Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
motivo del ricorso principale, senza rinvio, rigetto del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato l’il ottobre 1995 G. P. e P.R., comproprietari in (OMISSIS) – di immobili confinanti con gli immobili di proprietà di S.G., convenivano quest’ultimo davanti al Tribunale di Alba, lamentandosi di una serie di abusi dallo stesso commessi.
S.G. si costituiva ed oltre a contestare il fondamento delle doglianze degli attori, in via riconvenzionale, a sua volta si doleva di una serie di abusi commessi dagli attori.
Con sentenza in data 14 gennaio 2002 il Tribunale di Alba accoglieva parzialmente sia le domande principali che quelle riconvenzionali.
Contro tale decisione S.G. proponeva appello limitatamente alla sua condanna alla eliminazione di una tettoia in latero cemento e legno, già destinata a capannone agricolo.
P.R., anche quale erede di P.G., proponeva appello incidentale.
Con sentenza in data 2 dicembre 2004 la Corte di Appello di Torino accoglieva l’appello principale, ritenendo che fondatamente S. G. si doleva dell’ordine di demolizione del capannone, in quanto dalla consulenza tecnica non risultava provato che l’area sulla quale parzialmente insisteva tale opera fosse comune, ma che la stessa era soltanto sottoposta a servitù di passaggio.
Il fatto che con la realizzazione di tale opera fosse stato deviato il tracciato della servitù non aveva causato disagi rilevanti a P.R..
Per quanto riguardava l’appello incidentale, la Corte di appello riteneva che infondatamente P.R. si lamentava del mancato accoglimento della domanda di rimozione di tubazioni nel cortile di proprietà di S.G., in quanto a distanza non legale, rilevando che la domanda in questione riguardava unicamente nuove tubazioni, connesse a lavori di ampliamento del proprio fabbricato da parte di S.G., la cui esistenza non risultava accertata.
Infondatamente, ancora, P.R. si doleva del mancato accoglimento della domanda di demolizione di una concimaia realizzata da S.G. senza rispettare la distanza dai confini prevista dalla licenza edilizia.
La violazione in questione, infatti, avrebbe potuto comportare solo il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 872 cod. civ. e tali danni non erano stati provati; ad ogni modo non era contestato che l’edificio in questione da molto tempo non era più destinato a concimaia ed in relazione all’epoca di costruzione era in regola con le distanze legali.
La veduta che si esercitava dalla terrazza di tale costruzione era a distanza legale, tenendo conto del confine quale esistente in loco e sempre pacificamente accettato dalle parti, il che escludeva il ricorso alle mappe catastali.
Ugualmente infondata era la doglianza relativa all’accoglimento della domanda di rimozione del pluviale posizionato da P.R. sul retro del proprio fabbricato, in quanto a distanza non legale, essendo stata l’eccezione di usucapione tardivamente proposta.
Era, infine, infondato il motivo di appello con il quale R. P. si doleva della condanna alla rimozione di un muro sul presupposto che lo stesso fosse stato realizzato invadendo per 60 cm. la confinante proprietà di S.G., in quanto, essendovi contestazione sul fatto che la delimitazione esistente in loco rappresentasse in realtà il confine pacificamente accettato da sempre dalle parti, correttamente il tribunale aveva fatto ricorso alle mappe catastali.
La Corte di appello accoglieva soltanto il motivo di impugnazione con il quale P.R. si doleva della mancata condanna di S.G. alla rimozione di un cancello pedonale e carraio posto a confine tra le due proprietà, testualmente motivando ad evitare che siano poste in essere opere tali da poter rappresentare in futuro una situazione di apparenza necessaria per fondare 1facquisto a titolo originario del diritto di servitù di passaggio.
Dette domande rientrano pertanto nello schema di cui all’art. 949 c.c., commi 1 e 2.
Contro tale decisione S.G. ha ricorso per cassazione, con due motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso P.R., che ha anche proposto un articolato ricorso incidentale.
Motivi della decisione
Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi.
Con il primo motivo del ricorso principale S.G. deduce che la Corte di appello di Torino ha accolto la domanda di cui al punto i) dell’appello incidentale (eliminare ogni transito sulla proprietà dei conchiudenti) che era stata proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di secondo grado.
Il motivo è infondato.
Occorre, in proposito, ricordare che la sentenza impugnata ha così motivato:
Le domande articolate dall’appellante incidentale sub g), h) ed i) riproposte in questa sede con il motivo di appello incidentale in esame, mirano ad escludere il riconoscimento di diritti reali in capo alla controparte, che dal canto suo non ha offerto alcuna prova – orale o documentale – dell’effettiva esistenza a favore della sua proprietà di una servitù di transito pedonale e carraio … ed ad evitare che siano poste in essere opere tali da poter rappresentare, in futuro, una situazione di apparenza necessaria per fondare l’acquisto a titolo originario del diritto di servitù di passaggio.
Dette domande rientrano pertanto nello schema di cui all’art. 949 c.c., commi 1 e 2.
Non avendo provato il S. l’esistenza – per acquisto a titolo originario o derivato – del suo diritto di servitù pedonale e carraia sulla proprietà P., e la preesistenza di un cancello o di altro tipo di accesso ove ora vi sono la recinzione e il cancello pedonale e carraio, deve essere accolto il motivo di appello in esame, con ordine al S. di rimuovere il cancello pedonale e carraio di cui si discute, che potrà essere sostituito con una delimitazione fissa.
E’ evidente, quindi, che i giudici di secondo grado, pur non avendo rilevato la novità della doglianza specifica di cui alla lettera i) dell’appello incidentale, non hanno emesso una statuizione che costituisca accoglimento della stessa (che, come detto, era del seguente tenore: eliminare ogni transito sulla proprietà dei conchiudenti).
Con il secondo motivo il ricorrente in via principale sostiene che erroneamente i giudici di merito hanno ritenuto che con le domande di cui ai punti g) (eliminare e/o ridurre a norma il muro di cinta con cancello pedonale e carraio costruito dal convenuto con affaccio sulla proprietà dei conchiudenti ripristinando il sito nello statu quo ante e/o quant’altro) ed h) (eliminare ogni illecito in danno della proprietà dei conchiudenti anche sotto il profilo dell’aggravamento di servitù emergente dagli atti e dagli accertamenti dell’eligendo C.T.U.) di cui all’appello incidentale era stata proposta una negatoria.
La prima domanda riguarderebbe l’aspetto statico del muro di cinta ed un eventuale sconfinamento (escluso dal C.T.U.).
La seconda, da un lato, non può essere considerata come negatoria, in mancanza della individuazione della servitù a cui tutela sarebbe stata esperita e dall’altro, per la sua formulazione, comportava il riconoscimento della esistenza di una servitù.
Le domande in questione, pertanto, non integrano nè singolarmente nè congiuntamente una domanda di negatoria di servitù ai sensi dell’art. 949, commi 1 e 2.
Le doglianze sono sostanzialmente fondate.
Premesso che nessuna statuizione ha, in concreto, emesso la sentenza impugnata con riferimento al muro, per cui il ricorrente in via principale non ha motivo di dolersi delle affermazioni in essa contenute che a tale opera si riferiscono, va rilevato che secondo la costante giurisprudenza di questa S.C. la negatoria ha come essenziale, indispensabile, presupposto la sussistenza di altrui pretese di diritto sul bene dell’attore e non può essere utilizzata allorchè, anche in presenza di turbative e molestie, esse non si sostanzino in una pretesa di diritto sulla cosa (sent. 15 dicembre 1975 n. 4124; 21 luglio 1973 n. 2140; 19 gennaio 1973 n. 191).
Nella specie non risulta che, realizzando il cancello di cui è stata disposta la rimozione, l’attuale ricorrente in via principale abbia mai inteso esercitare una servitù di passaggio sul fondo del P..
Nè si potrebbe invocare in senso contrario la sentenza di questa S.C. 11 ottobre 1986 n. 5949, la quale ha affermato che l’actio negatoria deve ritenersi esperibile anche per rimuovere un situazione che comporti il pericolo, con il decorso del tempo, di un asservimento del fondo dell’attore.
La semplice esistenza del cancello senza l’utilizzazione dello stesso, infatti, nella specie non comporta alcun pericolo per il fondo del P., dovendosi considerare erronea la affermazione della sentenza impugnata, secondo la quale occorre evitare che tale opera possa rappresentare, in futuro una situazione di apparenza necessaria per fondare l’acquisto a titolo originario del diritto di servitù di passaggio.
Un’opera astrattamente idonea a consentire il passaggio da un fondo ad un altro non può essere posta a fondamento di una servitù di passaggio per usucapione se tale passaggio non viene concretamente esercitato.
