T.A.R. Campania Napoli Sez. VII, Sent., 11-03-2011, n. 1444 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con atto notificato tra il 28 e il 29 gennaio 2009 e depositato il 24 febbraio 2009, il ricorrente, assistente capo della Polizia penitenziaria, in servizio presso il Centro penitenziario di Secondigliano (NA), ha chiesto l’accertamento del suo diritto al risarcimento del danno professionale, economico, biologico ed esistenziale patito in conseguenza dell’illecita condotta tenuta dal datore di lavoro – consistita in reiterati atti e fatti gravemente vessatori, complessivamente riconducibili nella definizione di mobbing – con conseguente condanna dell’Amministrazione al pagamento della somma complessiva di euro 136.880,00, ovvero della maggiore o minore somma ritenuta di giustizia.

In punto di fatto il ricorrente premette che: A) la prima condotta imputabile all’Amministrazione risale al 23 giugno 1989, data in cui, mentre era in servizio alla sede di Brescia, riportò una frattura del polso sinistro, in relazione alla quale "nessun superiore gerarchico, nonostante l’evidente gonfiore dell’arto e le sue doglianze, riteneva di doverlo inviare a fare una lastra". A tale incidente seguiva un periodo di convalescenza di sessanta giorni, al termine del quale egli "veniva inspiegabilmente trasferito d’ufficio al carcere di Pianosa". Inoltre, in relazione a tale infortunio l’Amministrazione ometteva di compilare l’apposito modello da inviare all’Ospedale militare territorialmente competente, sicché a causa di tale omissione, "l’Ospedale militare non riconobbe questo infortunio come causa di servizio per il ricorrente"; B) le successive condotte risalgono al periodo 20042006 e iniziano dal momento del suo trasferimento presso la Casa circondariale di Lauro (AV), disposto in accoglimento di un’apposita domanda motivata con l’esigenza di assistere la consorte, affetta da neoplasia maligna al seno e riconosciuta invalida al 100%; B1) la prima delle condotte relative a tale periodo attiene al rigetto, da parte della direzione della Casa circondariale di Lauro delle istanze presentate dal ricorrente al fine di essere adibito a turni di servizio che gli consentissero di assistere la consorte; B2) in particolare uno specifico episodio risale al 9 aprile 2005, data in cui mentre era in servizio in qualità di autista cagionò una lieve ammaccatura all’autovettura di servizio. In relazione a tale episodio "il comandante non relazionò formalmente dell’accaduto…, ma diede personalmente incarico di ripararla ad un assistente capo… che si offrì di ripararla per 200 euro. Inutili furono le rimostranze dell’odierno ricorrente… Il ricorrente fu, quindi, costretto a sborsare 200 euro al collega che portò la macchina de qua a casa propria per la riparazione senza rilasciare fattura"; C) ulteriori condotte lesive vengono fatte risalire al periodo 2004/2005, durante il quale egli è stato impiegato quasi esclusivamente nel servizio di "garitta esterna" e in "turni ripetitivi". In particolare, quanto al predetto servizio, il ricorrente lamenta che "ha sempre svolto l’intero turno senza mai ricevere cambi, costretto ad espletare le proprie necessità fisiologiche all’aperto accanto alla garitta. Per questo… è stato ripetutamente richiamato dai superiori che gli intimavano di non uscire". Inoltre "veniva continuamente ripreso da videocamera di sorveglianza interna con evidente violazione della privacy". Quanto poi all’impiego in turni ripetitivi, disposto in violazione della vigente normativa, ciò determinava "oltre allo stress dettato dall’orario" il suo allontanamento dal contesto lavorativo "con conseguente dequalificazione ed emarginazione, nonché sminuimento della sua professionalità e della sua persona"; D) un ulteriore episodio specifico viene fatto risalire al 19 novembre 2005, data in cui gli veniva contestato di "aver contravvenuto all’ordine di servizio che prevedeva il divieto di lasciare acceso il proprio cellulare". Il procedimento seguito a tale contestazione, avviato a distanza di ben quatto mesi, si concludeva a distanza di ben due anni con l’irrogazione della sanzione della riduzione dello stipendio di tre trentesimi per tre mensilità, nonostante egli si fosse giustificato evidenziando che "il telefono era rimasto acceso solo quel giorno per lo stato di necessità della moglie che, come la Direzione sapeva,… era gravemente malata"; E) a tale episodio seguiva l’immotivato e inspiegabile rigetto o comunque un comportamento vessatorio tenuto dall’Amministrazione in relazione ad una serie di istanze dallo stesso presentate: quella del 20 dicembre 2005, finalizzata all’esonero dai turni notturni e giustificata dalla necessità di assistere la consorte; quella del 20 gennaio 2006, rivolta al direttore pro tempore della Casa circondariale di Lauro, sempre al fine di ottenere l’esonero dai turni notturni; quella del 27 marzo 2006, rivolta al Provveditorato regionale per ottenere il distacco presso l’aula bunker di Poggioreale; quelle in data 6 e 9 maggio 2006, volte a poter effettuare turni di mattina per un periodo di venticinque giorni, sempre al fine di poter assistere la moglie (in relazione a tali istanze l’Amministrazione effettuava dei controlli presso il centro di fisioterapia presso il quale egli si recava per assistere la consorte); quella del 13 giugno 2006, finalizzata ad ottenere un trasferimento presso il Tribunale di Nola; F) a giugno 2006 egli faceva rientro a Secondigliano (la sede di appartenenza), sicché, data la distanza dalla sua abitazione (circa 100 chilometri) avanzava una serie di istanze che non ottenevano risposta o venivano inspiegabilmente rigettate: quella rivolta al dott. Tinebra, Capo del personale; quella in data 16 dicembre 2006, volta ad ottenere un trasferimento presso il Tribunale di Nola; quelle in data 12 e 23 ottobre 2007 e in data 5 aprile 2008, finalizzate a visionare ed estrarre copia di tutta la documentazione relativa alle sue precedenti richieste; G) tutta la documentazione che da ultimo è riuscito ad ottenere dalla Casa circondariale di Lauro "risulta alterata e contraffatta, sia nella sottoscrizione del ricorrente (che risulta cancellata) sia nella firma dell’autorità che ha espresso parere. Risulterebbe che tutte le istanze non sono mai state portate al direttore p.t. per la firma, come da regolamento"; H) le condotte tenute dall’Amministrazione gli hanno causato "un grave isolamento nell’ambito lavorativo. I colleghi hanno cominciato ad allontanarlo per evitare possibili ritorsioni"; I) il suo medico di fiducia, specialista in psichiatria e psicoterapeutica gli ha diagnosticato un "disturbo posttraumatico da stress", unitamente ad un episodio depressivo maggiore "riconducibile alle vessazioni ed al clima subito sul posto di lavoro".

