Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 22-12-2010) 22-03-2011, n. 11467

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Il G.i.p. del Tribunale di Milano – per quanto ancora rileva nel presente giudizio di legittimità – rigettava, con provvedimento deliberato il 30 aprile 2010, la richiesta del PM della sede, di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel confronti di F.A. e di P.M., persone nei cui confronti era stato disposto dal PM presso il Tribunale di Reggio Calabria il fermo, siccome gravemente indiziate:

– entrambe, di partecipazione ad associazione di tipo mafioso (capo 1 della rubrica provvisoria), reato commesso in (OMISSIS) ed altri luoghi, sino ad almeno il (OMISSIS); concorso in intestazione fittizia di beni (plurimi mezzi di autotrasporto, capo 12 della rubrica), reato commesso in (OMISSIS), sino al (OMISSIS);

concorso in estorsione aggravata ai danni di A.S. (capo 13 della rubrica), reato commesso in (OMISSIS) tra l’ (OMISSIS); la sola P., altresì, di concorso in intestazione fittizia di beni (un esercizio commerciale di vendita al dettaglio di prodotti alimentari, capo 19 della rubrica), reato commesso in (OMISSIS); concorso in intestazione fittizia di beni (un esercizio commerciale di vendita di capi d’abbigliamento e calzature, capo 20 della rubrica), reato commesso in (OMISSIS).

1.1 – Il G.i.p. milanese, infatti, pur ravvisando gravi indizi di colpevolezza a carico di F.A. e di P.M. con riferimento al reato di partecipazione ad associazione mafiosa ed ai reati contestati ai capi 12, 13, 19 e 20, riteneva invece l’insussistenza di esigenze cautelari.

2. – Proposto appello dal PM milanese avverso il summenzionato provvedimento, il tribunale di Milano, costituito ex art. 310 c.p.p., ha accolto il gravame e, dichiarata l’incompetenza dell’autorità giudiziaria milanese in favore di quella reggina, ha disposto la misura cautelare in carcere nei confronti della F. e della P., ritenendo fondata l’ipotesi accusatoria secondo cui le indagate erano partecipi dell’associazione di tipo mafioso denominata "ndrangheta", e segnatamente della cosca "ndrina Pesce" operante in (OMISSIS) e zone limitrofe nonchè a (OMISSIS), città in cui si erano trasferite stabilmente, ricoprendo un ruolo di collegamento tra il detenuto P.S., rispettivamente marito e padre, e gli altri membri del clan, sia detenuti ( F.G.) che in libertà. 2.1 – Con riferimento alla valutazione della gravità indiziaria il tribunale, anche attraverso un espresso rinvio al decreto di fermo ed al contenuto di alcune conversazioni intercettate che vedevano coinvolte le indagate, ha ritenuto che la F. non si fosse limitata ad un ruolo passivo – ad usufruire cioè, per il mantenimento suo e dei figli, delle somme estorte dalla cosca all’imprenditore A.S., titolare dell’impresa di trasporti Trivel Sud – ma essendo a conoscenza di tutte le vicende del "clan Pesce", come la figlia M., che per conto del padre S. gestiva alcune attività commerciali riferibili allo stesso, aveva fornito un "contributo attivo" alla vita dell’associazione, svolgendo il ruolo – non fungibile – descritto nel capo d’imputazione, che presentava i caratteri della "continuità e permanenza". 2.2 – Quanto alle esigenze cautelari, i giudici dell’appello, ribadito il ruolo non secondario ricoperto dalle indagate nella cosca, anche in ragione dello strettissimo legame, anche di natura parentale, da esse intrattenuto con F.G. e P. S., hanno ritenuto che, operando nel caso in esame la presunzione di persistenza delle esigenze cautelari in costanza del vincolo associativo, non fosse condivisibile l’assunto del GIP secondo cui, emergendo dalle intercettazioni che le indagate si occupassero ormai a tempo pieno di un familiare affetto da grave disabilità, ciò comportasse, per ciò solo, la insussistenza delle esigenze cautelari, essendo le stesse ormai avulse dal contesto delittuoso, "territorialmente molto radicato", evidenziando sul punto, per un verso, che la "ndrina Pesce agisce ed opera anche a Milano", luogo di residenza delle indagate, e sotto altro profilo, che la cura di un soggetto portatore di grave handicap, non impedisce certamente la prosecuzione degli affari della cosca.

