Cass. civ. Sez. V, Sent., 20-05-2011, n. 11217 Accertamento Base imponibile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per cassazione nei confronti della s.p.a. Noy Vallesina Engeneering (ora Noy Ambiente s.p.a., che resiste con controricorso successivamente illustrato da memoria) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpeg e Irap riguardante l’anno 1999, la C.T.R. Lombardia accoglieva solo parzialmente sia l’appello principale dell’Agenzia delle Entrate sia l’appello incidentale della società, dichiarando legittima la ripresa a tassazione delle spese di ricerca e sviluppo e dei canoni leasing ed illegittima la ripresa a tassazione a fini Irap della somma di Euro 196.253,62, dovendo nella specie ravvisarsi non una perdita su crediti, indeducibile, ma un minore introito derivato da un accordo in base al quale è stato determinato il prezzo definitivo del servizio o del bene. Anche la Noy Ambiente s.p.a. (già Noy Vallesina Engeneering s.p.a.) ha proposto avverso la medesima sentenza ricorso per cassazione nei confronti dell’Agenzia delle Entrate (al quale quest’ultima resiste con controricorso), pertanto deve essere innanzitutto disposta la riunione dei due ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c. (e dei relativi processi sotto il numero 23665/01, più antico di ruolo).

2. Col primo motivo del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, si afferma che la sentenza impugnata non richiama le norme o i principi di diritto ritenuti rilevanti per la decisione, e, in carenza della concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto della decisione, impedisce di risalire al ragionamento del giudice. La censura è infondata.

Premesso infatti che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 richiede "la succinta esposizione dei motivi in fatto e in diritto" (ma non richiede anche necessariamente che siano indicati espressamente in sentenza i principi e le norme ritenute rilevanti per la decisione), è da evidenziare che nella specie risultano riportati in maniera chiara i termini delle questioni controverse, il contenuto della sentenza di primo grado, i motivi di appello e i motivi della decisione assunta, pertanto una motivazione in senso materiale esiste. Tale motivazione non può neppure ritenersi apparente perchè, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, essa, letta nel suo contesto fin rapporto con quanto esposto in relazione ai motivi di impugnazione ed alla sentenza di primo grado) esprime una sua logica e rende riconoscibile il ragionamento seguito dal giudice di appello. Ciò indipendentemente dal fatto che tale ragionamento possa ritenersi o meno condivisibile, corretto dal punto di vista giuridico e/o delle premesse in fatto, completo e/o analitico, essendo appena il caso di evidenziare che una motivazione esistente ma in ipotesi incompleta o illogica sotto alcuni profili ovvero scorretta dal punto di vista giuridico può essere censurata non ai sensi dell’art. 360, n. 4 (per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36) bensì, eventualmente, ai sensi dei numeri 3 e 5 del citato art. 360 c.p.c..

Col secondo motivo del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5, si sostiene che la disposizione prevedente l’indeducibilità delle perdite su crediti ai fini Irap si riferisce alle perdite su crediti intese genericamente, senza alcuna precisazione che consenta di attribuire al legislatore l’intento di differenziarne la disciplina in ragione della causa o della funzione economica di essa, ovvero per il fatto che il creditore presti il proprio consenso ad una riduzione del prezzo del bene o del servizio. I ricorrenti aggiungono che la qualificazione come minore ricavo si limita a descrivere lo stesso fenomeno della perdita su crediti sul piano dei ricavi, senza considerare che l’Irap non colpisce il reddito bensì la produzione e che la perdita su credito è un fenomeno che non concorre a formare la produzione ma si situa in una fase successiva al verificarsi dello scambio dei beni o dei servizi contro altre utilità. La censura è infondata.

