Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-03-2011) 31-03-2011, n. 13340 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 22 aprile 2010, il G.U.P. del Tribunale di Trento applicava ad O.A., O.E., OS.Av. e T.S. la pena concordata con il Pubblico Ministero per il reato di illecita detenzione di stupefacenti disponendo, altresì, la confisca delle autovetture e di alcuni telefoni cellulari in sequestro.

Avverso tale provvedimento i predetti proponevano ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deducevano la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che il G.U.P. non avrebbe indicato le ragioni della misura ablativa e, segnatamente, le modalità di utilizzazione delle autovetture, una delle quali appartenente a terzi mentre, per gli atri beni, non avrebbe tenuto conto della legittimità della detenzione.

Con un secondo motivo di ricorso lamentavano la violazione di legge rilevando che il Giudice, nel valutare la congruità della pena applicata, avrebbe dovuto considerare tutti i parametri di valutazione indicati dall’art. 133 c.p..

Insistevano, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

La L. n. 356 del 1992, all’art. 12sexies prevede alcune ipotesi particolari di confisca, con riferimento a reati specificamente indicati, del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

Questa Corte ha ripetutamente delineato le differenze intercorrenti tra la confisca ordinaria e quella disposta a norma del menzionato art. 12 sexies, escludendo, per quest’ultima, l’esigenza del nesso di pertinenzialità tra cosa e reato necessario, invece, per la prima e richiedendo, esclusivamente, la dimostrazione di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attività economica ed il valore economico dei beni da confiscare e la mancanza di giustificazioni credibili circa la provenienza dei beni (così SS. UU n. 920, 12 gennaio 2004. Vedasi, da ultimo, Sez. 1^, n. 19516, 24 maggio 2010).

Ciò posto, deve rilevarsi, in primo luogo, che la sentenza impugnata dà atto della mancanza di obiezioni da parte della difesa in ordine alla richiesta del Pubblico Ministero di applicazione della confisca ai sensi della L. n. 356 del 1992, citato art. 12 sexies.

In ogni caso, entrambe le condizioni richieste per l’applicazione della confisca sono state considerate dal G.U.P., che ha correttamente applicato la norma in esame.

Nel provvedimento impugnato viene infatti dato atto della disponibilità dei mezzi da parte degli imputati (con conseguente irrilevanza della eventuale intestazione a terzi) e della sproporzione evidente tra il valore degli stessi ed il reddito dichiarato.

Per i telefoni cellulari confiscati è stata invece ritenuta la pertinenza con i reati contestati.

Ha infatti correttamente osservato dal Procuratore generale nella sua requisitoria scritta che, come è chiaramente desumibile dalla stessa descrizione dell’attività criminosa contenuta nel capo di imputazione, detti beni costituivano, unitamente alle autovetture, il "corredo operativo" indispensabile per la commissione dei reati.

Con riferimento ad altri beni, invece, il ricorso non fornisce alcuna indicazione ed è connotato da una evidente genericità: non viene fornita alcuna indicazione delle cose a cui ci si riferisce, limitandosi ad una apodittica affermazione di legittimità del possesso quale conseguenza di una non meglio specificata tradizione che comporterebbe una trasmissione di beni di generazione in generazione.

Anche il secondo motivo di ricorso risulta manifestamente infondato.

Il provvedimento impugnato, nel ritenere la congruità della pena concordata tra le parti, rende conto della esclusione della contestata recidiva, della derubricazione dei reati contestati e dell’esclusione della aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80 fornendo peraltro, in premessa, una analitica descrizione dei fatti addebitati.

Tali argomentazioni risultano del tutto sufficienti a giustificare il corretto esercizio del potere discrezionale di determinazione della pena e dei criteri di valutazione fissati dall’art. 133 c.p., non essendo richiesto al giudice di procedere ad una analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendo assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2^, n. 12749, 26 marzo 2008).

Il ricorso, conseguentemente, va dichiarato inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle Ammende, della somma, equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti, di Euro 1500,00 per ciascun ricorrente.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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