Cass. civ. Sez. II, Sent., 17-06-2011, n. 13393 Possesso di beni ereditari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato L.G. ed L.A. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Vogherà il fratello La.An. chiedendo lo scioglimento della comunione avente ad oggetto l’immobile relitto dall’eredità paterna sito in (OMISSIS), costituito da una villetta bifamiliare consistente in due appartamenti ai piano superiore e in una autorimessa, una cantina e locali accessori al piano inferiore;

gli attori chiedevano altresì la condanna del convenuto al pagamento in loro favore "pro quota" di una indennità proporzionata al valore locativo della porzione di abitazione da lui occupata ed utilizzata in via esclusiva, a far tempo dell’apertura della successione.

Si costituiva in giudizio La.An. assumendo che nel 1964 la casa in cui la famiglia abitava era stata venduta, e che con una parte del ricavato era stato acquistato dai genitori delle parti il terreno di (OMISSIS); secondo gli accordi raggiunti con questi ultimi l’esponente, muratore, aveva edificato una casa di abitazione al rustico con i materiali pagati dai genitori e dall’altro figlio con loro ancora convivente, quindi con rapporto del padre e dei due figli An. e G. e con il lavoro di An. era stato costruito il tetto ed era stato finito l’appartamento in uso al padre, che vi si era trasferito con la madre ed i figli G. ed A.; infine l’istante a sue esclusive cure e spese aveva completato l’altro appartamento ed il piano terra andandovi ad abitare nel 1966, e da allora aveva provveduto a sue esclusive spese alla manutenzione dell’intero edificio, dal quale gli altri figli si erano allontanati disinteressandosene.

La.An. sosteneva quindi in via principale di aver usucapito l’appartamento da lui occupato ed i locali accessori a piano terra, con la conseguenza che l’oggetto della divisione era costituito soltanto dall’altro appartamento occupato dal padre fino a quando era rimasto in vita; in via subordinata assumeva che, come possessore di buona fede, aveva diritto al controvalore in valuta attuale dei lavori eseguiti per l’edificazione della casa.

Con sentenza non definitiva del 2-1-2002 il Tribunale adito respingeva l’eccezione di usucapione proposta da La.An., dichiarava quest’ultimo tenuto a pagare a ciascun attore la somma di Euro 2.626,70 a titolo di quota del reddito locativo della porzione di immobile del compendio ereditario goduto in via esclusiva, e con separata ordinanza rimetteva la causa in istruttoria per la formazione del progetto di riparto previa determinazione dell’ammontare del credito di La.An. verso la massa ereditaria per le addizioni apportate sull’immobile in questione.

Proposto gravame da parte di La.An. cui resistevano L.A. e L.G. che formulavano anche appello incidentale la Corte di Appello di Milano con sentenza 19/3/2005, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha determinato in Euro 96.060,98 l’indennità dovuta ad La.

A. per miglioramenti ed addizioni da lui effettuati nell’immobile per cui è causa, ha posto tale credito a carico dell’attivo dell’asse ereditario del defunto L.F. ed ha rigettato l’appello incidentale.

Per la cassazione di tale sentenza L.G. ed L.A. hanno proposto un ricorso affidato a due motivi cui La.An. ha resistito con controricorso proponendo altresì un ricorso incidentale articolato in sette motivi cui i ricorrenti principali hanno a loro volta resistito con controricorso;

il ricorrente incidentale ha successivamente depositato una memoria.
Motivi della decisione

Preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.

E’ poi opportuno per ragioni di connessione esaminare unitamente il ricorso incidentale (adeccezione del quinto motivo) ed il primo motivo del ricorso principale.

Ciò premesso, si osserva che con il primo motivo La.

A., deducendo violazione dell’art. 1140 c.c., comma 1, art. 1141 c.c., comma 1, art. 1158 c.c., art. 2728 c.c., comma 1 e art. 2697 c.c., nonchè omessa motivazione, censura la sentenza impugnata per aver respinto l’eccezione di usucapione formulata dall’esponente ritenendo che, mentre risultava pacifica la detenzione dell’appartamento di destra dell’edificio e del piano sottostante da parte dell’appellante, non risultava provato con certezza che tale detenzione fosse caratterizzata dall’"animo domini"; il ricorrente incidentale assume che, avendo il giudice di appello accertato il potere di fatto dell’esponente su tali porzioni immobiliari, avrebbe dovuto logicamente ritenerne anche ti possesso in base alla presunzione legale di cui all’art. 1141 c.c., comma 1, essendo posto a carico della controparte provare che La.An. possedeva o deteneva "animo alieno", senza quindi il requisito dell’"animus possidendi".

