di stabilire che l’atto esecutivo è conseguito ad una ponderazione sulla decisione presa e che, ciononostante, l’agente non ha receduto dal suo proposito antisociale; l’elemento psicologico, che si concreta nel perdurare appunto nel tempo della risoluzione criminosa, ferma ed irrevocabile, e che, aggiungendosi alla normale riflessione, rivela una maggiore intensità del dolo e la più elevata capacita a delinquere.

La manifestazione di una intenzione delittuosa precedente nel tempo, che comunque deve riferirsi ad un lasso cronologico obiettivamente significativo, non basta quindi di per sè a dimostrare la premeditazione, perchè quello che è necessario accertare è se in concreto durante il tempo intercorso tra la prima manifestazione o insorgenza dell’idea delittuosa e la sua successiva, ritardata attuazione, l’imputato non ha mai receduto dal suo proposito, sopraffatto da freni inibitori o controspinte al delitto. Soltanto quando l’azione ultima può effettivamente ritenersi conseguenza di una determinazione originaria mantenuta ferma e coltivata nel tempo con riflessione e "paziente, tenace e sagace preordinazione dei mezzi di esecuzione del reato" (R.R. cit), della quale possono essere sintomo la puntigliosa organizzazione e l’accurato studio delle modalità esecutive, soltanto allora può configurarsi premeditazione: che è all’evidenza differente dalla mero apprestamento di mezzi e luogo per l’esecuzione dell’azione in base ad una risoluzione prontamente realizzata (tra moltissime: Sez. 1, n. 450 del 15/03/1966 , Dionigi; Sez. 1, n. 40 del 16/01/1968, Leone;

Sez. 1, n. 3082 del 05/03/1996, Travagnin; Sez. 1, Sentenza n. 40237 del 10/10/2007, Cacisi; Sez. 1, n. 7970 del 06/02/2007, Francavilla).

La valutazione della Corte d’assise appello, che ha escluso la premeditazione alla luce, sostanzialmente, del patente carattere disorganizzato del delitto, non è dunque censurabile.

E non bastano a vincere la plausibilità delle conclusioni raggiunte nè le considerazioni del Procuratore generale che fanno riferimento a pregressi, latenti, motivi di rancore dell’imputato contro la vittima (per una pretesa sua influenza negativa nei confronti del padre prima e della moglie poi), perchè essi possono spiegare l’odio da ultimo esploso, ma non sono affatto indici sicuri di una deliberazione ad eseguire l’omicidio coltivata nel tempo e mai abbandonata; nè il richiamo alle modalità esecutive realizzate mediante agguato, perchè l’agguato attiene, di per sè, alle realizzazione appunto del delitto, e ancora non dimostra l’esistenza di un processo psicologico di intensa riflessione e di fredda determinazione che caratterizza il premeditato proposito di uccidere (Sez. 1, n. 24733 del 21/05/2004, Defina e ivi citate).

5.2. Parimenti plausibile è corretto è, all’inverso, il riconoscimento dell’aggravante della condizione di minorata difesa della vittima, conseguente appunto all’agguato tesole aspettando che facesse rientro in auto e all’attacco sferrato quando era ancora all’interno della vettura, in situazione che non le permetteva nè di difendersi appieno nè di fuggire liberamente.

Mentre le osservazioni sul punto articolate dalla difesa sono da un lato meramente ipotetiche, allorchè si dice che l’altra donna era ancora alla guida e avrebbe potuto riavviare l’auto e fuggire;

dall’altro non conferenti, perchè la fuga è comunque risultata impossibile e la circostanza che la vittima abbia, nonostante la sua posizione infelice, cercato di allontanare l’aggressore ferendosi anche alle braccia e alle gambe, altro non dimostra se non la situazione disperata in cui era venuta a trovarsi.

6. Fondati sono da ultimo i motivi del Procuratore generale sulla recidiva, il motivo della difesa sulle circostanze attenuanti generiche, e i motivi di entrambi sul calcolo della pena.

6.1. All’imputato era stata contestata la recidiva ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 4, in riferimento a tutte le ipotesi del comma 2, e comma 5.

I giudici del merito non hanno ridimensionato tale contestazione, come se il reato per cui si procede non fosse tra quelli enumerati dall’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a). E neppure hanno in qualche modo rilevato la inesattezza della contestazione. Semplicemente hanno omesso di far derivare da essa alcun incremento di pena.