In punto di diritto il ricorrente articola quattro distinti motivi di ricorso. Il primo motivo mira a dimostrare che egli "è vittima di mobbing", da intendersi come "un’attività persecutoria posta in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica) e mirante ad indurre il destinatario della stessa a rinunciare volontariamente ad un incarico ovvero a precostituire i presupposti per una sua revoca attraverso una progressiva emarginazione dal mondo del lavoro", e che tale attività persecutoria, ove provata, costituisce un atto illecito, fonte responsabilità contrattuale (ex art. 2087 cod. civ.) ed extracontrattuale (ex art. 2043 cod. civ.) dell’Amministrazione. Infatti al ricorrente, quando era in servizio alla sede di Brescia, "è stato di fatto impedito di poter esercitare il legittimo diritto a chiedere la causa di servizio per un infortunio subito mentre era in servizio. La grave omissione, sia nell’immediatezza dell’evento che successivamente da parte dell’Amministrazione, non può che ritenersi un grave atto vessatorio che ha trovato la sua "degna" conclusione con il trasferimento d’ufficio al rientro della convalescenza". Inoltre il ricorrente, mentre era in servizio alla sede di Lauro, "è stato ulteriormente vessato in un periodo particolarmente difficile per lui e per la sua famiglia. Nonostante la moglie del ricorrente fosse affetta da una grave patologia, riconosciuta invalida al 100%… l’Amministrazione, consapevole sia a livello locale che a livello centrale di tali problematiche, ha sempre, costantemente ed illegittimamente rigettato tutte le richieste del ricorrente mettendolo in gravi difficoltà nella gestione della vita quotidiana, delle cure della moglie e dell’assistenza della moglie". Il secondo motivo mira a dimostrare che il ricorrente "ha subito il demansionamento ed un danno alla professionalità in violazione dell’art. 2013 cod. civ.". Infatti il comportamento dell’Amministrazione "ha determinato per il ricorrente un grave vulnus alla dignità, alla personalità morale ed al suo diritto a realizzare, nell’ambito dell’attività lavorativa, tutte quelle aspettative in funzione delle quali ha instaurato il rapporto di lavoro". Il terzo ed il quarto motivo sono incentrati sulla individuazione dei danni subiti dal ricorrente e sulla quantificazione degli stessi.