Con il secondo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 180, 183, 184 e 345 c.p.c., artt. 1444 e 1158 c.c. nonchè omessa e/o contraddittoria motivazione, premesso che la Corte territoriale ha ritenuto non contestato che le utenze delle unità immobiliari oggetto dell’eccezione di usucapione suddetta fossero intestate ai genitori delle parti, sostiene che, una volta introdotta tale eccezione, le controparti non avevano allegato nè eccepito alcunchè nel corso del giudizio fino all’udienza delle precisazione delle conclusioni, deducendo soltanto nella comparsa conclusionale del 16-11-2001 che almeno fino al 1992, data della morte della madre delle parti M.I., l’intero fabbricato era nel possesso dei genitori, ai quali erano intestate tutte le utenze dei servizi; orbene l’esponente sia nella memoria di replica sia nella comparsa conclusionale del giudizio di appello aveva eccepito la tardività e comunque l’infondatezza di tali deduzioni – contenute anche nella comparsa di costituzione in appello dell’11-7-2002 – senza che il giudice di appello si pronunciasse in proposito.

La.An. assume inoltre che, contrariamente al convincimento della Corte territoriale, egli aveva contestato l’intestazione delle utenze ai genitori, e che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che ricorre una semplice detenzione prolungata di un immobile da parte di un soggetto allorchè la sua utilizzazione del bene sia dovuta alla tolleranza dei proprietari giustificata dallo stretto vincolo di parentela sussistente tra le parti, laddove invece la prolungata ed indisturbata relazione di fatto con la cosa prova il possesso e non la detenzione.

Con il terzo motivo il ricorrente incidentale, deducendo violazione dell’art. 1158 c.c. e contraddittoria motivazione, rileva che, mentre a pagina 16 della sentenza impugnata si legge che le utenze dell’appartamento di destra e dell’intero piano sottostante erano intestate ai genitori delle parti e che vi era stata tolleranza prolungata quanto all’utilizzazione di tale proprietà da parte di La.An., alle pagine 17 e 18 si fa riferimento all’"entità economica impiegata nella costruzione dell’intero immobile" da parte dell’esponente, dando luogo così ad una contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (posto che, non esistendo ancora una unità immobiliare, le utenze non potevano essere intestate ai genitori delle parti), ed evidenzia di aver ricevuto un terreno su cui ha costruito, con denaro e lavoro proprio, uno stabile costituito da due appartamenti e da un piano sottostante.

Con il quarto motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione dell’ari. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, rileva che nell’atto di appello (pag. 13 motivo 1/C) egli aveva dedotto che, a fronte dell’eccezione di usucapione da lui sollevata in primo grado, nonostante che le controparti nulla avessero allegato al riguardo, il Tribunale aveva pronunciato d’ufficio su di un fatto (ovvero la dichiarazione della successione del 1997) in base al quale aveva rigettato l’eccezione di usucapione; pertanto l’appellante aveva dedotto la violazione degli artt. 112, 180 e 183 c.p.c. e art. 2697 c.c., ma la Corte territoriale non sì è pronunciata su tale questione.

Con 11 sesto motivo il ricorrente incidentale, deducendo violazione degli artt. 936, 1147, 1150, 1152 e 2697 c.c., afferma che, pur essendo corretta la statuizione della Corte territoriale in ordine al riconoscimento in proprio favore a titolo di indennità per miglioramenti di una somma pari al 60% del valore del fabbricato, anche qualora si ritenesse che la dichiarazione di successione del 1997 (vedi quarto motivo del ricorso incidentale) configuri una rinuncia alla usucapione, tale circostanza non avrebbe comunque rilevanza ai fini dell’esistenza del possesso esercitato da La.An. durante la costruzione dell’edificio, realizzata negli anni 1964-1965 e 1966, e durante la manutenzione, da lui curata in epoca anteriore al 1997, anno della morte del padre.

