Cass. civ. Sez. II, Sent., 24-06-2011, n. 13988 Difformità e vizi dell’opera

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto del 1989, S.C., in ragione del fatto che nel 1987 G.B. aveva provveduto a porre in opera in un suo appartamento delle piastrelle acquistate presso la Globo spa e che le stesse, dopo poco tempo avevano manifestato numerose lesioni, aveva convenuto di fronte al tribunale di Chieti i due soggetti suindicati onde ottenere la sostituzione della pavimentazione ed il risarcimento dei danni. Con sentenza del 2001, sulla resistenza dei convenuti, l’adito Tribunale condannò il G. a pagare all’attore L. 7.500.000 oltre interessi, atteso che le lesioni riscontrate erano riferibili alla cattiva messa in opera delle stesse; respinse la domanda nei confronto della ditta tornitrice.

Avverso tale decisione ha proposto appello il soccombente cui ha resistito controparte; con sentenza in data 11.1/26.4.2005, la Corte di appello de L’Aquila accoglieva il gravame; disponeva la restituzione all’appellante di quanto da questi corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado e regolava le spese.

Osservava la Corte abruzzese che l’eccezione di decadenza formulata dall’appellante non era fondata; peraltro il rapporto intercorso tra le parti doveva essere qualificato come d’opera e non di appalto, atteso che era risultato provato come il G. operasse personalmente con la sola collaborazione di suoi familiari. Applicati nella specie i principi relativi a tale contratto, era determinante il fatto, sorretto da più testimonianze, ritenute attendibili, che lo stesso G. aveva inoltre reso edotta la controparte delle incongruenza delle istruzioni esecutive impartitegli e vi si era poi attenuto per le insistenze del S., il quale si era assunto i rischi relativi.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre, sulla base di tre motivi, il S.; resiste con controricorso il G..
Motivi della decisione

Con il primo motivo, si lamenta violazione degli artt. 1655, 1667 e 2222 c.c. e vizio di motivazione; ci si duole che la sentenza impugnata abbia qualificato il rapporto intercorso tra le parti come contratto d’opera e non di appalto, adducendosi che lo stesso G. non aveva dedotto nè provato che l’opera fosse stata effettuata con prevalente lavoro proprio; il fatto che si trattasse di una impresa familiare artigiana non escludeva che potesse essere configurabile un contratto di appalto. Inoltre l’aver rigettato l’eccezione di decadenza ex art. 1667 c.c. per essere stati i vizi dell’opera riconosciuti dallo G. presupponeva la qualificazione di appalto al rapporto intercorso tra le parti; la sentenza impugnata si rivelerebbe pertanto contraddittoria.

La stessa eccezione era stata poi riproposta in appello dallo stesso G., che insisteva così nella qualificazione come appalto della pattuizione intercorsa tra le parti, cosa questa che dimostrava a contrario che costui non aveva fornito prova alcuna relativa alla tesi del contratto d’opera.

La questione, che alla luce delle considerazioni svolte dal ricorrente risulta fondata, non appare peraltro assumere rilevanza ai fini della presente controversia, atteso che la ratio decidendi adottata si attaglia ad entrambe le ipotesi contrattuali, come si rileverà nell’esaminare il secondo motivo di ricorso, atteso che in esso si lamenta violazione degli artt. 1176, 2224, 1667, 1668 e 1669 c.c., nonchè vizio di motivazione. Si sostiene che le deposizioni testimoniali ritenute confacenti all’affermazione decisiva secondo cui il G. aveva reso edotto il S. della necessità di apporre i giunti, data la ampiezza delle mattonelle, e che era stato da questi dissuaso dal provvedervi, per motivi di risparmio e di praticità e che quindi aveva dovuto uniformarsi alle direttive del committente non sarebbero, esaminate nel loro complesso e sottoposte ad adeguato vaglio critico, nè conclusive nè sufficienti a dimostrare tale asserto.

Inoltre, la responsabilità del G. non poteva dirsi elisa da quelle che potevano essere state semplici obiezioni alle riserve della controparte, ma certamente non imposizioni che, alla luce di specifiche risultanze tecniche, esposte in maniera compiuta e con supporti argomentativi basati su dati inoppugnabili, superassero il parere di una persona esperta di quei lavori.

La tesi così argomentata non può essere condivisa, in ragione dei presupposti su cui si fonda; invero, la valutazione delle testimonianze e degli elementi fattuali di contorno è affidata alla discrezionalità del giudice del merito, che può essere oggetto di censura in sede di legittimità nella sola ipotesi di palese vizio di apprezzamento ovvero di assoluta inconciliabilità del senso attribuito alle stesse con quanto risultante dagli atti; ma nella specie, anche nell’ipotesi in cui si volesse, come ha fatto la sentenza impugnata, attribuire al contratto intercorso tra le parti la natura di contratto d’opera, peraltro in disarmonia con le risultanze che detto contratto connotano, come è stato in precedenza rilevato, tanto non influirebbe sulla prova testimoniale raccolta fino al punto da comportare l’incapacità a testimoniare degli operai del G. ed a rendere quindi inutilizzabili le deposizioni da loro rese, ma comporterebbe solo la necessità di un severo vaglio di attendibilità delle stesse, vaglio cui la Corte abruzzese ha provveduto, con risultati di tranquillante attendibilità.

In definitiva quindi, come già rilevato, in accoglimento delle ragioni esposte nel primo motivo, il contratto intercorso tra le parti va qualificato come di appalto.

Da tanto consegue che le deposizioni testimoniali dei testi dipendenti del G. devono ritenersi rese da persone capaci di testimoniare, mentre gli stessi devono, in ragione delle considerazioni svolte nella sentenza di appello, ritenersi attendibili.

Tanto comporta la reiezione del secondo motivo di ricorso.

Quanto al terzo mezzo, con lo stesso ci si duole (violazione degli artt. 342, 329 e 222 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) del fatto che la sentenza impugnata non avrebbe preso in esame le doglianze effettivamente proposte con l’appello, ma avrebbe omesso di provvedere sugli specifici profili dedotti; risulta conseguente che si deduce un vizio di omessa pronuncia sulle censure effettivamente svolte. Va però rilevato che la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere che ove si lamenti violazione dell’art. 112 c.p.c., tanto comporta che si lamenti un vizio processuale, come tale denunziabile ex art. 360 c.p.c., n. 4, cosa questa che rende inammissibile la censura proposta con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e in tal senso devesi provvedere.

Il ricorso, nel suo complesso, deve essere pertanto respinto.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso, pur se ininfluente ai fini della decisione da assumersi circa le pretese azionate dalle parti, costituisce valida ragione per compensare interamente le spese relative al presente procedimento.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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