2. L’amministrazione intimata si è costituita in giudizio per resistere al ricorso in data 22 ottobre 2009 e in pari data ha depositato atti e documenti.

3. Alla pubblica udienza del 24 febbraio 2011 il ricorso è stato chiamato e trattenuto per la decisione.
Motivi della decisione

1. L’esame della domanda risarcitoria formulata dalla parte ricorrente richiede una preliminare analisi delle posizioni della giurisprudenza (da ultimo efficacemente sintetizzate da T.A.R. Umbria Perugia, Sez. I, 24 settembre 2010, n. 469) in merito ai presupposti necessari per configurare una responsabilità della Pubblica Amministrazione per condotte illecite qualificabili come mobbing.

In termini generali, per mobbing (da lavoro) si intende un complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere, nell’ambiente di lavoro, nei confronti di un dipendente e che si risolvono in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire l’isolamento e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità.

Pur mancando in Italia una normativa statale specifica sul mobbing da lavoro (della materia si occupano solo alcune disposizioni regionali e della contrattazione collettiva) la giurisprudenza ha sopperito a tale assenza attraverso il richiamo dei principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 4, 32 Cost., dell’art. 2087 c.c., dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori e dell’art. 2 del decreto legislativo n. 216/2003.

Quanto agli specifici presupposti che devono ricorrere perché possa parlarsi di mobbing, giova innanzi tutto rammentare che tale condotta illecita non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all’assetto dell’apparato amministrativo, o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (T.A.R. Piemonte, Sez. I, 8 ottobre 2008, n. 2438; Cons. Stato, Sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2015). Per configurare il mobbing non è, quindi, sufficiente un singolo comportamento, dovendosi piuttosto riscontrare una diffusa ostilità proveniente dall’ambiente di lavoro, che si realizzi in una pluralità di condotte, frutto di una vera e propria strategia persecutoria, avente di mira l’emarginazione del dipendente dalla struttura organizzativa di cui fa parte (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 7 aprile 2008, n. 2877; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 10 settembre 2007, n. 3143; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 8 marzo 2007, n. 403; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 29 giugno 2006, n. 881).

Inoltre è stato posto in rilievo che il tratto strutturante del mobbing – tale da attrarre nell’area della fattispecie comportamenti che altrimenti sarebbero confinati nell’ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro – è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. Pertanto, in ordine all’onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest’ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l’asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 11 agosto 2009, n 4581; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 14 dicembre 2006, n. 14604). In altri termini, il mobbing – proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo – non può essere imputato in via esclusiva ma anche prevalente al vissuto interiore del soggetto, ovvero all’amplificazione da parte di quest’ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 7 aprile 2008, n. 2877).