Con il settimo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione dell’art. 936 c.c., art. 1140 c.c., comma 1, art. 1141 c.c., comma 1, artt. 1144 e 1147 c.c. e art. 1150 c.c., comma 5, nonchè vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver sostenuto che l’esponente era detentore "nomine alieno" anche dell’appartamento di sinistra con conseguente applicazione dell’art. 1150 c.c.; La.An. sostiene che, avendo posseduto tale bene negli anni 1964-1965 e 1966 durante la sua costruzione prima di lasciarlo al padre L.F., anche per esso, così come per l’appartamento di destra, doveva trovare applicazione l’art. 1150 c.c. Con il primo motivo del ricorso principale L.G. ed L.A., deducendo violazione dell’art. 936 c.c., comma 2, censurano la sentenza impugnata per aver affermato il diritto di La.An. a percepire il valore dei materiali ed il prezzo della mano d’opera in moneta attuale secondo la norma ora citata;

essi assumono che detto articolo riguarda il terzo che ha eseguito opere con materiali propri sul suolo altrui e non colui cha ha la detenzione dell’immobile su quale i lavori sono stati effettuati, nè comunque chi non è vincolato al proprietario dell’immobile da alcun rapporto negoziale in forza del quale sia stata concessa la facoltà di costruire; nella fattispecie la controparte, per gli stretti vincoli di parentela, aveva usufruito del bene caduto in successione per mera tolleranza dei genitori, legittimi proprietari dell’immobile, secondo un rapporto assimilabile al comodato gratuito, che non da diritto al comodatario, nè possessore nè terzo, al rimborso delle spese straordinarie, anche se esse comportino miglioramenti.

Le enunciate censure sono infondate.

La sentenza impugnata ha rilevato che, pur essendo pacifico che La.An. avesse avuto la detenzione degli immobili per cui è causa, non risultava provato in modo certo ed inequivocabile che la materiale detenzione presentasse il carattere dell’"animus domini", che tale "animus" fosse stato esteriorizzato e comunque reso noto ai proprietari, e che costoro fossero rimasti inerti senza contrastare il comportamento di La.An. volto all’acquisizione dei beni per usucapione; ritenuto poi che la documentazione prodotta, riguardante domande di licenze edilizie e la licenza di abitabilità, aveva un valore soltanto a fini amministrativi e non era significativa di un possesso "ad usucapionem", che le prove orali erano inconferenti, non essendo da esse deducibile la volontà dell’attuale ricorrente incidentale di assoggettare gli immobili al proprio potere, il giudice di appello ha evidenziato come elemento incontestato che le utenze erano intestate ai genitori delle parti in causa, i quali annualmente inserivano nella dichiarazione dei redditi l’intero fabbricato, cosicchè era certo l’esercizio da parte loro del diritto dominicale ed anche la tolleranza prolungata dell’utilizzazione del bene da parte del figlio An. giustificata dallo stretto vincolo di parentela;

conseguentemente anche i lavori di manutenzione dell’immobile, durante la prolungata detenzione da parte di La.An., non potevano valere ai fini dell’"interversio possessionis", essendo mancata la prova che i lavori fossero identificabili come fatti di opposizione del detentore contro i titolari del diritto dominicale e ad esclusiva iniziativa del detentore.

Avendo quindi la Corte territoriale indicato puntualmente le fonti del proprio convincimento, si è in presenza di un accertamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazione, dal quale sono state tratte corrette conclusioni in linea di diritto, come tali immuni dalle censure sollevate dai ricorrente incidentale, che sostanzialmente si risolvono nel prospettare inammissibilmente in questa sede una diversa valutazione di alcuni fatti di causa ad esso più favorevole, trascurando i poteri ai riguardo devoluti ai giudice di merito.

E’ comunque rilevante osservare che non è contestato in fatto che i lavori di edificazione realizzati da La.An. sul terreno acquistato dai suoi genitori furono iniziati con il consenso di costoro ed anzi di pieno accordo con essi, posto che, secondo la stessa prospettazione dell’attuale ricorrente incidentale, la casa fu edificata al rustico con i materiali pagati dai genitori e dall’altro figlio, e che con l’apporto del padre e dei due figli e con il lavoro di La.An. era stato costruito il tetto e finito l’appartamento destinato poi all’abitazione dei genitori e dei figli G. ed A.; è quindi evidente che il rapporto di fatto instaurato con l’immobile di proprietà dei suoi genitori da parte dell’attuale ricorrente incidentale è riconducibile alla detenzione, nella sua piena consapevolezza del diritto dei proprietari su di esso; ciò comporta la non operatività della presunzione di possesso di cui all’art. 1141 c.c., invero non invocabile da parte di chi si trovi con la cosa in una relazione materiale che si svolge in nome del possessore e per sua volontà (Cass. 19-8-2002 n. 12232), allorchè quindi il rapporto con la cosa consegue non ad un atto volontario di apprensione, ma ad un atto o ad un fatto del proprietario – possessore, poichè l’attività del soggetto che dispone della cosa (configurabile come semplice detenzione o precario) non corrisponde all’esercizio di un diritto reale, non essendo svolta in opposizione al proprietario (Cass. 15-3-2005 n. 5551).

