Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 10-02-2011) 16-03-2011, n. 10963 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Con sentenza deliberata l’8 marzo 2010 e depositata l’11 marzo 2010, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di quella stessa sede, 9 luglio 2008, di condanna alla pena della reclusione in un anno, un mese e dieci giorni a carico del sorvegliato speciale della pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, C.F., imputato del delitto previsto e punito dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9, comma 2, per aver contravvenuto al divieto del giudice della prevenzione di trattenersi abitualmente in luoghi ove si esercita la attività di meretricio.

I giudici di merito hanno accertato: il (OMISSIS) la polizia giudiziaria ha sorpreso il giudicabile mentre, vestito con abiti femminili e in compagnia di altro soggetto di sesso maschile similmente abbigliato, stazionava, in atteggiamento di adescamento, nei pressi dello stadio di (OMISSIS), "luogo ove notoriamente si esercita la attività di prostituzione"; inoltre "risultano numerosi controlli a carico del C., sempre in luoghi dove di esercita il meretricio in situazioni sovrapponibili a quella oggetto del più recente controllo" (pp. 1 – 2 della sentenza di primo grado).

La Corte territoriale, con riferimento ai motivi di gravame e in relazione a quanto assume rilievo nel presente scrutinio di legittimità, ha considerato: non merita accoglimento la richiesta dell’appellante di assoluzione perchè il fatto non costituisce reato; la condotta corrisponde al modello previsto dalla norma incriminatrice; l’elemento psicologico del delitto è conclamato dalla circostanza che l’agente fu colto "in evidente atteggiamento provocatorio". 2. – Ricorre per cassazione l’imputato, personalmente, mediante atto recante la data del 20 aprile 2010, col quale denunzia ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), inosservanza o erronea applicazione della legge penale, e, dopo varie digressioni, deduce:

le "cosiddette case chiuse" oggetto della previsione normativa del divieto di frequentazione, imposto al sorvegliato speciale della pubblica sicurezza, sono state "abolite con la L. n. 75 del 1958";

nè la "strada" è configurabile in tal senso per la carenza "di un minimo anche rudimentale di organizzazione della prostituzione"; il notorio cui ha fatto ricorso la Corte territoriale è concetto dai "confini sfumati e incerti"; i giudici di merito non hanno accertato "la presenza giornaliera, continua e costante di prostitute" in loco e l’allarme sociale indotto; difetta, altresì, l’accertamento del requisito della abitualità della condotta delittuosa.

3.- Il ricorso è infondato.

3.1 – Deve, innanzi tutto, premettersi, che la L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 15, non ha comportato l’abrogazione (tacita) della disposizione contenuta nella L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 5, comma 3, nella parte che annovera, tra le prescrizioni obbligatorie – il giudice della prevenzione deve adottarle "in ogni caso" – il divieto di "trattenersi abitualmente (..) in case di prostituzione".

La tesi contraria che il ricorrente pare adombrare, pur dando atto dell’opposto orientamento in dottrina, non è condivisibile.

All’epoca della entrata in vigore della L. 27 dicembre 1956, l’esercizio della prostituzione in forma organizzata, nelle "case", nei "quartieri" e in "qualsiasi altro luogo chiuso" all’uopo destinato, era soggetto a particolare regime amministrativo di autorizzazione, consistente nella adozione da parte della autorità locale della Pubblica Sicurezza del provvedimento recante la formale "dichiarazione di locali di meretricio" ( R.D. 18 giugno 1931, n. 773, artt. 190, 193 e 194 e del relativo Regolamento di l’esecuzione, R.D. 6 maggio 1940, n. 635, art. 40, artt. 345 e 352) nonchè di sorveglianza (cit. T.U., art. 197 e art. 41, artt. 353 e 360 del Regolamento).

Peraltro, già nella vigenza delle disposizioni del Titolo 7 del T.U. cit. (successivamente – come è noto – abrogato), il divieto per i sorvegliati concerneva incontestabilmente la frequentazione non solo delle "case di prostituzione" regolarmente autorizzate, ma anche di quelle esercitate in modo "abusivo" (art. 191 T.U. cit.) o "clandestino" (art. 201 T.U. cit), oggetto di puntuali previsioni repressive.

