Cass. civ. Sez. III, Sent., 09-06-2011, n. 12712 Affitto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso 30 dicembre 2003 B.C.I., in proprio e quale erede di B.L. e A.M., comproprietari di un immobile destinato ad alpeggio in comune di Ollomont concesso in affitto (unitamente al diritto di uso delle stalle per il ricovero del bestiame presenti nell’alpeggio) a L.E. con contratti 10 marzo 1987 e 7 marzo 1988 – riferito che il L. non aveva provveduto al pagamento del canone del caso per gli anni 1996 – 1997, che, sorta tra le parti controversia giudiziaria, la stessa era stata definita con transazione 5 agosto 1999 con la quale lo stesso L. si era riconosciuto debitore del complessivo importo di L. 48 milioni per canoni non pagati e di L. 3 milioni a titolo di rimborso spese e che il debitore non aveva rispettato le condizioni di pagamento presenti nella riferita scrittura – hanno convenuto in giudizio innanzi al tribunale di Aosta, sezione specializzata agraria, L.E., chiedendo che, dichiarata la risoluzione del contratto di affitto inter partes atteso il grave inadempimento del convenuto, questo ultimo fosse condannato al pagamento dei canoni scaduti nonchè al rilascio del fondo.

Il L., ancorchè non costituitosi in giudizio, è comparso personalmente nel corso della prima udienza riconoscendo il proprio debito.

Disposta la integrazione del contraddittorio nei confronti di B. A., comproprietario del fondo e svoltasi la istruttoria del caso, l’adita sezione con sentenza 20 aprile 2004 ha dichiarato risolto, per inadempimento del conduttore, il contratto inter partes con condanna del L. al rilascio degli immobili e al pagamento dei canoni scaduti (per Euro 21.469,07) nonchè di ulteriori Euro 514,17 per ogni mese di occupazione dal 1 maggio 2004 alla effettiva riconsegna.

Gravata tale pronunzia dal soccombente L., nel contraddittorio di B.C.I., A.M. e B. A. che, costituitisi in giudizio, hanno resistito alla avversa impugnazione deducendone la infondatezza, la Corte di appello di Torino, sezione specializzata agraria, con sentenza 17 novembre 2005 – 9 febbraio 2006 ha rigettato l’appello con condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite.

Per la cassazione di tale pronunzia, notificata il 17 marzo 2006, ha proposto ricorso L.E., affidato a 6 motivi, con atto 17 maggio 2006.

Resistono, con controricorso, B.C.I., A. M. e B.A..
Motivi della decisione

1. Il ricorrente censura la sentenza impugnata denunzi andò:

– in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5 (ante riforma – testo vigente sino al 1 marzo 2006) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dal L., ma rilevabile anche d’ufficio: nullità ed inefficacia della contestazione stragiudiziale dell’inadempimento, improcedibilità della domanda giudiziale di risoluzione contrattuale; violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 5 e dell’art. 110 cod. proc. civ., e segg. (atteso che la lettera di contestazione 28 ottobre 2002 intima di sanare la morosità in soli 15 giorni, non è sottoscritta nè vi è la spendita del nome del terzo comproprietario, le inadempienze contestate non contengono alcun riferimento ai tre contratti inter partes, vi è erroneità e non corrispondenza di causa petendi e petitum, rispetto alla successiva istanza per il tentativo di conciliazione) (primo motivo);

– in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5 (ante riforma – testo vigente sino al 1 marzo 2006) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dal L., ma rilevabile anche d’ ufficio: nullità ed inefficacia della richiesta del tentativo di conciliazione, improcedibilità della domanda giudiziale; violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 46, specie considerato che non vi era stato il rinnovo del tentativo di conciliazione in occasione della chiamata in causa del terzo comproprietario (secondo motivo);