Nè può giungersi a diverse conclusioni, come pure dedotto dal ricorrente incidentale, per la circostanza che la prolungata relazione di fatto avuta con la cosa proverebbe il possesso e non la detenzione, atteso che, al fine di stabilire se la relazione di fatto con il bene costituisca una situazione di possesso ovvero di semplice detenzione dovuta a mera tolleranza di chi potrebbe opporvisi, come tale inidonea, ai sensi dell’art. 1144 c.c., a fondare la domanda di usucapione, la circostanza che l’attività svolta sul bene abbia avuto durata non transitoria e sia stata di non modesta entità, cui normalmente può attribuirsi il valore di elemento presuntivo per escludere che vi sia stata tolleranza, è destinata a perdere efficacia nel caso in cui i rapporti siano caratterizzati da vincoli particolari, quali quelli di parentela, in forza di un apprezzamento di fatto demandato al giudice di merito (Cass. 27-4-2006 n. 9661;

Cass. 20-2-2008 n. 4327), come appunto nella fattispecie.

Da tali rilievi consegue che correttamente la sentenza impugnata ha affermato che era onere di La.An., ai fini dell’accoglimento della domanda di accertamento dell’acquisto per usucapione della proprietà dell’appartamento da lui occupato e dei locali al piano terra, di allegare e provare atti idonei ad integrare una interversione del possesso, a dimostrazione dell’avvenuto mutamento dell’originario "animus detinendi" in "animus possidendi", ed ha evidenziato l’irrilevanza al riguardo dei lavori di manutenzione dell’immobile; sotto tale profilo è opportuno osservare che il ricorrente incidentale non ha dedotto di aver posto in essere alcuna manifestazione esteriore dalla quale desumere di aver cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e di aver iniziato ad esercitarlo in nome proprio, manifestazione che deve essere rivolta specificatamente contro il possessore, in maniera tale che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e quindi deve tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua (Cass. 29-1-2009 n. 2392).

Per le considerazioni finora espresse nessuna rilevanza può attribuirsi ad alcuni profili di censura in fatto sollevati dal ricorrente incidentale, inidonei ad infirmare la "ratio decidendi" delle sentenza impugnata; in particolare in tal senso è appena il caso di osservare che l’affermazione del giudice di appello in ordine alla intestazione delle utenze ai genitori delle parti in causa si risolve in un elemento offerto "ad abundantiam" a sostegno del proprio convincimento, che non incide invero sugli oneri probatori posti a carico di La.An. nei termini sopra enunciati e non assolti; analoga considerazione vale per l’inserimento del fabbricato per cui è causa nelle dichiarazioni annuali dei redditi, incombente comunque, secondo la Corte territoriale, sempre posto in essere dai proprietari dell’immobile.

In definitiva pertanto correttamente il giudice di appello ha ricondotto la relazione intercorsa tra La.An. e l’appartamento da lui occupato nonchè i locali a piano terra ad una mera detenzione e non ad un possesso.

Da quanto finora esposto discende altresì l’infondatezza del settimo motivo del ricorso incidentale, posto che La.An. aveva un rapporto di detenzione anche con l’appartamento poi abitato da suo padre, con la conseguenza che il diritto a lui spettante per l’apporto economico impiegato nella costruzione anche di tale immobile non può essere regolato dall’art. 1150 c.c., che invero può essere invocato soltanto dal possessore, come correttamente affermato dalla Corte territoriale.