Sul punto la soluzione adottata appare dunque del tutto priva di giustificazione.

6.2. Quanto alle circostanze attenuanti generiche, la Corte d’assise d’appello le ha negate richiamando la gravità dei fatti, le modalità della condotta, l’assenza di reali manifestazioni di resipiscenza, dopo avere affermato però che i canoni della sua valutazione andavano ricondotti ai criteri enunciati dall’art. 133 c.p. e ad ogni elemento in concreto idoneo ad influire sulla determinazione della pena, ma potevano tenere conto solo di elementi che fossero diversi "da quelli che giustificano la concessione delle attenuanti comuni".

Ha di conseguenza completamente ignorato il problema delle condizioni mentali o psicologiche dell’imputato oltre quello, pure specificamente postogli e non escluso, di un possibile errore medico come concausa del decesso.

Ora, il postulato secondo cui non potevano prendersi in considerazione situazioni in tesi riconducibili ad altre attenuanti tipizzate è – nella rigidità con cui è stato formulato e seguito, rifiutando di prendere in qualsivoglia considerazione ai fini delle circostanze attenuanti generiche gli aspetti connessi al disturbo di personalità dell’imputato – errato.

Non sussiste invero alcuna antinomia tra circostanze tipizzate e circostanze attenuanti generiche, giacchè queste hanno come è noto carattere residuale e dunque ben consentono di valutare, ai fini della graduazione della pena, elementi che pur non raggiungendo singolarmente la soglia di conformazione di una attenuante o diminuente tipica, possono, unitamente ad altri aspetti o nel loro insieme o in considerazione del contesto, rifluire nel giudizio di attenuazione ai sensi dell’art. 62 bis c.p..

Sicchè la Corte non poteva, dopo avere dato atto che il Co. era realmente affetto da disturbo della personalità, omettere di considerare tale disturbo ai sensi e alla luce degli altri parametri dell’art. 133 c.p., anche soltanto per negare in concreto ogni sua incidenza sulle modalità di realizzazione del fatto, soltanto perchè aveva escluso che fosse per la sua gravità idoneo ad elidere o a scemare grandemente la capacità d’intendere e di volere.

D’altro canto, ferma l’infondatezza del motivo concernente l’interruzione del nesso causale per effetto di un eventuale imperizia dei sanitari prontamente intervenuti, la Corte d’assise d’appello, una volta ammessa l’ipotesi di un errore nell’intervento chirurgico riparatore, neppure poteva esimersi dal valutarlo ai fini delle circostanze attenuanti generiche, anche solo per definirlo irrilevante.

Pure in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche la motivazione della sentenza impugnata appare dunque carente.

6.3. Sicuramente errato è infine il calcolo che è stato effettuato in motivazione per giungere alla pena finale irrogata, pari a diciotto anni e quaranta giorni di reclusione. La Corte d’assise d’appello è difatti partita dalla pena base di ventidue anni per l’omicidio, aumentandola di due anni per l’aggravante e di due mesi per la contravvenzione in continuazione; ha quindi indicato come pena complessiva ventiquattro anni e due mesi di reclusione, da ridurre per il rito abbreviato. Ma 24 anni e 2 mesi ridotti di un terzo portano, come giustamente rilevano sia la difesa sia il Procuratore generale, a 16 anni e 40 giorni, non a 18 anni e 40 giorni.

Anche in relazione alla determinazione della pena la sentenza impugnata non può dunque che essere annullata, in accoglimento di entrambi i ricorsi e con esclusione perciò di qualsivoglia effetto preclusivo scaturente dalle determinazioni parziali e dal calcolo prima riportati.

7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata per quanto concerne l’esclusione (non adeguatamente motivata) del vizio di mente; la mancata applicazione (non motivata) della recidiva, il diniego (non adeguatamente giustificato) delle circostanze attenuanti generiche; la determinazione (errata nei criteri di calcolo) della pena; con rinvio per nuovo giudizio su tali punti alla Corte di assise di appello di Perugia.

I ricorsi del Procuratore generale e di Co.Ag. devono per il resto essere rigettati.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al vizio di mente, alla recidiva, alle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione della pena, e rinvia per nuovo giudizio su i punti anzidetti alla Corte di assise di appello di Perugia.

Rigetta nel resto i ricorsi del Procuratore generale e di Co.

A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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