– in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5 (ante riforma – testo vigente sino al 1 marzo 2006) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dal L., ma rilevabile anche d’ufficio: errata quantificazione dei canoni scaduti e conseguente errato accertamento della mora e della risoluzione contrattuale, improcedibilità della domanda giudiziale per necessaria ripetizione della fase stragiudiziale prevista della L. n. 203 del 1982, ex art. 5 e art. 46, atteso che era compito del giudicante procedere alla analitica verifica dei conteggi e delle somme rivendicate ex adverso mentre sia il primo che il secondo giudice hanno mancato in ciò (terzo motivo);

– in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5 (ante riforma – testo vigente sino al 1 marzo 2006) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dal L., ma rilevabile anche d’ufficio: nullità ed improcedibilità/inefficacia della domanda giudiziale per indeterminatezza dell’oggetto con riferimento ai pascoli rivendicati in restituzione; violazione e falsa applicazione dell’art. 125 cod. proc. civ. – per riflesso, nullità della sentenza impugnata, atteso che già nelle scritture poste a fondamento del presente giudizio (contratti agrari e scrittura di transazione) non risultano indicati in modo corretto gli immobili oggetto di contratto e tale omissione si ripete sia nel ricorso introduttivo e nella comparsa B.A. e nelle sentenze di primo e secondo grado che si limitano a condanna il convenuto al rilascio degli immobili oggetto del contratto di affitto (quarto motivo);

– in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5 (ante riforma – testo vigente sino al 1 marzo 2006) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dal L., ma rilevabile anche dr ufficio: improcedibilità della domanda giudiziale per omessa concessione del termine di grazia di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 46 comma 6; violazione e falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 46, comma 6 (quinto motivo);

– in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5 (ante riforma – testo vigente sino al 1 marzo 2006) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dal L., ma rilevabile anche d’ufficio: sostituzione ope legis delle clausole contrattuali nulle ed in difformità dal regime vincolistico di cui alla L. n. 203 del 1982 – Questione pregiudiziale attinente la validità ed efficacia delle clausole sulla pattuizione dei canoni di affitto – Indeterminatezza ed improcedibilità della domanda giudiziale di risoluzione per morosità; violazione e falsa applicazione della L. n. 508 del 1973, art. 2 e L. n. 814 del 1973, art. 3 e L. n. 176 del 1978 e L. n. 595 del 1919 (sesto motivo).

2. Giusta la testuale previsione di cui all’art. 372 cod. proc. civ., comma 1, da cui totalmente e senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente nel giudizio di cassazione non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso.

Contemporaneamente, come assolutamente incontroverso presso una più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, le ipotesi di nullità della sentenza che consentono, ex art. 372 cod. proc. civ., la produzione di nuovi documenti in sede di giudizio di legittimità, sono limitate a quelle derivanti da vizi propri dell’atto per mancanza dei suoi requisiti essenziali di sostanza e di forma, e non si estendono, pertanto, a quelle originate, in via riflessa o mediata, – da vizi del procedimento, quantunque idonei, in astratto, a spiegare effetti invalidanti sulla sentenza (Cass. 26 ottobre 2006,n. 23026; Cass. 4 novembre 2004, n. 21140).

E’ palese – per l’effetto – che deve dichiararsi la assoluta irritualità della produzione dei documenti sub 5, 6, 8 – 13 prodotti dal ricorrente per la prima volta in questo giudizio di cassazione.

3. Precisato quanto sopra osserva il collegio che il proposto ricorso non può trovare accoglimento.

I riassunti motivi, infatti, appaiono – sotto più profili – inammissibili e, per altri, manifestamente infondati.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

3. 1. Sia la lettera, raccomandata con avviso di ricevimento, con cui – ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 5, comma 3 – il locatore contesta al conduttore un inadempimento contrattuale, sia la comunicazione (al conduttore e all’ispettorato provinciale dell’agricoltura) da parte del concedente, della propria intenzione di proporre in giudizio una. domanda relativa a una controversia in materia di contratti agrari (e di cui alla citata L. n. 203 del 1982, art. 46, comma 1, sono atti che – sebbene propedeutici a un futuro giudizio – sono estranei al processo (che si instaura unicamente con il deposito del ricorso di cui all’art. 413 cod. proc. civ.).

