Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 25-01-2011) 15-03-2011, n. 10462 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Ricorre per Cassazione il difensore di fiducia di M.A. avverso l’ordinanza emessa in data 17.4.2010 dalla Corte di Appello di Messina che rigettava la richiesta, ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 1, di riparazione per l’ingiusta detenzione subita dal M., avendo osservato che, nella specie, sussistevano gli estremi di condotte qualificabili come gravemente colpose, tali da condizionare del tutto il momento genetico del provvedimento restrittivo emesso per i reati di bancarotta fraudolenta e documentale dai quali era stato poi assolto.

Deduce la violazione di legge ed il vizio motivazionale sostenendo che, ai fini della normativa qui in applicazione, rileverebbero solo le condotte poste in essere successivamente alla formulazione dell’accusa e cioè che la ratio della norma di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, sarebbe quella di escludere l’equa riparazione solo per chi, ingiustamente accusato, sia stato talmente trascurato da omettere di portare con ogni sollecitudine all’autorità procedente ogni elemento in proprio favore. Il Procuratore generale in sede, all’esito della requisitoria scritta, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Il ricorso è inammissibile essendo le censure mosse manifestamente infondate. La Corte di merito ha ricostruito in modo dettagliato le circostanze di fatto che erano state poste a base del provvedimento restrittivo, richiamando singole condotte ascritte al M..

Le censure mosse non hanno affatto considerato l’orientamento consolidato di questa Corte in materia secondo il quale (v. Sez. Un. 13.12.1995, n. 43, Rv. 203636; e 26.6.2002, n. 34559, Rv. 222263) la nozione di "colpa grave" di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuata in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostanzi nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale. Inoltre, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del giudice della riparazione è ben diversa da quella del giudice del processo penale:

il primo, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un "iter" logico-motivazionale del tutto autonomo, perchè è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento "detenzione" (Sez. Un. n. 43 del 1996).

Infine, per valutare la "colpa grave" che, ai sensi dell’art. 314 c.p.p., comma 1, esclude il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione previsto da detta norma, il giudice deve fondare la propria decisione su fatti concreti esaminando la condotta del richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà ed indipendentemente dalla conoscenza che il prevenuto abbia avuto dell’inizio delle indagini al fine di stabilire, con valutazione "ex ante", non se la condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (Cass. pen. Sez. 4, 15.2.2007 n. 10987, Rv. 236508; Sez. 4, 9.10.2007 n. 1577, Rv. 238663, e Sez. Un. 27.5.2010, n. 32383 R.247664).

Orbene, la Corte territoriale ha fatto corretto uso degli anzidetti principi, che, come sopra anticipato, appaiono del tutto ignorati dal ricorrente.

Infatti, l’istante era stato assolto, per insufficienza degli elementi probatori, dal reato di bancarotta fraudolenta e documentale del quale il GIP, che aveva emesso l’ordinanza restrittiva, lo aveva ritenuto gravemente indiziato, in concorso con il padre e lo zio, per l’occultamento di beni personali del padre, e delle società fallire, 26 certificati di deposito e la portatore e le scritture contabili relative alla movimentazione bancaria afferente ai conti correnti delle società. La Corte ha evidenziato come il GIP, nella ricostruzione del quadro indiziario, avesse dato rilevanza proprio ai comportamenti posti in essere dal predetto (trasferimento di mobili e documenti da via (OMISSIS) ove erano situati gli uffici della Società oltre al suo studio, pagamento con un proprio assegno le spese dei trasporti, l’aver detenuto tutta una serie di beni propri delle società fallite, tra cui le scritture contabili nei computer del proprio ufficio ed in particolare i 6 floppy contenente i programmi banche della quattro società fallite anche al solo fine di studiare possibili proposte di amministrazione straordinaria) che, in quanto adottati in epoca prossima al fallimento, si sono prestati ad essere interpretati come indizi della contestata attività di occultamento di beni e documenti delle società fallite, al pari della costituzione, di poco antecedente al fallimento, della s.r.l.

SALCI, nella quale l’istante assunse la qualifica di amministratore consentendone, però la gestione di fatto al padre. A fronte di ciò, il M. non aveva fornito sufficienti chiarimenti per dimostrare la sua estraneità ai fatti addebitatigli, documentando gli acquisti degli arredi e dei beni strumentali rinvenuti nel suo studio e delle ragioni del rinvenimento dell’enorme mole di documentazione anche informatica relativa alle società fallite. A fronte di siffatte argomentazioni – che dunque afferiscono non solo alla fase successiva bensì, soprattutto, a quella antecedente alla formulazione dell’accusa-correttamente poste a fondamento della colpa grave del ricorrente ostativa del diritto di conseguire l’equa riparazione, le censure mosse si disperdono nella contestazione del valore nemmeno indiziario degli elementi raccolti, trascurando il diverso piano valutativo sul quale il Giudice della riparazione è legittimato a muoversi.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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