La sussistenza di una condotta mobbizzante deve dunque essere esclusa qualora la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (Cons. Stato, Sez. IV, 21 aprile 2010, n. 2272; Sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 4738; Sez. V, 27 maggio 2008, n. 2515).

D’altra parte, secondo la giurisprudenza (T.A.R. Umbria Perugia, Sez. I, 24 settembre 2010, n. 469), nell’esaminare i casi di preteso mobbing il Giudice deve evitare di assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica (per tacere dell’ipotesi, non scartabile a priori, che la rappresentazione delle sofferenze sia inveritiera e meramente strumentale allo scopo di supportare una domanda di risarcimento). Da un altro lato, è possibile che gli atti del datore di lavoro (di nuovo, pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati e in particolare che abbiano una certa giustificazione o quanto meno spiegazione siccome indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato. Tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale. Tale cautela di giudizio, si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate; infatti, in questa situazione, un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall’interessato può essere quanto mai fuorviante.

2. Passando alla fattispecie sottoposta all’esame del Collegio, non sussistono i presupposti per configurare le condotte dell’Amministrazione riferite dal ricorrente come mobbing, in base alle seguenti considerazioni.

La prima condotta lesiva imputata all’Amministrazione penitenziaria risale al lontano giugno 1989 (quando il ricorrente prestava servizio presso la casa circondariale di Brescia), cioè ad un episodio che precede di ben quindici anni le ulteriori condotte di cui si duole il ricorrente (risalenti al periodo 20042006) e consiste nella mancata compilazione dell’apposito modello che avrebbe dovuto essere trasmesso all’Ospedale militare territorialmente competente in relazione ad un incidente occorso al ricorrente e nel successivo "inspiegabile" trasferimento d’ufficio del ricorrente stesso al Carcere di Pianosa. Pertanto, allo stato degli atti appare ben difficile configurare una vera e propria strategia persecutoria tra episodi così distanti nel tempo e che vedono protagonisti soggetti diversi (la direzione della Casa Circondariale di Brescia, da un lato, e la direzione della Casa Circondariale di Lauro e del Centro Penitenziario di Secondigliano, dall’altro), specie se si considera che non è stato offerto alcun elemento di prova in ordine alla sussistenza di tale strategia persecutoria, né in ordine al carattere doloso della mancata compilazione del suddetto modello (che ben potrebbe, quindi, essere dipesa da una semplice negligenza), e manca la prova dell’illegittimità del predetto trasferimento d’ufficio. Senza considerare che un provvedimento di trasferimento d’ufficio, disposto per esigenze di servizio, costituisce, come noto, un evento non eccezionale nell’ambito di una particolare organizzazione qual è il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Passando alle ulteriori condotte lesive risalenti al periodo 20042006, che iniziano dal momento del trasferimento del ricorrente presso la Casa circondariale di Lauro (AV) – trasferimento peraltro disposto non d’autorità, bensì in accoglimento di un’apposita domanda presentata dall’interessato al fine di assistere la consorte, affetta da neoplasia maligna al seno e riconosciuta invalida al 100% – occorre innanzi tutto evidenziare che in merito all’episodio risalente al 9 aprile 2005 ed alla irrituale procedura seguita dal "Comandante p.t." per far riparare la lieve ammaccatura all’autovettura di servizio a spese del ricorrente, questi non ha offerto alcun elemento di prova a supporto delle proprie affermazioni e non è stato in grado di indicare neppure il nominativo del Comandante pro tempore, né quello del collega che avrebbe materialmente provveduto alla riparazione.

