Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10-03-2011) 25-03-2011, n. 12195 Cause di non punibilità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

p.1. Con sentenza del 18 dicembre 2008 la Corte d’appello di Potenza confermava quella di primo grado che aveva dichiarato R.L. e R.S. colpevoli di concorso nel reato di resistenza a pubblico ufficiale e, il primo, anche del reato di lesioni personali lievissime, aggravate dal nesso teleologico, per essersi opposti con minaccia e con violenza ai carabinieri che procedevano all’arresto di R.L..

La Corte ricostruiva il fatto nel modo seguente: i carabinieri, ai quali C.A. aveva appena dichiarato di essere stato aggredito da R.L. e di volerlo querelare, si recavano a casa dell’aggressore e lo invitavano ad andare in caserma. Il giovane rifiutava pronunciando ingiurie e minacce di morte così da indurre i militari a trarlo in arresto. Mentre scendevano le scale, sopraggiungeva il padre R.S. e, a questo punto, padre e figlio strattonavano, spintonavano e scalciavano contro i carabinieri per ostacolare l’arresto che veniva portato a compimento con fatica.

Ciò premesso, la Corte osservava che i carabinieri avevano agito legittimamente: l’invito all’imputato di seguirli in caserma era giustificato dal fatto che si era reso colpevole del reato di lesioni personali in danno di C.; l’arresto era altresì legittimo, perchè l’imputato non si limitò a respingere l’invito, ma prese a ingiuriare e minacciare i carabinieri per indurli a desistere, così incorrendo nel reato di cui all’art. 336 c.p., e poi li aggredì procurando loro lesioni personali, così commettendo i reati rubricati.

Contro la sentenza ricorrono gli imputati, che denunciano:

1. la mancata applicazione dell’esimente di cui al D.Lgs.Lgt. n. 288 del 1944, art. 4, assumendo che R.L., essendo già stato identificato, non aveva l’obbligo di recarsi in caserma nè i carabinieri avevano il potere di condurvelo, per cui le ingiurie e minacce inizialmente pronunciate non erano finalizzate a incidere sull’attività dei pubblici ufficiali ma costituivano protesta al sopruso compiuto dai militari che si erano introdotti nella sua abitazione per l’illegittimo accompagnamento in caserma;

2. mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del dolo specifico per entrambi gli imputati;

3. mancata assunzione di prova decisiva, per avere i giudici di merito rifiutato di acquisire la sentenza di proscioglimento per remissione di querela emessa dal giudice di pace nel processo iniziato contro gli odierni ricorrenti su querela di C.. p.2. I motivi di ricorso riproducono le doglianze già sollevate con i motivi d’appello, senza rapportarsi alle ragioni esposte a confutazione nella sentenza impugnata.

La Corte territoriale ha anzitutto sottolineato che i carabinieri operanti non posero in essere alcuna condotta illegittima, perchè non si recarono al domicilio dell’imputato per trarlo in arresto per il reato di lesioni commesso in persona di C. nè entrarono nella sua abitazione illecitamente, dal momento che, dopo avere suonato il campanello ed essersi qualificati,salirono al piano trovando la porta aperta. Entrarono nell’abitazione per rivolgere all’imputato l’invito a seguirli in caserma, dovendo accertare, in adempimento dei doveri d’ufficio, le circostanze dell’aggressione patita da C.. L’imputato reagì pronunciando gravi minacce di morte finalizzate a costringere i carabinieri ad omettere quegli accertamenti che intendevano compiere, minacce che, integrando il delitto previsto dall’art. 336 c.p., comma 1, legittimavano i pubblici ufficiali a procedere all’arresto in flagranza. Pertanto, come ha correttamente motivato la Corte territoriale, non esistono i presupposti per applicare alla fattispecie l’esimente di cui al D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4.

La sentenza impugnata ha altresì dettagliatamente descritto gli atti di violenza posti in essere da entrambi gli imputati per opporsi all’arresto, atti iniziati quando sopraggiunse il padre dell’arrestato e proseguiti durante il breve tragitto percorso per condurlo fino all’autovettura di servizio. In particolare R. S. "dopo avere tentato più volte, afferrando le mani dei militari, di liberare il proprio figlio dalla presa di questi ultimi, iniziava a spingere verso l’alto il ragazzo e l’appuntato, al fine di impedire a quest’ultimo di condurre fuori dallo stabile il proprio figlio". Non solo, ma dopo che i militari riuscirono a caricare a forza R.L. sull’autovettura, il padre "tentava di aprire la portiera per fare scendere il figlio e si posizionava dietro al mezzo per impedirne il transito".

La sentenza impugnata, la cui motivazione si fonde con quella della conforme decisione di primo grado, contiene dunque una esauriente giustificazione delle ragioni per cui, esclusa l’applicabilità dell’esimente invocata, ha ritenuto entrambi gli imputati colpevoli del delitto di resistenza loro addebitato, avendo analiticamente descritto la condotta violenta tenuta da ciascuno, e quindi desunto, dalla tipologia degli atti di violenza realizzati, la coscienza e volontà di opporsi all’atto d’ufficio.

Infondato è anche l’ultimo motivo, perchè la sentenza emessa dal giudice di pace in ordine al reato di lesioni personali in danno di C. era ininfluente per la decisione del presente processo.

I ricorsi devono dunque essere respinti con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *