Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 10-03-2011) 28-03-2011, n. 12419 Relazione tra la sentenza e l’accusa contestata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

M.E. ricorre per cassazione a mezzo del suo difensore contro la sentenza indicata in epigrafe, che in parziale riforma di quella del Tribunale di Cagliari in composizione monocratica, che lo aveva dichiarato colpevole e condannato alla pena di giustizia per il reato di concorso in furto aggravato, così qualificato il fatto, contestato come concorso in peculato, riqualificava il fatto ex artt. 110 e 314, come originariamente contestato, applicava la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena principale e confermava nel resto.

Si imputava al predetto, nella sua qualità di incaricato di pubblico servizio, di essersi in concorso con G.C. appropriato di due panchine in ferro di proprietà del Comune di (OMISSIS), custodite presso il deposito comunale, di cui era stato nominato gestore per conto del comune medesimo, commettendo il fatto sui cose esistenti in stabilimenti e uffici pubblici.

A sostegno della richiesta di annullamento dell’impugnata decisione il difensore articola vari motivi.

Con il primo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione della legge processuale e difetto di motivazione in riferimento alla violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza ex artt. 521 e 522 c.p.p., sostenendo che tra peculato contestato e il ritenuto furto sussisteva eterogeneità di ogni elemento, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità.

Con il secondo e il terzo motivo eccepisce la violazione della legge processuale in riferimento all’art. 597 c.p.p., comma 3 e il vizio di motivazione, censurando l’operato della corte di merito, che nel riqualificare il fatto come peculato – originariamente contestato all’imputato e poi dal primo giudice ritenuto invece come furto aggravato – aveva superato la competenza del Tribunale in composizione monocratica, laddove la competenza per tale reato più grave si apparteneva al Tribunale in composizione collegiale fin dal primo grado di giudizio ai sensi dell’art. 33 bis c.p.p., non solo ma era incorsa nel divieto di reformatio in peius, applicando all’imputato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.

Con il quarto motivo deduce la violazione della legge processuale in riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 3 e il vizio di motivazione, e censura l’esercizio del potere discrezionale dei giudici del merito, che non avevano tenuto conto delle circostanze evidenziate nei motivi dell’appello, che se adeguatamente valutate avrebbero condotto all’esclusione di ogni responsabilità in capo all’imputato. Infine con il quinto motivo lamenta la mancata assunzione di prova decisiva, richiesta nei motivi di appello e inspiegabilmente disattesa, finalizzata a verificare, previa parziale rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, attraverso l’escussione degli ufficiali e agenti di polizia municipale, preposti al servizio di prelievo e di riconsegna dei mezzi asportati, se rispondesse al vero che le panchine asportate erano destinate alla depositeria delle auto, gestito dal coimputato G..

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Con riferimento al principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, la giurisprudenza di questa Corte anche a Sezioni Unite insegna che per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, si da pervenire ad una incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio del diritto di difesa (Sez. Un. 19/6 – 22/10/96 n. 16; Sez. 2 16/10 – 10/12/07 n. 45993 Rv. 239320).

Il che non è nella fattispecie, non essendo individuabile alcuna radicale eterogeneità tra la contestazione di furto aggravato e peculato, se non nella qualità dell’agente, tanto più che al M. era stata contestata nell’originario capo di imputazione proprio l’ipotesi del peculato, in ordine alla quale era già stato posto in grado di difendersi.

Altrettanto infondata è la censura di cui al secondo motivo in riferimento alla violazione dell’art. 33 c.p.p., bis.

Ed invero in tema di inosservanza delle disposizioni sull’attribuzione dei reati alla cognizione del Tribunale, si è ritenuto nella giurisprudenza di questa Corte, qui ampiamente condivisa, che il giudice di appello, che conferisca al fatto una qualificazione giuridica più grave, in relazione alla quale sia prevista, a differenza di quella contestata, la cognizione del giudice collegiale e non monocratico non deve annullare la sentenza deliberata dal giudice di primo grado, dato che la prescrizione in tal senso posta dall’art. 33 octies c.p.p., riguarda il caso di diretta violazione delle regole sul riparto di attribuzione e non il caso in cui il giudice si sia pronunciato su una fattispecie effettivamente rimessa alla sua valutazione (Cass. Sez. 6 6/10/04 – 31/1/05 n. 2969 Rv. 231475; Sez. 2 16/4 – 17/5/10 n. 18607 Rv.

247541).

Le censure di cui al quarto e quinto motivo esorbitano dal catalogo dei casi di ricorso, previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, profilandosi come doglianze non consentite ai sensi del comma 3, cit. art., volte, come esse appaiono, ad introdurre come "thema decidendum" una rivisitazione del "meritum causae", preclusa come tale in sede di legittimità, a fronte di una decisione, nella quale si da conto con puntuale e adeguato apparato argomentativo della decisività e completezza delle prove raccolte, che non necessitavano delle ulteriori integrazioni richieste, e della sussistenza dell’ipotesi criminosa contestata, enunciando analiticamente gli elementi e le circostanze di fatto convergenti e rilevanti a tal fine.

Fondata è invece la censura di cui al terzo motivo.

Non poteva infatti il giudice di appello nel confermare la sentenza di primo grado, pur riqualificando il fatto come peculato e lasciando immutata la pena inflitta, irrogare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, se non incorrendo nel divieto di reformatio in peius, stabilito dall’art. 597 c.p.p., comma 3.

In tali sensi la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, eliminando detta pena accessoria, mentre per il resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena accessoria, che elimina. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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