Inoltre – quanto alla sanzione disciplinare irrogata al ricorrente con il Decreto n. 121/2007 in data 2 agosto 2007 (consistente nella pena pecuniaria della riduzione in misura di un/trentesimo di una mensilità di stipendio e degli altri assegni a carattere fisso e continuativo) per aver violato la disposizione della Direzione della Casa circondariale di Lauro relativa al divieto di utilizzare il telefono cellulare (divieto applicabile a tutto il personale, ivi compreso quello impiegato in reparti non detentivi) – nessuna rilevanza può assumere la circostanza che il ricorrente nell’ambito del procedimento disciplinare si sia giustificato evidenziando che "il telefono era rimasto acceso solo quel giorno per lo stato di necessità della moglie che, come la Direzione sapeva,… era gravemente malata". Infatti nella relazione di servizio datata 19 novembre 2005, redatta dal superiore che ha rilevato l’infrazione commessa dal ricorrente, viene evidenziato che questi non si avvedeva della presenza del superiore "perché intento a sorridere con l’interlocutore che aveva al telefono cellulare", sicché v’è motivo per ritenere che il ricorrente non tenesse acceso il cellulare al solo scopo di poter prestare tempestivo soccorso alla moglie. Inoltre nessuna rilevanza possono assumere in questa sede i tempi del procedimento disciplinare (ossia la circostanza che tale procedimento sia stato avviato a distanza di quatto mesi dalla contestazione della mancanza e si sia concluso a distanza di due anni dalla stessa), anche perché il ricorrente non ha offerto alcun elemento di prova da cui si possa desumere che l’Amministrazione ha scientemente dilatato i tempi del procedimento.

Quanto agli ulteriori episodi relativi al servizio prestato dal ricorrente nel periodo 20042006 presso la Casa circondariale di Lauro, attengono essenzialmente: A) al rigetto, da parte della direzione della Casa circondariale di Lauro, delle istanze presentate dal ricorrente al fine di essere adibito a turni di servizio che gli consentissero di assistere la consorte; B) al fatto che il ricorrente sia stato impiegato quasi esclusivamente nel servizio di "garitta esterna" e in "turni ripetitivi", al fatto che, durante questi servizi egli avrebbe "sempre svolto l’intero turno senza mai ricevere cambi, costretto ad espletare le proprie necessità fisiologiche all’aperto accanto alla garitta" e, per questo motivo, sarebbe stato "ripetutamente richiamato dai superiori che gli intimavano di non uscire", al fatto che sarebbe stato "continuamente ripreso da videocamera di sorveglianza interna con evidente violazione della privacy", nonché al fatto che l’impiego in turni ripetitivi, disposto in violazione della vigente normativa, avrebbe determinato "oltre allo stress dettato dall’orario" il suo allontanamento dal contesto lavorativo "con conseguente dequalificazione ed emarginazione, nonché sminuimento della sua professionalità e della sua persona"; C) al rigetto dell’istanza presentata il 27 marzo 2006 per ottenere il distacco presso l’aula bunker di Poggioreale e di quella presentata il 13 giugno 2006 per ottenere un trasferimento presso il Tribunale di Nola.