Non è corretto affermare genericamente che, ai fini che in questa sede rilevano, il minor ricavo (la sentenza impugnata parla invero di "minor introito") non sia altro che una perdita su crediti valutata sul piano dei ricavi, essendo invece necessario distinguere tra la svalutazione del credito, configurabile come perdita su credito (e in quanto tale indeducibile ai fini Irap), che si verifica quando il credito, già determinato, sia stato successivamente scontato o ridotto, ad esempio perchè non pagato, e l’eventuale minor introito, che, nelle ipotesi in cui discende dalla determinazione del credito, è il portato di una definizione pattizia nella quale, pur eventualmente risultando il credito così definito inferiore a quanto unilateralmente preventivato dal creditore, è da escludere qualsivoglia connotato abdicativo.

Sussiste dunque, sia sul piano giuridico che sul piano economico, una differenza ontologica (peraltro emergente anche dai termini utilizzati per definire i due fenomeni) tra il minore introito e la perdita su crediti (essendo quest’ultima è configurabile solo quando già sussiste un "credito" in senso economico e giuridico), e non vi è alcun motivo per ritenere che il legislatore, in una materia ad alto tasso di tecnicismo, abbia utilizzato il termine "perdita su credito" in maniera atecnica, impropria ed imprecisa, intendendo con esso indicare genericamente qualunque minor introito o minor ricavo.

Tanto premesso, è sufficiente osservare che, con accertamento in fatto censurabile in questa sede solo per vizio di motivazione (ed in concreto non censurato sotto questo profilo), i giudici d’appello hanno escluso che nella specie si sia verificata una perdita su crediti (in quanto tale non deducibile), posto che il credito in realtà non era definito ed il minor introito derivava da un accordo in base al quale le parti avevano determinato il prezzo definitivo del bene o del servizio.

Nel primo motivo del ricorso proposto dalla Noy Ambiente s.p.a., deducendo vizio di motivazione, la società – premesso che nella sentenza di primo grado si era affermato che la spesa dei canoni leasing non poteva essere ritenuta inerente alle commesse dell’anno in riferimento perchè nello stesso anno l’immobile era stato sgomberato e alienato e che nell’appello l’Agenzia delle entrate aveva invece affermato che l’immobile in leasing i cui canoni erano stati ripresi a tassazione era diverso da quello alienato – rilevava che essa ricorrente, costituendosi in appello, aveva documentalmente provato che l’immobile cui si faceva riferimento nell’accertamento era uno solo, ovvero lo stesso considerato dai giudici di primo grado, ma che sulla documentazione de qua e sulla circostanza che il capannone non era stato utilizzato nel 1999 ed era stato venduto in quello stesso anno, i giudici d’appello non avevano in alcun modo motivato.

La ricorrente sostiene ancora che i giudici d’appello, limitandosi ad affermare che i "costi" di ricerca vanno imputati alle commesse in quanto "costi", non avrebbero in alcun modo chiarito perchè costi pacificamente sostenuti e capitalizzati anteriormente al 1999, possano essere riferiti alle commesse del 1999.

Le censure esposte presentano diversi profili di inammissibilità.

In particolare, la prima censura (relativa alla produzione documentale concernente il capannone) è priva di autosufficienza, non essendo stato riportato in ricorso il contenuto dei documenti in questione per consentire a questo giudice di legittimità di valutarne pertinenza e decisività.

Con riguardo alla seconda censura, essendo stata dalla stessa ricorrente dedotta la pacificità del fatto che i costi de quibus furono sostenuti anteriormente al 1999, risulta evidente che l’omissione di motivazione lamentata non attiene all’accertamento del fatto, bensì – e in ammissibilmente – alla motivazione in diritto, i cui eventuali vizi possono essere invece censurati (sempre che la decisione non risulti conforme a diritto) solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (e proponendo relativo quesito di diritto).

Il secondo motivo (col quale la società ricorrente deduce in via subordinata violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 74) è inammissibile per mancanza del prescritto quesito di diritto.

Alla luce di quanto sopra esposto, entrambi i ricorsi devono essere rigettati, con compensazione delle relative spese.
P.Q.M.

Riunisce i ricorsi (riunendo al presente il processo n. 24155/07) e li rigetta. Compensa le spese del presente giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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