E’ palese, per l’effetto, che il legale della parte concedente può sottoscrivere tali atti nell’interesse del proprio assistito anche ove investito di un incarico meramente verbale.

Anche a prescindere da quanto precede, comunque – come puntualmente evidenziato nella pronunzia ora oggetto di ricorso per cassazione – ritiene la Corte che non può invocarsi la nullità di tali atti perchè non sottoscritti personalmente dalla parte, nella eventualità – come non si dubita si sia verificato nella specie – in cui allo stesso difensore sia stata rilasciata, per il successivo giudizio, rituale procura ad litem con conseguente ratifica dell’attività svolta in precedenza (cfr. nel senso che in tema di esercizio del diritto di ripresa ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 42, è valida la disdetta, ancorchè sottoscritta dal solo legale del concedente, ove ad essa sia seguita la comparizione della parte innanzi all’ispettorato dell’agricoltura in sede di tentativo obbligatorio previsto dall’art. 46 legge cit., avendone, in tal modo, la parte ratificato l’operato, manifestando la volontà di fare proprio l’atto posto in essere da colui che aveva agito come suo rappresentante senza averne i poteri, Cass. 19 agosto 1992, n. 9636).

3.2. Giusta quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice in tema di recesso dal contratto di locazione concernente un immobile oggetto di comunione, il principio della concorrenza di pari poteri gestori in tutti i comproprietari comporta che ciascuno di essi sia legittimato a dare disdetta del contratto e ad agire conseguentemente, nei confronti del conduttore, per il rilascio dell’immobile in recesso contro il conduttore, senza che sia configurabile una ipotesi di litisconsorzio necessario con gli altri comproprietari (Cass. 19 settembre 2001, n. 11806; Cass. 18 gennaio 2002, n. 537; Cass. 18 luglio 2008, n. 19929; Cass. 22 giugno 2009, n. 14530, tra le tantissime).

Pacifico quanto precede è di palmare evidenza che qualora un fondo agricolo oggetto di contratto di affitto sia in comproprietà tra più soggetti non è motivo di nullità (o di inefficacia) dei relativi atti la circostanza che le raccomandate L. 3 maggio 1982, n. 203, ex art. 5 e art. 46, siano state scritte dal legale della parte concedente unicamente a nome di due dei tre comproprietari – concedenti.

3.3. Nè, ancora, concludendo sul punto, ha un qualche fondamento l’assunto secondo cui disposta dal giudice di primo grado – in assenza delle condizioni di cui all’art. 102 cod. proc. civ. – l’integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo proprietario il giudizio nei confronti di questo si sia svolto senza l’esperimento del tentativo di conciliazione di cui al più volte ricordato della L. n. 203 del 1982, art. 46, atteso – da un lato – che è lo stesso sistema normativo che esclude che il tentativo di conciliazione previsto dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, debba essere rinnovato in caso di chiamata in causa di terzi a opera del giudice (certo essendo che fanno difetto i termini per consentire l’esperimento dell’adempimento in questione), dall’altro – in via assorbente – che una eventuale transazione della lite tra il conduttore e il terzo chiamato, proprietario unicamente di un terzo indiviso del fondo oggetto di controversia, non era idonea, neppure in tesi, a evitare la controversia (cfr. Cass. 21 ottobre 1994, n. 8653; Cass. 6 aprile 2001, n. 5154).

3.4. In linea di fatto i giudici di secondo grado – quanto alle censure sviluppate nell’atto di appello in margine all’assenza, nella contestazione della L. 3 maggio 1982, n. 203, ex art. 5, di specificità (vuoi quanto al contratto cui si faceva riferimento vuoi quanto all’inadempienza contestata) hanno accertato:

– da un lato, che nella diffida vi è la chiara indicazione dell’oggetto delle richieste dei proprietari con la specifica somma riguardante i canoni di affitto e anche la motivata richiesta di provvedervi;

– dall’altro, che vi era la piena consapevolezza del conduttore della situazione verificatasi per il mancato pagamento dei canoni, tanto che, comparendo personalmente, ebbe a confermare l’entità delle somme dovute e il titolo per il quale venivano richieste.

