Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige – Sede di Trento N. 76/2009

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 50 del 2008 proposto dalla signora Lusa Miotto Dolores, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giacomo Quarneti e Roberta de Pretis ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultima in Trento, via SS. Trinità, 14

CONTRO

– il Comune di Siror (Trento), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Marco Dalla Fior e Andrea Lorenzi ed elettivamente domiciliato presso lo studio degli stessi in Trento, via Paradisi, 15/5

per l’annullamento

* del “provvedimento n. prot. 7583–S del 28 dicembre 2007 di diniego della concessione edilizia richiesta dalla ricorrente”;
* di “ogni provvedimento conseguente, connesso e presupposto, e specificatamente del parere negativo espresso dalla Commissione edilizia comunale nella seduta del 21 dicembre 2007”;
* e “per la condanna dell’intimata Amministrazione al risarcimento dei danni conseguenti all’illegittimo operare amministrativo”.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione comunale intimata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle proprie difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Uditi alla pubblica udienza del 26 febbraio 2009 – relatore il consigliere Alma Chiettini – l’avv. Giacomo Quarneti per la ricorrente e gli avv.ti Marco Dalla Fior e Andrea Lorenzi per l’Amministrazione comunale;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

F A T T O

1. La ricorrente espone in fatto di essere proprietaria della p.ed 711, un edifico situato su di un terreno di estensione pari a 1620 mq. in C.C. Siror, nella frazione San Martino di Castrozza. Informa che, in data 1 luglio 2004, ha chiesto all’Amministrazione comunale il rilascio di una concessione ad edificare una nuova costruzione consistente nella realizzazione, previa demolizione del fabbricato esistente, di due edifici adibiti a residenza.

Con provvedimento datato 28 dicembre 2007 l’Amministrazione comunale ha denegato la richiesta concessione, rilevando che il progetto presentato non sarebbe conforme all’art. 12 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale, il quale disciplina gli insediamenti di edilizia mista, e in particolare al comma 5 che, per gli insediamenti esistenti, prevede che l’eventuale cubatura residua edificabile debba essere accorpata all’edificio esistente.

2. Con ricorso notificato in data 23 febbraio 2008 e depositato presso la Segreteria del Tribunale il successivo giorno 29, la ricorrente ha impugnato il provvedimento di diniego, come indicato in epigrafe, deducendo i seguenti motivi di diritto:

I – “violazione dell’articolo 27 bis della legge provinciale n. 23 del 1992 – eccesso di potere per difetto di istruttoria”, in quanto il provvedimento impugnato non sarebbe stato preceduto dalla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza;

II – “violazione dell’articolo 12 delle norme tecniche di attuazione – eccesso di potere per erroneità del presupposto, difetto di istruttoria e per insufficiente, errata e contraddittoria motivazione – violazione dell’articolo 4 della legge provinciale n. 23 del 1992”, posto che l’istante non avrebbe chiesto l’autorizzazione ad ampliare l’edificio esistente, ma a demolire lo stesso per costruire due nuovi fabbricati;

III – “violazione dell’articolo 42 della Costituzione e dell’articolo 12 (e della richiamata tabella C) del piano regolatore generale”, perché l’Amministrazione avrebbe limitato la potenziale capacità edificatoria dell’area comprimendo lo ius aedificandi garantito dalla Costituzione.

3. Con il ricorso è stata, altresì, presentata la domanda affinché il Tribunale disponga il risarcimento del danno sofferto dalla ricorrente per l’impossibilità di utilizzare l’immobile per il quale ha chiesto la concessione. Per la liquidazione del danno è stata invocata la procedura prevista dall’articolo 35 del D.Lgs. 31.3.1998, n. 80.

4. Nei termini di legge si è costituita in giudizio l’Amministrazione comunale intimata eccependo l’inammissibilità del ricorso, del quale ha comunque chiesto la reiezione perché infondato nel merito.