In relazione a tali episodi il Collegio – oltre a ribadire che il giudice, nel valutare l’operato di un datore di lavoro qual è la Direzione di un carcere, deve tener conto delle peculiarità di un contesto lavorativo qual è l’Amministrazione penitenziaria, nel quale non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate – osserva che la documentazione prodotta dall’Amministrazione resistente almeno con riferimento a due di questi episodi offre elementi che smentiscono platealmente la prospettazione del ricorrente. S’intende far riferimento innanzi tutto all’estratto dal registro "Relazioni di servizio Polizia penitenziaria" in data 10 maggio 2006, dal quale si evince che in tale data il ricorrente, comandato per il turno di servizio 06/12 si è presentato in servizio alle ore 06,50 anziché alle ore 06,00 e che per giustificarsi ha rappresentato che "i turni di 06/12 sono massacranti, che deve alzarsi ogni mattina alle ore 5, per garantire la sua presenza alle ore 6 in istituto, e che il suo fisico non lo permetteva in quanto il tempo del riposo era esiguo"; tuttavia il Comandante del Reparto, a fronte di tali giustificazioni, ha provveduto ad effettuare una verifica dei turni di servizio, dalla quale è emerso che il ricorrente, "dal giorno 1 ad oggi 10.5.06,… ha effettuato solo tre turni di 6/12 ed esattamente domenica 7, martedì 9 ed oggi". Inoltre il ricorrente, a fronte di tali osservazioni – oltre a rappresentare "problemi familiari gravi e che un posto di servizio a lui confacente lo si può anche trovare tanto, accontentati altri che non hanno problemi, perché a me no?" – ha insistito per poter "espletare servizio presso la garitta con orario 8/14". Risulta quindi evidente non solo la scarsa propensione del ricorrente a rispettare gli orari di servizio, ma anche che non è stato sempre impiegato in turni ripetitivi e che, in ogni caso, l’impiego presso la garitta (con i connessi problemi relativi all’espletamento delle proprie necessità fisiologiche all’aperto) è stato oggetto di una sua specifica richiesta. Quanto poi alla presenza di telecamere sul luogo di lavoro, non stupisce che in un carcere sia operativo un servizio di videosorveglianza.

Né il ricorrente può dolersi dei controlli effettuati dalla Direzione del carcere presso il centro di fisioterapia ove si recava per assistere la consorte, posto che l’effettuazione di tali controlli rientra non solo tra i diritti, ma anche tra i doveri di un datore di lavoro pubblico.

Inoltre, con particolare riferimento al mancato accoglimento delle istanze di trasferimento presente dal ricorrente, vi è motivo di ritenere che i relativi provvedimenti di diniego siano stati tutt’altro che immotivati. Infatti l’Amministrazione resistente ha prodotto copia della nota in data 22 dicembre 2006, recante il rigetto di un’ulteriore analoga istanza presentata dal ricorrente in data 16 dicembre 2006 per ottenere il trasferimento presso il Tribunale di Nola, nella cui motivazione viene evidenziato che la richiesta del ricorrente "seppur contenente argomentazioni degne d’attenzione non può trovare accoglimento poiché il servizio di che trattasi rientra nel contesto di competenza del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti di Napoli Secondigliano. L’accesso presso i Nuclei presenti in regione è regolato e disciplinato con l’istituto dell’interpello a cui tutto il personale può partecipare quando emanato, in ragione del tutelato diritto per le pari opportunità".

Quanto ai restanti episodi relativi al servizio prestato dal ricorrente dopo il suo rientro presso il Centro penitenziario di Secondigliano, oltre a quanto si detto circa il rigetto dell’istanza di trasferimento presentata dal ricorrente in data 16 dicembre 2006, resta solo da evidenziare che non è questa la sede ove il ricorrente può dolersi del fatto che tutta la documentazione che da ultimo è riuscito ad ottenere dalla Casa circondariale di Lauro "risulta alterata e contraffatta, sia nella sottoscrizione del ricorrente (che risulta cancellata) sia nella firma dell’autorità che ha espresso parere. Risulterebbe che tutte le istanze non sono mai state portate al direttore p.t. per la firma, come da regolamento". Infatti il rimedio processuale per far valere tali questioni è costituito dalla querela di falso, che non rientra, come noto, nella giurisdizione del giudice amministrativo.

3. Tenuto conto di quanto precede, il Collegio ritiene che i suesposti episodi di conflitto tra il ricorrente e l’Amministrazione penitenziaria – neppure se complessivamente considerati – consentono di individuare un disegno unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del ricorrente e, quindi, che non sussistono neppure i presupposti per accogliere le istanze istruttorie formulate dal ricorrente.

Ne consegue che il presente gravame deve essere respinto perché infondato.

In considerazione della complessità delle questioni trattate sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso n. 1092/2009, lo respinge perché infondato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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