2.3 – Con riferimento, poi, all’allegazione difensiva, secondo cui il PM milanese non aveva interesse ad impugnare l’ordinanza di rigetto della richiesta applicativa di misura cautelare, tenuto conto, per un verso, che il GIP adito, qualora avesse applicato la misura, si sarebbe dovuto dichiarare incompetente; e per altro verso che risultava ormai definitivamente spirato per il PM reggino il termine per richiedere, ex art. 27 c.p.p., l’applicazione della misura al giudice territorialmente competente, il tribunale la disattendeva, osservando che, essendo il PM "certamente competente al momento della richiesta", non vi era alcuna ragione per cui lo stesso non potesse appellare un provvedimento di rigetto della richiesta stessa da lui avanzata.

3. – Avverso l’indicata decisione, con due distinti atti di impugnazione, ricorrono entrambe le indagate, a mezzo del comune difensore, avvocato Mario Santambrogio, il quale, anche attraverso memoria difensiva in data 14 dicembre 2010, ne sollecita l’annullamento.

3.1 – Nel ricorso proposto nell’interesse della F., con un primo motivo d’impugnazione, si deduce, in particolare, l’illegittimità dell’ordinanza impugnata per violazione di legge ( l’art. 291 c.p.p., comma 2) imponendo detta norma al giudice dell’impugnazione territorialmente incompetente, in termini di assoluta pregiudizialità, l’esame ed una valutazione di sussistenza della condizione di urgenza del soddisfacimento delle esigenze cautelari, nel caso in esame totalmente mancata, fermo restando che, poichè le condotte di asserita partecipazione all’associazione si arrestano al 10 febbraio 2007, tale urgenza è di fatto insussistente, come dimostrato, del resto, dalla stessa condotta della indagata, successiva alla sua scarcerazione.

Con il secondo ed ultimo motivo d’impugnazione da parte del ricorrente si censura ancora la decisione impugnata, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, relativamente alla ravvisata sussistenza delle esigenze cautelari, tenuto conto che l’art. 275 c.p.p., comma 3, ultima parte, configura una "presunzione semplice"; che i giudici di appello, del tutto illogicamente, avevano attribuito assoluta importanza al vincolo familiare esistente tra le indagate ed alcune figure apicali dell’associazione mafiosa, di contro travisando o comunque incongruamente svalutando, alcune circostanze significative, quali il trasferimento dell’Indagata F., unitamente alla figlia M., a (OMISSIS), laddove i colloqui in ambito penitenziario con i propri congiunti posti a base dell’applicazione della misura, risalivano al periodo 2006-febbraio 2007, dato questo che rende incongrua l’affermazione del tribunale circa il ruolo infungibile ricoperto dell’indagata nel contesto associativo. In particolare secondo il ricorrente è mancata da parte dei giudici di appello una adeguata e logica confutazione di alcuni elementi significativi opportunamente valorizzati dal primo giudice, quali la incensuratezza della F. e la non documentata attualità delle esigenze cautelari, risalendo la condotta contestata ad un periodo risalente, intercorrente tra il 2003-2004 ed il marzo 2007; il ruolo comunque subordinato e meramente esecutivo, eventualmente ricoperto nella compagine associativa; il risultare l’indagata palesemente avulsa dal contesto delittuoso dei parenti detenuti; l’avvenuto trasferimento a (OMISSIS) con la figlia handicappata, invalida al 100%. 4. – Considerazioni pressochè analoghe vengono svolte nel ricorso proposto nell’interesse di P.M., nel quale si precisa, altresì, come l’ordinanza impugnata risulti assolutamente incongrua, allorquando ravvisa un coinvolgimento dell’Indagata, nell’episodio del tentato omicidio in danno di F.R. e relativamente alla "risposta" che la cosca avrebbe dovuto dare all’uccisione di S.D., posto che la P. non era stata presente ai colloqui in cui vennero discusse tale vicende, laddove, di contro, il contenuto dei due colloqui avuti con il fratello F. riconosciuti come indizianti, e l’intestazione nel 2003 di un esercizio commerciale, non facevano che confermare, a tutto concedere, il ruolo assolutamente marginale e privo di autonomia ricoperto dall’indagata nell’ambito associativo e la non attualità delle esigenze cautelari, anche in considerazione del trasferimento a (OMISSIS), con la madre, e dell’impegno costante profuso nell’assistenza alla sorella handicappata.
Motivi della decisione