5. Alla pubblica udienza del 26 febbraio 2009 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

D I R I T T O

1. Con il ricorso in esame la signora Dolores Lusa Miotto ha impugnato il diniego dell’Amministrazione comunale di Siror alla richiesta di rilascio di una concessione di edificare sulla sua proprietà, consistente in un edificio tavolarmente individuato dalla p.ed 711 e situato su di un terreno di 1620 mq. nella località San Martino di Castrozza.

La prima domanda presentata dalla ricorrente all’Amministrazione comunale in data 1 luglio 2004 aveva per oggetto la realizzazione di due edifici con una capienza complessiva di 18 alloggi. Il successivo 22 luglio il Responsabile dell’ufficio urbanistica del Comune ha sospeso la procedura, informando l’istante della mancanza di parte della documentazione necessaria e di alcuni problemi che presentava il progetto depositato.

In data 11 dicembre 2007 l’interessata ha quindi presentato all’Amministrazione un nuovo progetto, alquanto ridotto rispetto al precedente e riguardante la realizzazione di 6 appartamenti di grandi dimensioni. Allo scopo era prevista la demolizione dell’edificio esistente e la costruzione di due immobili fuori terra, l’uno all’altro fronteggianti, uniti da un ampio interrato continuo e dotato di un accesso veicolare unico. Un edifico si sarebbe collocato sulla posizione dell’esistente, ma con diverse dimensioni, mentre l’altro si sarebbe trovato a regolare distanza dal primo. Ognuno avrebbe presentato tre piani per una cubatura rispettiva di mc. 1284,586 e di mc. 1297,090.

L’Amministrazione comunale, sentito in data 21.12.2007 il parere della Commissione edilizia, con il provvedimento impugnato datato 28.12.2007 ha negato il rilascio della richiesta concessione sul rilievo della motivata non conformità del progetto alla normativa urbanistica di zona.

2. Preliminarmente occorre prendere in esame le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa del resistente Comune, la quale ha dedotto la carenza di interesse della ricorrente, posto che la particella 711 è gravata da una servitù non aedificandi a favore della Provincia autonoma di Trento, oltre alla mancata notifica dell’atto introduttivo all’Ente titolare di detta servitù.

Dette eccezioni sono peraltro infondate.

2a. Per la prima di esse basti solo precisare che, in occasione dell’odierna discussione, il difensore della ricorrente ha depositato una nota datata 22.11.2006 con la quale il Dirigente del Servizio foreste della Provincia ha espresso parere favorevole alla richiesta, avanzata dalla ricorrente, di cancellazione a titolo oneroso delle servitù di “non sopraelevare ed ampliare l’edificio costruito (altius non tollendi)” e di “non costruire stabili” iscritte a favore della Provincia autonoma di Trento – Patrimonio indisponibile.

L’avvenuta presentazione della richiesta di cancellazione della servitù associata al suddetto parere, prova dunque, al di là di ogni altra argomentazione, la sussistenza dell’interesse della ricorrente a rimuovere le limitazioni all’edificazione sulla sua proprietà, attestando nel contempo l’insussistenza di quello della Provincia a mantenere le viste servitù.

2b. Con riferimento alla seconda eccezione – strettamente connessa alla precedente – occorre osservare che una tale servitù limita il diritto di proprietà della titolare anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei confronti dell’Amministrazione alla quale, con il sistema della intavolazione delle realità vigente nel territorio provinciale, è permessa una rapida ed efficace verifica circa l’assetto dei diritti reali insistenti sull’immobile oggetto del richiesto intervento edilizio.

In tal senso si è espresso il Consiglio di Stato, il quale ha precisato che una concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti di terzi non è di per sé illegittima a meno che non sia accertato il suo contrasto con elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento (in termini, C.d.S., sez. V, 8.4.1997, n. 329). Da altra decisione emerge, poi, che la concessione edilizia può essere rilasciata a chi ha un titolo idoneo per richiederla e che tale titolo non può essere subordinato alla sola dimostrazione della proprietà dell’area, occorrendo invece “l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile”. E la necessaria piena “disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono proprio sulla possibilità di edificazione del suolo” (cfr., C.d.S., sez. V, 22.6.2000, n. 3525).