Non diversamente, quanto alla richiesta 7 luglio 2003 perchè si procedesse al tentativo di conciliazione di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, la sentenza impugnata ha escluso sia la sua inefficacia (perchè l’oggetto del tentativo non corrispondeva all’oggetto della successiva lite giudiziaria) sia la sua genericità. 3.5. Pacifico quanto sopra è evidente la inammissibilità di tutte le censure svolte in ricorso – nel primo, nel secondo e nel terzo motivo e tendenti a censurare la sentenza impugnata nella parte de qua.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

3. 5. 1. Al riguardo, si osserva, in primis – in una con una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – che il ricorso per cassazione -in ragione del principio di cosiddetta autosufficienza dello stesso – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed altresì a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere – particolarmente nel caso in cui si tratti di interpretare il contenuto di una scrittura di parte – a fonti estranee allo stesso ricorso e quindi ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 13 giugno 2007, n. 13845;

Cass. 18 aprile 2007, n. 9245; Cass. 9 gennaio 2006, n. 79, tra le tantissime).

Il ricorrente per cassazione – pertanto – il quale deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una decisiva risultanza processuale ha l’onere di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative.

Pacifico quanto precede si osserva che nella specie parte ricorrente pur censurando la lettura fatta dai giudici di secondo grado, sia della lettera di contestazione 28 ottobre 2002, sia di quella, 7 luglio 2003, diretta a sollecitare il tentativo di conciliazione, omette di trascriverne, in ricorso, il contenuto di tali comunicazioni, è palese – alla luce delle considerazioni svolte sopra – la inammissibilità delle censure.

3.5.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, si osserva che giusta quanto assolutamente pacifico, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui totalmente prescinde la difesa della parte ricorrente si osserva che l’accertamento e la valutazione delle circostanze di fatto, come l’interpretazione degli atti negoziali, al pari dell’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, sono riservati al giudice di merito e censurabili in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (Cass. 13 novembre 2007, n. 23569).

In particolare, la interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 cod. civ., e segg., o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione.

Pertanto onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536).

3.6. Manifestamente infondato – ancora – è il quarto motivo.

A prescindere dai pur corretti rilievi svolti in sentenza si osserva – in termini opposti a quanto del tutto apoditticamente invocato dalla difesa del ricorrente – che non sussiste alcun onere, a carico del concedente che evoca in giudizio il conduttore di un fondo rustico chiedendone il rilascio, di compiere una descrizione catastale del fondo stesso (eventualmente con indicazione dei confini).

A prescindere dal considerare che si è a fronte a azioni personali e non reali, nella eventualità – come si è verificato nella specie – che il conduttore ammette l’esistenza – tra le parti – di un rapporto di affitto – entrambe le parti non possono non conoscere l’ oggetto del contratto e non sussiste – di conseguenza – alcuna possibilità di dubbio su quello che sia l’oggetto della controversia, specie qualora – come nella specie – quello invocato sia del resto l’unico contratto di affitto agrario in essere tra le parti.

3.7. Giusta quanto assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – da cui, senza alcuna motivazione, totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente, l’assegnazione di un termine di grazia all’affittuario di fondo rustico per sanare la morosità nel pagamento dei canoni, ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, comma 6, postula che il medesimo formuli un’istanza inequivoca, ancorchè priva di formule sacramentali, volta a porre fine al merito della lite (Cass. 19 gennaio 2001, n. 714, secondo cui tale istanza si rivela inidonea qualora venga formulata alla fine dell’istruttoria e subordinata al mancato rigetto della domanda del concedente, e che il termine di grazia non può essere concesso se la difesa svolta da colui che occupa il fondo risulta incompatibile con l’affermazione dell’esistenza di un contratto di affitto tra le parti; Cass. 28 maggio 2009, n. 12567, tra le tantissime).

Pacifico quanto precede è evidente la manifesta infondatezza del quinto motivo di ricorso, certo essendo che non risulta in alcun modo nè la circostanza è stata invocata dall’odierno ricorrente, mediante trascrizione del verbale della prima udienza che il L. abbia sollecitato la concessione del termine in questione.