Con il ricorso incidentale P.R. ribadisce, innanzitutto, la sua tesi secondo la quale il S., costruendo il capannone, aveva occupato parte di una strada comune ex collazione privatorum agrorum e non semplicemente spostato il luogo di esercizio di una servitù di passaggio.
Il motivo è infondato.
E’ vero che secondo la giurisprudenza di questa S.C. l’esistenza di una strada costituita ex collatione privatorum agrorum può essere dimostrata con ogni mezzo (cfr., in tal senso, da ultimo, sent. 9 agosto 1998 n. 9896), ma non è meno vero che il ricorrente incidentale non indica quali sarebbero gli elementi, trascurati dai giudici di merito, che supporterebbero la sua tesi.
Deduce ancora P.R. che comunque la Corte di appello ha errato nel ritenere legittimo lo spostamento da parte del S. del luogo di esercizio della servitù di passaggio. La doglianza è fondata, non avendo il proprietario del fondo servente rispettato il disposto dell’art. 1068 c.c..
P.R. sostiene, poi, che hanno errato i giudici di merito nell’affermare si era doluto solo della realizzazione di "nuove" tubature a distanza legale.
La doglianza è fondata.
P.R., infatti, si era sempre lamentato della esistenza di tubazioni, senza precisazioni, nel cortile del confinante, per cui erroneamente i giudici di merito, sulla scia del C.T.U., hanno limitato il loro esame alle "nuove" tubature.
Deduce, poi, il ricorrente incidentale che, per quanto riguarda la concimaia non esistono nè denuncia delle opere in cemento armato, nè comunicazione della data di inizio e di fine dei lavori, nè la richiesta del certificato di agibilità, nè, ovviamente il certificato stesso. Non vi è quindi nulla che, tra l’altro, attesti la stabilità e sicurezza dell’immobile de quo e la sua non pericolosità, nè quando ne sia stata iniziata o terminata la costruzione.
E’ comunque acclarato che nel realizzare l’opera in questione controparte si è reso lecito di violare ogni prescrizione impostagli dalla licenza edilizia di cui sopra e dagli elaborati progettuali che ne fanno parte integrante ed essenziale e già ciò soltanto legittima le domande e conclusioni del conchiudente.
L’edificio in questione, infatti, essendo stato realizzato in totale difformità rispetto alla concessione edilizia, sia trova nella stessa situazione giuridica dell’immobile realizzato senza concessione edilizia.
Le doglianza sono infondate, in quanto a prescindere dalla novità di alcune di esse, le irregolarità denunciate avrebbero potuto comportare un risarcimento dei danni ma costituiscono violazione delle norme in tema di distanze.
Sotto questo profilo P.R. deduce che comunque dalla terrazza di tale concimaia si realizzava una veduta a distanza non legale, tenendo conto che i confini andavano determinati, non in base alle mappe catastali, come fatto dai giudici di merito, le quali hanno valore sussidiario.
Anche tale doglianza è infondata.
La semplice esistenza di una recinzione, infatti, non rende incontestabile il confine tra due fondi, ove non si dimostri che tale recinzione è stata apposta in conformità ai titoli o in base ad un accordo tra le parti.
La affermazione secondo la quale il confine in questione sarebbe stato chiaramente ed inequivocamente riconosciuto per fatti concludenti da tutte le parti è apodittica.
Sempre in tema di distanze P.R. deduce che poichè la terrazza costituisce veduta equiparabile a finestra doveva mantenersi a 10 mt. dal confine, come previsto per le pareti finestrate di edifici antistanti previsto del D.M. 2 aprile 1968, n. 144, art. 9.
A prescindere dalla sua novità, la doglianza è infondala, essendo sufficiente, a tale fine, osservare che una veduta esercitabile da una terrazza non è una finestra.
P.R. deduce, ancora, che l’eccezione di usucapione relativa al pluviale relativa al pluviale doveva ritenersi ricompresa nelle sue difese precedenti alla espressa proposizione della stessa.
La doglianza è inammissibile per la sua genericità.
P.R. si duole, ancora, della mancata ammissione delle prove, ma nulla dice per contrastare quanto affermato dai giudici di merito in ordine alla inammissibilità delle istanze istruttorie ex art. 345 c.p.c..
In definitiva, i ricorsi vanno accolti nei limiti sopra esposti, con cassazione in tali limiti della sentenza impugnata e rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li accoglie nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Torino, anche per le spese del giudizio di cassazione.
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