Orbene, dagli atti di causa è palesemente ricavabile che l’Amministrazione comunale di Siror era a conoscenza dell’esistenza della servitù non aedificandi iscritta, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera j), della legge provinciale 23.5.2007, n. 11, a carico della p.ed. 711 ed a favore delle foreste demaniali provinciali. Siffatto vincolo reale è, infatti, espressamente citato nella relazione illustrativa del progetto datata 20.10.2007 (cfr. documento n. 5 in atti di parte ricorrente) con la precisazione che esso sarà cancellato “immediatamente prima del rilascio della concessione edilizia”.

Ma il diniego impugnato è, tuttavia, fondato sull’applicazione di norme pubblicistiche senza attribuire alcun rilievo, almeno a questi fini ed in questa fase procedimentale, alla disciplina civilistica della proprietà quale concorrente ragione ostativa al richiesto rilascio.

Nei termini della vicenda così come sopra illustrati la Provincia di Trento, in qualità di proprietaria del fondo dominante, non riveste dunque la qualità di controinteressato in senso tecnico, che è “riconosciuta a coloro che da un lato siano portatori di un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato, di natura eguale e contrario a quello del ricorrente (cosiddetto elemento sostanziale), e dall’altro siano nominativamente indicati nel provvedimento stesso o comunque siano agevolmente individuabili in base ad esso (cosiddetto elemento formale)” (cfr., T.A.R. Liguria, sez. I, 24.1.2002, n. 62). Nello stesso senso, nel disposto dell’art. 21, comma 1, della legge 6.12.1971, n. 1034, ove si impone la notifica dei ricorso ai controinteressati, è stata individuata una regola che “esprime il principio generale della necessaria instaurazione di un contraddittorio processuale integro, che comprenda, cioè, tutti i soggetti direttamente interessati dall’esito del ricorso, e che, quindi, l’onere con la stessa imposto deve intendersi applicabile a tutti i ricorsi … in cui risulti configurabile l’esistenza di soggetti titolari di un interesse contrario a quello di chi li propone e che potrebbero, pertanto, restare pregiudicati dall’adozione del provvedimento giurisdizionale invocato dal ricorrente” (cfr., C.d.S., sez. IV, 9.8.2005, n. 4231).

Occorre quindi concludere che il provvedimento in esame non è in grado di incidere sulla situazione giuridica di vantaggio di cui è titolare la Provincia autonoma di Trento, ossia sul diritto di proprietà della ricorrente, in quanto trattasi di un diritto soggettivo per il quale, peraltro, già consta il parere favorevole alla cancellazione delle suddette servitù.

3. Così definite le eccezioni preliminari, il Collegio può ora passare all’esame del ricorso nel merito.

Con il primo motivo si deduce la violazione della legge provinciale sul procedimento amministrativo 30.11.1992, n. 23, ed in particolare dell’art. 27 bis, in quanto l’impugnato diniego non sarebbe stato preceduto dalla comunicazione all’interessata dei motivi ostativi all’accoglimento della sua istanza edificatoria.

Tale censura, in assenza di ogni allegazione in merito al diverso esito sul piano prognostico del rivendicato contraddittorio, non è ammissibile.

Va invero condivisa, al riguardo, la ricostruzione dell’istituto in esame operata dalla difesa del Comune resistente che, richiamando una recente decisione del Consiglio di Stato e, in particolare, quella della sez. VI, 29.7.2008, n. 3786, ha chiarito che la violazione della suddetta disposizione può portare all’annullamento dell’atto impugnato solo se con l’atto introduttivo l’istante abbia indicato gli elementi che, ove valutati nel corso del procedimento, avrebbero potuto essere idonei ad incidere sull’esito del procedimento. Sono anche condivisibili le sagaci argomentazioni svolte a sostegno di detta eccezione, soprattutto ove è stata puntualizzata l’esatta portata dell’articolo 21 octies, comma 2, della legge 7.8.1990, n. 241: “è vero, infatti, che tale norma pone in capo all’Amministrazione (e non del privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non poteva essere diverso. E tuttavia, onde evitare di gravare la p.a. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento), risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la p.a. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che ove il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione, il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile”.