3.8. Giusta quanto assolutamente incontroverso -presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente – ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (Tra le tantissime in tale senso cfr., Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 12 luglio 2005, n. 14590).

Pacifico quanto sopra è palese la inammissibilità del sesto motivo, nella parte in cui si censura la sentenza di appello per non avere proceduto a un accertamento pregiudiziale della validità delle clausole contrattuali (relative alla misura del canone).

Specie tenuto presente che pur affermandosi – del tutto apdotticamente che l’appellante aveva sollevato la questione – non è precisato nè in quali termini la stessa era stata prospettata all’attenzione del giudice di secondo grado, nè se e, quando – nel rispetto del principio del contraddittorio e delle preclusioni poste dall’art. 416 cod. proc. civ., e segg., la questione apparteneva all’ambito del giudizio di primo grado.

3.9. Anche a prescindere da quanto precede – comunque – deve evidenziarsi (a dimostrazione della inammissibilità o comunque manifesta infondatezza della censura) che:

– i giudici di appello, deducendo l’appellante – con il quarto motivo – che il tribunale avrebbe erroneamente quantificato i canoni scaduti e sostenendo la esistenza di errori nei calcoli, ha evidenziato che tale motivo non poteva essere accolto perchè si invocava, a suo fondamento, "prospetto e pezze giustificative", cioè una "documentazione non producibile nè ammissibile in grado di appello perchè di formazione antecedente all’appello e che, quindi, doveva essere prodotta in primo grado, essendo anche antecedente allo stesso";

– pacifico quanto sopra è di palmare evidenza che sul punto si è formato il giudicato per non essere stata, espressamente e puntualmente, censurata dal soccombente, la ratio decidendi della sentenza impugnata, quanto al rigetto del quarto motivo di appello;

– giusta quanto assolutamente incontroverso, presso una più che consolidata controversia di questa Corte regolatrice (tra le tantissime, ad esempio, Cass. 14 novembre 2008, n. 27264; Cass. 19 aprile 2010, n. 9266), per effetto della sentenza n. 318 del 2002 della Corte costituzionale, sono divenute prive di effetti le tabelle per i canoni di equo affitto come disciplinate dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 9, e dalle norme da questo richiamate. Deriva da quanto sopra, quindi, che per l’immediato, salvo un eventuale nuovo intervento del legislatore – non esistendo più livelli massimi di equità stabiliti dalle dette tabelle – non ha alcun fondamento la domanda diretta all’accertamento del canone equo, ove con questa il conduttore – ai sensi della L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 28 – tenda alla ripetizione delle somme corrisposte in eccedenza ai menzionati livelli, in forza di accordi liberamente intervenuti tra le parti, anche senza l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali agricole;

– contemporaneamente, si osserva (cfr., ad esempio, Cass. 21 marzo 2008, n. 7698) che le sentenze di accoglimento di un’eccezione di legittimità costituzionale pronunciate dalla Corte costituzionale hanno effetto retroattivo, con l’unico limite delle situazioni consolidate per essersi il relativo rapporto definitivamente esaurito. In particolare possono legittimamente ritenersi esauriti i soli rapporti rispetto ai quali si sia formato il giudicato, ovvero sia decorso il termine prescrizionale o decadenziale previsto dalla legge, con la conseguenza, pertanto, che è totalmente irrilevante – contrariamente a quanto suppone la difesa del ricorrente – al fine di escludere la irripetibilità di eventuali somme versate dal conduttore in eccedenza rispetto ai non più esistenti massimi tabellari che la sentenza n. 318 della 2002 della Corte costituzionale sia intervenuta dopo la cessazione de iure del rapporto di affitto in esecuzione del quale tali somme sono state versate, qualora non sia intervenuto, anteriormente alla sentenza della Corte costituzionale, un giudicato – che ha accertato il diritto alla ripetizione.

4. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso – in conclusione – deve rigettarsi, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 2.500,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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