Cass. civ. Sez. III, Sent., 16-06-2011, n. 13191

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza non definitiva il 23 luglio 2007 la Corte di appello di Potenza, su gravame di C.N., dichiarava la nullità di tutti gli atti del giudizio dal 1 gennaio 1999 nonchè della sentenza di primo grado, in quanto il difensore del C. era stato sospeso dall’esercizio dell’attività professionale da quella data fino al 12 giugno 2002.

Decidendo nel merito il giudice dell’appello accoglieva la domanda di G.I., cui era subentrata come erede universale M.M. e dichiarava risolto per inadempimento del C. il contratto di comodato di un immobile, intercorso tra il G. e il C. del 17 gennaio 1983, allorchè il G., nominato acquirente dal C. consentì a quest’ultimo l’uso gratuito e temporaneo dell’immobile acquistato da un certo A.M. con atto del 13 gennaio 1983 (v. sentenza non definitiva p. 9).

Con separata ordinanza la Corte decise di procedere alla determinazione dei danni richiesti con prosieguo dell’istruttoria.

Con sentenza definitiva del 5 aprile 2008 la Corte di appello, definitivamente pronunciando, accolse la domanda risarcitoria e condannò il C. al pagamento di Euro 19.154,80 a seguito della espletata CTU e sulla base delle testimonianze raccolte.

Avverso siffatte decisioni propone ricorso per cassazione il C., affidandosi nel ricorso contro la sentenza definitiva a quattro motivi e in quello relativo alla sentenza definitiva a due motivi, di cui il primo è identico nel contenuto e nella formulazione al primo motivo contro la sentenza non definitiva.

Resiste con controricorso la M. – G..
Motivi della decisione

1.-Osserva il Collegio che i primi due motivi del ricorso contro la sentenza non definitiva e il primo motivo contro la definitiva (violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 277 e 278 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) vanno esaminati congiuntamente per la loro identità.

In estrema sintesi, il ricorrente lamenta che, poichè la M. non avrebbe mai avanzato istanza ex art. 278 c.p.c., e pur potendo ex art. 277 c.p.c., frazionarsi il processo, a determinati presupposti previsti dal codice di rito, ed in particolare, non avendo la stessa proposta apposita istanza in tal senso, il giudice dell’appello, anche in mancanza di richieste istruttorie, non poteva che rigettare la domanda.

Le censure non meritano accoglimento.

Infatti, nella specie, non si tratta di sentenza – quella non definitiva – che rinviava ad un separato giudizio, ma che disponeva per il prosieguo del giudizio stesso onde accertare la determinazione degli asseriti danni attraverso l’espletamento della consulenza tecnica e delle prove addotte dalle parti.

Ne consegue che il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte contenuto nei motivi non coglie nel segno della statuizione.

In realtà, a ben vedere, il collegio del merito ha limitato la decisione ad alcune domande, riconoscendo per esse che non fosse necessaria una ulteriore istruzione ed ha ritenuto di apprezzabile interesse la loro sollecita definizione per una delle parti, rinviando al prosieguo l’esame delle questioni sulla entità dei danni, che necessitavano di una ulteriore istruttoria.

Pur non essendoci, una apposita richiesta tuttavia, contrariamente all’assunto del ricorrente, la sentenza non è affetta da nullità, in quanto non vi è in tal senso una previsione di legge, non è configurabile alcuna violazione di un principio di ordine pubblico, come può essere quello del contraddittorio, che si è instaurato – ed è pacifico – tra le parti o di altre finalità del processo.

Peraltro, una volta dichiarata la nullità dell’intera fase di primo grado, ivi compresa la relativa sentenza, in virtù dell’art. 356 c.p.c., il giudice dell’appello ha ritenuto di assumere nuovi mezzi di prova e consentire l’espletamento di ulteriori prove onde determinare il più possibile in modo corretto i richiesti danni (v.

Cass. n. 708/87).

Del resto, la M. aveva visto accogliere le domande sia sull’an che sul quantum (anche se in via equitativa) e, quindi, dal momento che quella statuizione venne dichiarata nulla, riprendevano vigore le sue richieste formulate in primo grado, tra cui vi erano anche richieste istruttorie circa la determinazione dei danni.