Per altro verso deve pure essere disatteso il primo motivo del ricorso principale con il quale L.A. e L. G., come esposto, censurano il riconoscimento del diritto di La.An. a percepire un importo corrispondente al valore dei materiali ed al prezzo della mano d’opera all’attualità ex art. 936 c.c.; infatti l’applicazione di tale norma discende dal fatto che la sentenza impugnata ha escluso che La.An. avesse costruito sul fondo di proprietà dei suoi genitori sulla base di un preesistente rapporto giuridico con essi, e che quindi egli era stato l’autore delle opere realizzate su suolo altrui quale terzo; il diverso assunto sostenuto dai ricorrenti principali è infondato, perchè lo stretto rapporto di parentela che intercorreva tra La.An. ed i suoi genitori è irrilevante ai fini della configurabilità di un titolo contrattuale che giustificasse le opere eseguite; quanto poi al riferimento ad un contratto di comodato gratuito, deve osservarsi che la detenzione di un bene per mera tolleranza del proprietario non costituisce requisito di per sè sufficiente al riguardo, non senza evidenziare comunque la non configurabilità di un comodato avente ad oggetto dei fabbricati in realtà non ancora eretti all’epoca di instaurazione di tale ipotetico contratto.

Con il quinto motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione dell’art. 1152 c.c., censura la sentenza impugnata per aver accertato un credito delle controparti nel confronti dell’istante trascurando di considerare che La.An., quale possessore di buona fede, ha il diritto di ritenzione dell’appartamento di destra e dell’intero piano sottostante fino a quando non gli sarà il corrisposta da L.G. e da L.A. l’indennità dovuta per addizioni e miglioramenti apportati al fabbricato.

La censura è infondata.

Infatti il giudice di appello ha correttamente affermato che, essendo stato escluso che La.An. fosse possessore dei beni suddetti, essendo stato ritenuto invece un mero detentore degli stessi, era preclusa l’applicazione dell’art. 1152 c.c., che riconosce il diritto di ritenzione sulla cosa al possessore di buona fede fino alla corresponsione delle indennità dovutegli.

Con il secondo motivo i ricorrenti principali, denunciando vizio di motivazione, sostengono che comunque erroneamente il giudice di appello ha riconosciuto ad La.An. una indennità per miglioramenti apportati all’immobile oggetto di comunione ereditaria nella misura di Euro 96.060,98, posto che il criterio in proposito adottato dal CTU, cui ha fatto riferimento la Corte territoriale, era stato definito dallo stesso ausiliare del giudice approssimativo, e quindi inutilizzabile; in particolare Se determinazione dell’indennità nella misura del 60% del valore della costruzione era frutto delle deduzioni dello stesso La.An. nella comparsa di costituzione e risposta depositata nel primo grado di giudizio, e non delle dichiarazioni dei testi escussi.

La censura è infondata.

La Corte territoriale ai fini della determinazione della somma dovuta ad La.An. ai sensi dell’art. 936 c.c., con riferimento al valore dei materiali ed al prezzo della mano d’opera relativi alla costruzione dell’intero fabbricato per cui è causa, ha ritenuto di condividere integralmente il criterio enunciato dal CTU per l’accuratezza e la serietà dell’indagine svolta, aggiungendo che tale criterio aveva trovato ampio riscontro, quanto all’apporto personale ed economico dell’attuale ricorrente incidentale, nelle deposizioni testimoniali assunte nel primo grado di giudizio, dalle quali era risultato concordemente che La.An. aveva fatto fronte all’acquisto dei materiali ed alle altre spese di costruzione con denaro proprio e con il ricorso al credito dell’amico Pisani, aveva materialmente lavorato con i muratori della ditta Geloni per realizzare il rustico provvedendo al pagamento degli stessi, ed aveva poi completato da solo la costruzione in quanto muratore specializzato; pertanto il giudice di appello, determinata nel 60% la percentuale del valore della costruzione attribuibile all’attività in concreto effettuata dall’appellante principale sulla base di tali risultanze istruttorie, ha quantificato in L. 186.000.000 il credito spettante a quest’ultimo per il titolo suindicato in relazione al valore complessivo dell’intero fabbricato indicato da CTU in L. 310.000.000; si è quindi in presenza di un accertamento di fatto sorretto da congrua ed adeguata motivazione, come tale incensurabile in questa sede, dove in effetti i ricorrenti principali con la censura in esame tendono inammissibilmente a prospettare una diversa valutazione degli elementi probatori acquisiti, trascurando i poteri in proposito attribuiti al giudice di merito.

In definitiva entrambi i ricorsi devono essere rigettati; ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla reciproca soccombenza, per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi e compensa interamente tra le parti le spese di giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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