Infatti, il tenore della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 5, comma 3, è tale che la norma non consente di circoscrivere l’ambito del divieto in parola alle sole "case di prostituzione", munite della dichiarazione amministrativa di "locali di meretricio" ai sensi dell’art. 190 T.U. cit., ma riguarda indistintamente la frequentazione di tutte indistintamente le "case di prostituzione", sia di quelle (all’epoca) autorizzate, sia a fortiori delle "case di prostituzione" esercitate illecitamente.

Il divieto assoluto – e penalmente sanzionato – di esercizio delle case di prostituzione, successivamente introdotto dalla L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 1, abolitrice della regolamentazione della prostituzione, e la contestuale chiusura, ordinata con norma- provvedimento contenuta nella citata legge, art. 2, delle "case", dei "quartieri" e di "qualsiasi altro luogo chiuso, dichiarati locali di meretricio ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 190, e delle successive modificazioni, non hanno, pertanto, comportato la abrogazione del divieto per i sorvegliati della Pubblica Sicurezza di "trattenersi abitualmente (..) in case di prostituzione", le quali, alla stregua dell’attuale ordinamento giuridico, sono soltanto quelle oggetto della attività delittuosa prevista e punita dalla citata legge, L. 20 febbraio 1958, art. 3, comma 1, n. 1. 3.2 – Effettivamente il divieto, tipizzato dalla cit. L. 27 dicembre 1956, art. 5, comma 3, concerne la frequentazione delle "case di prostituzionè. Sicchè la proibizione non è estensibile ad altri luoghi (quale strade, piazze, spiagge, boschi, radure etc.) ove si eserciti la prostituzione, tuttavia diversi dalle "case", dai "quartieri" e da "qualsiasi altro luogo chiuso".

I rilievi del ricorrente sono, in proposito, esatti; ma la connessa censura non coglie nel segno. la L. 27 dicembre 1956, art. 5, comma 4, prevede che il giudice della prevenzione possa imporre al sorvegliato – congiuntamente alle prescrizioni obbligatorie, stabilite nei precedenti commi 2 e 3 – a discrezione, "tutte quelle prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale".

Orbene, nella specie, il giudice della prevenzione ha, per l’appunto, ravvisato la necessità di estendere il divieto di frequentazione (dalle case, come imposto dalla legge) ad ogni altro luogo, in cui si eserciti abitualmente la prostituzione.

3.3 – Comunque, ogni questione agitata dal ricorrente circa la legittimità del divieto imposto dal giudice della prevenzione, è del tutto irrilevante nel presente giudizio.

Soccorre, infatti, il principio di diritto, più volte affermato da questa Corte suprema, secondo il quale "in sede di procedimento pena- le,per la violazione degli obblighi, imposti al" sorvegliato speciale della pubblica sicurezza, "la legittimità del decreto – di applicazione della misura – non può essere posta in discussione", in quanto il provvedimento "ha natura sostanziale di sentenza", col "carattere di definitività (..) sia pure, stante la possibilità di modifica, alla condizione rebus sic stantibus", epperò resta "preclusa la deduzione, anche in via incidentale, di questioni relative alla illegittimità del decreto stesso" (Sez. 1, 24 gennaio 1973, n. 4466, Ippolito, massima n. 124254 e Sez. 1, 20 gennaio 1977, n. 9388, Baronchelli, massima n. 136495).

Dal succitato principio discende il corollario che la definitività del provvedimento giurisdizionale di applicazione della misura di prevenzione preclude a fortiori il sindacato, in via incidentale, in ordine alla legittimità delle particolari prescrizioni contenute nel decreto da parte del giudice penale dei reati di cui alla citata L. 27 dicembre 1956, art. 9. 3.4 – Manifestamente infondato è, infine, il motivo relativo al difetto del requisito della abitualità della condotta delittuosa.

La questione ha formato oggetto di puntuale accertamento dei giudici di merito, sulla base dei puntuali riferimenti contenuti nel processo verbale di arresto ai pregressi controlli operati in occasione dei quali i verbalizzanti avevano accertato la frequentazione da parte del ricorrente in luogo ove era esercitato il meretricio.

3.4 – Conseguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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