1. – Ritiene il collegio che l’ordinanza del tribunale del riesame sia da annullare senza rinvio.

Ed invero, a prescindere dai profili di Illegittimità del provvedimento impugnato denunzianti dai ricorrente con riferimento, in primo luogo, all’assoluta mancanza di una valutazione circa "l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274", pure richiesta dall’art. 291 c.p.p., comma 2 – e sulla cui indispensabilità questa Corte, nella sua più autorevole composizione (S. U., sentenza n. 19 del 25/10/1994, dep. il 12/12/1994, ric. De Lorenzo), ha già avuto modo di pronunciarsi affermativamente – risulta assorbente e preliminare il rilievo che l’appello proposto dal PM milanese avverso la decisione del giudice incompetente di rigettare la richiesta di applicazione di una misura cautelare per mancanza di esigenze cautelari (ovvero per mancanza d’urgenza), doveva ritenersi, in radice, inammissibile per carenza d’interesse, ove si consideri che la decisione del giudice incompetente non è mai preclusiva di una diversa valutazione da parte di quello territorialmente competente.

Come da tempo chiarito da questa Corte, nel suo più autorevole consesso (Sez. U, Sentenza n. 15 del 18/06/1993, dep. 29/07/1993, rie. Silvano) e come ribadito anche in una più recente pronuncia (Sez. 6, Sentenza n. 24639 del 28/04/2006 dep. 17/07/2006, imp. Lepre, Rv. 235187), "il provvedimento di rigetto della richiesta di misura cautelare adottato dal giudice delle indagini preliminari, competente per la convalida del fermo eseguito fuori dal circondario, non preclude al PM territorialmente competente la reiterazione della suddetta richiesta al giudice naturale, in quanto, qualora il luogo dell’arresto o del fermo sia diverso da quello della commissione del reato, l’eventuale ordinanza coercitiva emessa dal G.i.p. competente per la convalida ha efficacia provvisoria, ex art. 27 c.p.p., che si applica anche ai provvedimenti adottati in esito alla udienza di convalida del fermo o dell’arresto, senza che rilevi la formale dichiarazione di incompetenza del giudice con riguardo al reato in contestazione; ne consegue che, nell’ipotesi di provvedimento di rigetto della misura, non si forma alcun giudicato cautelare".

Orbene, se il provvedimento di rigetto della richiesta di applicazione di misura cautelare adottato dal giudice incompetente, come affermato, non determina alcuna preclusione all’eventuale reiterazione da parte del PM territorialmente competente della suddetta richiesta al giudice naturale, è evidente, allora, che il PM territorialmente incompetente – così come avvenuto, del resto, nel caso deciso dalla citata sentenza n. 24639 del 28/4/2006 – non aveva alcun effettivo interesse a sollecitare l’adozione di una misura cautelare interinale ad un giudice, il tribunale di Milano, dichiaratosi territorialmente incompetente ex art. 27 c.p.p..
P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *