Corte Costituzionale sentenza N. 157 28 aprile 2010 – 06 maggio 2010 .

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 19 del 12-5-2010

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 56, comma 3,
del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della
legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso dalla Corte di cassazione
con ordinanza del 3 marzo 2009, iscritta al n. 243 del registro
ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 40, 1ª serie speciale, dell’anno 2009.
Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice
relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 3 marzo 2009, ha
sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto
legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza
penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24
novembre 1999, n. 468).
La norma censurata preclude, quanto alla pena della reclusione
inflitta per i reati previsti dai due commi precedenti dello stesso
art. 56, l’applicazione delle sanzioni sostitutive di cui agli artt.
53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
sistema penale).
Secondo quanto riferito dalla Corte rimettente, l’imputato, nella
fase di merito del giudizio a quo, ha chiesto ed ottenuto una
sentenza di applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 del
codice di procedura penale, relativamente ad un delitto di violazione
degli obblighi connessi alla sanzione della permanenza domiciliare
(art. 56, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000). La pena, concordata
nella misura di dieci giorni di reclusione, e’ stata sostituita con
la pena pecuniaria di specie corrispondente, e cioe’ con la multa per
380 euro.
Il provvedimento e’ stato impugnato dal pubblico ministero, e la
Corte rimettente osserva che il ricorso dovrebbe essere accolto, in
quanto il terzo comma dell’art. 56 espressamente preclude la
sostituzione della pena inflitta per i delitti di violazione degli
obblighi connessi alle sanzioni, cosiddette «paradetentive», della
permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilita’.
Al tempo stesso, la Corte di cassazione ritiene che la norma
preclusiva contrasti con l’art. 3 Cost. La disposizione censurata,
infatti, delinea un caso di esclusione su base oggettiva
dell’applicazione di pene sostitutive, che nel contesto originario si
accordava con casi analoghi, regolati dall’art. 60 della legge n. 689
del 1981, ove la sostituzione delle pene detentive brevi era tra
l’altro inibita per il delitto di evasione (art. 385 del codice
penale). Tale ultima norma, pero’, e’ stata successivamente abrogata,
con conseguente eliminazione di tutti i casi di esclusione oggettiva
in essa contemplati (art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134,
recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di
applicazione della pena su richiesta delle parti»).
In conseguenza della riforma, le pene inflitte per il delitto di
evasione sono ormai suscettibili di sostituzione a norma degli artt.
53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, e cio’ vale anche per i
fatti concernenti la detenzione domiciliare, di cui al primo ed
all’ottavo comma dell’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta’), che sono appunto sanzionati a
norma dell’art. 385 cod. pen.
Il perdurante divieto di sostituzione per le violazioni
concernenti la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica
utilita’ sarebbe privo di giustificazione, in quanto retaggio di una
ratio che il legislatore ha sconfessato con l’abrogazione dell’art.
60 della legge n. 689 del 1981.
In altre parole, il rimettente considera irragionevole che, per
effetto della preclusione posta dalla norma censurata, il reato
contestato nel giudizio a quo sia trattato piu’ severamente di quanto
non accada per condotte di gravita’ analoga, se non addirittura
maggiore, come quelle di evasione dal luogo degli arresti domiciliari
o della detenzione domiciliare.
2. – Nel presente giudizio non e’ intervenuto il Presidente del
Consiglio dei ministri ne’ vi e’ stata costituzione delle parti del
procedimento principale.

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art.
3 della Costituzione, questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma
dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468).
La norma censurata preclude, quanto alla pena della reclusione
inflitta per i delitti previsti dai primi due commi dello stesso art.
56 (inosservanza degli obblighi concernenti la permanenza domiciliare
ed il lavoro di pubblica utilita’), l’applicazione delle sanzioni
sostitutive di cui agli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre
1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e cio’ sebbene un analogo
divieto, gia’ operante riguardo a condotte di evasione sanzionate
dall’art. 385 del codice penale, sia stato rimosso dal legislatore
mediante l’abrogazione dell’art. 60 della citata legge n. 689 del
1981 (art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche
al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena
su richiesta delle parti»).
2. – La questione non e’ fondata.
2.1. – La norma censurata dal rimettente costituisce espressione
di una scelta legislativa volta a conferire effettivita’ alle
sanzioni cosiddette «paradetentive» previste per i reati di
competenza del giudice di pace.
Allo scopo di valutare la ragionevolezza della norma, si deve
innanzitutto osservare che la permanenza domiciliare ed il lavoro di
pubblica utilita’ colpiscono i piu’ gravi tra i fatti attribuiti alla
competenza del predetto magistrato, e che vengono irrogati solo a
seguito del fallimento, nel caso concreto, dei meccanismi di
riparazione e conciliazione che caratterizzano il relativo
procedimento penale. D’altra parte non e’ sufficiente, per integrare
il reato di cui all’art. 56 d.lgs. n. 274 del 2000, una qualsiasi
violazione delle prescrizioni connesse all’esecuzione delle citate
sanzioni «paradetentive». Difatti il comma 1 dispone che la
ricorrenza di un «giusto motivo» per il comportamento trasgressivo
esclude la rilevanza penale del medesimo, assicurando in tal modo
un’area di non punibilita’ piu’ ampia di quella derivante dalle
esimenti a carattere generale. A cio’ si deve aggiungere che, mentre
l’allontanamento ingiustificato dai luoghi in cui il condannato e’
obbligato a permanere o a prestare il lavoro di pubblica utilita’,
anche se compiuto una tantum, e’ sufficiente ad integrare il reato,
non cosi’ e’ stabilito per gli altri obblighi e divieti inerenti alle
due pene di cui sopra, che devono essere violati «reiteratamente
senza giusto motivo» (comma 2) perche’ la norma incriminatrice sia
applicabile.
L’ordinamento riserva dunque una risposta graduata ai
comportamenti trasgressivi posti in essere dai condannati a pene
«paradetentive», ricorrendo alla pena detentiva solo nelle ipotesi
piu’ gravi, per le quali il legislatore ha ritenuto di non dover
consentire l’applicazione di pene sostitutive. L’oggetto del presente
giudizio di legittimita’ costituzionale e’ dunque la rigidita’ di
tale estremo esito sanzionatorio, anche in rapporto a quanto disposto
dalla legge per la generalita’ delle pene detentive brevi.
3. – Il fulcro del ragionamento del rimettente poggia sulla
abrogazione – ad opera dell’art. 4 della legge n. 134 del 2003 –
dell’art. 60 della legge n. 689 del 1981, che prevedeva una serie di
esclusioni oggettive dall’applicabilita’ delle pene sostitutive,
riguardanti specifici reati in esso elencati. Tale innovazione
legislativa e’ avvenuta in occasione dell’introduzione nel codice di
procedura penale del cosiddetto «patteggiamento allargato», con il
chiaro intento di incentivare la scelta del rito premiale, favorendo
la conclusione di accordi su pene detentive brevi, con la contestuale
previsione che le stesse possano essere sostituite, quale che sia il
reato in contestazione, ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del
1981. La sopravvivenza di un’esclusione oggettiva per il solo reato
di inosservanza delle pene inflitte dal giudice di pace avrebbe
determinato, secondo il rimettente, una illegittimita’ costituzionale
sopravvenuta, essendo irragionevole che tale ultimo reato sia
soggetto ad un trattamento piu’ rigoroso di quello riservato a fatti
di indole analoga, ed anche piu’ gravi, come l’evasione, per i quali
invece le pene sostitutive sono ammesse.
3.1. – L’illegittimita’ costituzionale ravvisata dal rimettente
sussisterebbe solo se vi fosse una identita’ di ratio tra le
esclusioni oggettive previste dall’abrogato art. 60 della legge n.
689 del 1981 e la preclusione disposta dalla norma censurata. L’esame
delle fattispecie in oggetto, e del contesto in cui le singole norme