2. – Ciò detto, per priorità logica, va esaminato il secondo motivo contro la sentenza definitiva (omessa e/o contraddittoria e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso, ai sensi dell” art. 360 c.p.c., n. 5).

La censura si disattende da sola, allorchè si va a leggere il dispositivo della sentenza non definitiva, ove si accoglieva la domanda del G. di risoluzione per inadempimento da parte del C..

Del resto, nell’esaminare la CT di parte, con cui si affermava la insussistenza di alcun danno da addebitare al C. per la mancata restituzione dell’immobile, perchè l’unità immobiliare non sarebbe mai stata nella disponibilità dell’appellante (e di questo tratta anche uno dei profili del secondo motivo di ricorso contro la sentenza definitiva), il giudice dell’appello fa notare che già nella sentenza non definitiva la relazione del CT di parte era stata ritenuta irrilevante, stante la statuizione in quella sede che il C. non aveva restituito l’immobile a lui concesso.

L’altro profilo del secondo motivo, ovvero quello sulla rilevanza della mancata risposta all’interrogatorio formale da parte del C., allorchè si legge la più che congrua ed ampia motivazione in tema di assoluzione dell’onere probatorio da pare del G., che si rinviene nella sentenza non definitiva (v p. 8-11 della stessa), si disattende da solo, producendo il rigetto del secondo motivo di ricorso contro di essa (violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1803 e 1809).

3.-Col terzo motivo contro la sentenza non definitiva (insufficiente ed omessa motivazione in ordine all’esame di un documento decisivo- denuncia querela del 17 gennaio 1983 e sentenza del 23 gennaio 1992 della Corte di appello penale con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5) il ricorrente lamenta che venne assolto, per cui se si fosse esaminato il documento ci si sarebbe accorto che tra le parti non esisteva un contratto di comodato.

Il motivo va disatteso, perchè la Corte di appello ha ritenuto che i documenti prodotti dal C. non dimostravano alcunchè in merito all’esistenza di quel rapporto, trattandosi di denuncia sporta per minacce e, quindi, si sarebbe trattato di tesi non meglio qualificata a fronte della tesi dell’attore.

E, di vero, sembra che effettivamente si tratti di documentazione che nulla ha a che vedere con la quaestio disputanda di cui all’attuale giudizio.

4.-Con il quarto motivo sempre contro la sentenza non definitiva (violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1803 e 1809 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per erronea risoluzione del contratto di comodato, con richiamo a Cass. n. 2887/82) il ricorrente lamenta che non è prevista la risoluzione in caso di inadempimento, trattandosi di un contratto a prestazioni non corrispettive. In punto di fatto, si sostiene che al C. fu chiesto con lettera raccomandata la restituzione dell’immobile ed egli si rifiutò anche a fronte degli impegni assunti. Questa doglianza non sembra essere stata proposta in precedenza, come deduce la resistente, ma comunque è infondata.

Infatti, una volta provata la esistenza di un comodato gratuito da parte del G., con il quale il C. si era impegnato ad occupare l’immobile per breve termine per la custodia di autovetture destinate alla vendita e di avere più volte sollecitato il C. a restituire il locale, stante il rifiuto dello stesso, come da lettera raccomandata in atti e datata l’8 ottobre 1994, ovvero circa undici anni dopo la concessione in comodato, ne consegue che il comodante era legittimato alla azione di restituzione del bene per inadempimento del comodatario a norma dell’art. 1810 c.c. (Cass. n. 2719/95).

In altri termini, avendo provato l’inadempimento e potendo rivendicare ad nutum per mancanza di termine il rilascio, il comodante non poteva non agire per ottenere la declaratoria di risoluzione del contrato, così come ha fatto il G. con l’atto di citazione e su questa domanda si è svolto tutto il giudizio in pieno contraddittorio senza che la censura – ripetesi – sembra essere stata proposta in precedenza.

Del resto, l’azione di restituzione è strettamente collegata a quella del reclamo e/o della restituzione dell’immobile. Il che equivale all’esercizio della facoltà di recesso da parte del comodante e, quindi, corretta la risoluzione dichiarata dal giudice del merito (Cass. n. 4718/89).

Conclusivamente, il ricorso va respinto e le spese che seguono la soccombenza vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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