spiegano i loro effetti, induce tuttavia a concludere che dette norme
non esprimano rationes sovrapponibili, con la conseguenza che
l’evocazione di altre fattispecie penali, come termini di confronto
ai fini di un giudizio di irragionevolezza, non vale a dimostrare la
fondatezza della questione.
Giova innanzitutto notare che le sanzioni «paradetentive» non
sono pene sostitutive, ma principali, e costituiscono l’effetto di
un’apertura fiduciaria verso i condannati – assente invece quanto al
reato di evasione, almeno nell’ipotesi della restrizione in carcere –
che l’ordinamento ha voluto esprimere mediante la loro previsione
come pene edittali. La misura domiciliare che, anche in via
cautelare, sostituisce la detenzione intramuraria, implica una
valutazione fiduciaria che il giudice puo’ dare caso per caso, e che,
nell’eventualita’ di trasgressioni, viene revocata, con conseguente
ripristino della restrizione in carcere. Nell’ipotesi delle pene
«paradetentive» – che consistono in partenza in misure limitative non
carcerarie – il comportamento trasgressivo non puo’ determinare,
invece, alcun inasprimento del regime originario. L’effetto
dissuasivo si connette, dunque, unicamente alla sanzione applicabile
per la violazione degli obblighi concernenti la permanenza
domiciliare o il lavoro di pubblica utilita’, e sarebbe fortemente
ridotto se detta sanzione fosse attenuabile con la pena sostitutiva,
in quanto il trasgressore verrebbe a trovarsi in una situazione molto
vicina a quella iniziale.
Questa Corte – in tema di applicabilita’ delle sanzioni
sostitutive – ha gia’ messo in rilievo che l’elemento cui deve essere
attribuito un ruolo centrale nel giudizio di eguaglianza, per
giustificare o non il differente trattamento tra reati, non e’
l’entita’ della pena edittale, bensi’ l’efficacia deterrente
ragionevolmente esercitabile dalla pena sostitutiva in rapporto ai
caratteri oggettivi della condotta (ordinanza n. 184 del 2001).
Nel caso di specie, l’efficacia deterrente di una pena,
potenzialmente convertibile in un trattamento simile a quello proprio
della sanzione «paradetentiva» inflitta ab initio, sarebbe minima,
con la conseguenza di rendere scarsamente effettivo il sistema delle
pene irrogabili dal giudice di pace, ispirato a particolare mitezza,
sul presupposto di una fiducia che l’ordinamento accorda al reo.
3.2. – Va anche considerato, d’altra parte, che il massimo
edittale della pena detentiva irrogabile per le ipotesi di
trasgressione di cui al comma 1 dell’art. 56 del d.lgs. n. 274 del
2000 e’ la reclusione per un anno. E’ appena il caso di ricordare che
la pena in concreto applicata puo’ essere soggetta a sospensione
condizionale e che non e’ precluso al condannato l’accesso a misure
alternative in fase di esecuzione. Il necessario rigore «astratto» –
volto ad evitare che le pene «paradetentive» siano considerate
trascurabili – puo’ quindi essere attenuato nei casi concreti, avendo
riguardo alle caratteristiche specifiche della condotta, alle sue
motivazioni ed alla personalita’ del soggetto.
In definitiva, la norma censurata non e’ irragionevole per i
profili denunciati in quanto bilancia, con il divieto di conversione
della pena per i trasgressori degli obblighi nascenti da pene
«paradetentive», l’impossibilita’ di aggravare il trattamento
concernente la sanzione originariamente irrogata, come invece e’
previsto riguardo alle fattispecie evocate in comparazione dal
rimettente. Riguardo a queste ultime, il comportamento trasgressivo
incontra una doppia risposta sanzionatoria, il che giustifica la
possibilita’ che per la seconda delle risposte in questione, cioe’ la
pena irrogata per la trasgressione, possa eventualmente essere
applicata una sanzione sostitutiva, secondo la disciplina generale
dei reati che comportano pene detentive brevi.
Si tratta di sistemi diversi, ispirati a logiche in parte
differenti e quindi non del tutto omologabili, come invece sarebbe
necessario per rilevare una violazione dell’art. 3 Cost.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara non fondata la questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274
(Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma
dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione
con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010.

Il Presidente: Amirante

Il redattore: Silvestri

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria il 6 maggio 2010.

Il direttore della cancelleria: Di Paola

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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