4. Con il secondo motivo, di carattere sostanziale, si lamenta che il diniego sarebbe fondato sul richiamo all’art. 12, comma 5, delle norme di attuazione al piano regolatore che disciplina gli interventi di ampliamento degli edifici esistenti, mentre la deducente non avrebbe chiesto l’autorizzazione ad ampliare il preesistente edificio, ma a demolire lo stesso per costruire due nuovi fabbricati. L’istante invoca quindi l’applicazione dell’articolo 6, comma 1, delle locali norme di attuazione, ove è prevista la “nuova costruzione di fabbricati su aree libere mediante la demolizione di strutture esistenti”.

Il motivo non è fondato.

Il Collegio osserva innanzitutto che il richiamato art. 6 è una norma di carattere generale volta a disciplinare le categorie degli interventi edilizi ammessi, che suddivide in tre fattispecie: le nuove costruzioni, la demolizione definitiva, il recupero del patrimonio edilizio esistente.

Al comma 1, ove sono disciplinati gli interventi di “nuova costruzione”, è effettivamente prescritto che rientri in tale fattispecie anche “la ricostruzione di fabbricati mediante la demolizione delle strutture esistenti” e che “ad esclusione dei fabbricati e dei manufatti vincolati … ogni fabbricato è suscettibile di demolizione e costruzione”. Ma, a tutto ciò, l’ultimo periodo del comma in esame aggiunge che “le nuove costruzioni e le ricostruzioni devono comunque rispettare le prescrizioni funzionali e tipologiche di zona ed i relativi parametri edificatori”.

In tal senso, occorre allora affermare che la proprietà della ricorrente è urbanisticamente classificata “insediamento di edilizia mista a bassa densità – esistente” che trova la sua disciplina nell’articolo 12, commi 1, 2 e 5, delle stesse norme di attuazione. Per tale zonizzazione le norme in esame prescrivono, in via generale, che “sono ammesse tutte le categorie di intervento purché si realizzino edifici conformi alle caratteristiche tipologiche di zona” e, in sede più specifica, quale insediamento “esistente”, prevedono un volume massimo di 1300 mc. e la concorrente prescrizione che “l’eventuale cubatura residua edificabile fuori terra” debba “essere accorpata all’edificio esistente”.

Dalla lettura del combinato disposto delle norme riportate si deve dunque concludere che l’edificio di proprietà della sig.ra Lusa sia suscettibile di un intervento volto all’ampliamento dello stesso fino ad una volumetria massima di 1300 mc. e che la volumetria aggiuntiva rispetto a quella esistente debba essere accorpata alla stessa così che permanga sull’area un unico fabbricato.

Il progetto presentato all’Amministrazione prevede invece la realizzazione di due edifici, rispettivamente con la cubatura di mc. 1284,586 e di mc. 1297,090.

Correttamente quindi il diniego ha affermato che “il progetto così come presentato non è conforme all’art. 12, comma 5, delle n.a. del PRG in quanto l’area a insediamenti di edilizia mista esistente ammette il solo accorpamento del volume residuo edificabile all’edificio esistente raggiungendo il Ve max di mc. 1300 in un unico corpo di fabbrica e non per ogni edificio in quanto non sarebbe più un accorpamento”.

Così accertata la legittimità del provvedimento di diniego, occorre aggiungere – con riferimento alle censure attinenti la motivazione dello stesso – che il relativo potere amministrativo era vincolato al rispetto dei vigenti strumenti di pianificazione generale ed attuativa, cosicché l’atto conclusivo del procedimento, alla luce della descritta normativa, si presenta congruamente motivato per un atto a contenuto strettamente vincolato.

Il secondo motivo di ricorso va perciò disatteso.

5. Con l’ultimo motivo si assume che l’interpretazione della normativa applicabile per gli “insediamenti di edilizia mista a bassa densità – esistenti” sostenuta dall’Amministrazione con l’adozione del provvedimento impugnato violerebbe lo stesso disposto della tabella C del citato articolo 12 (e specificatamente ove è previsto un indice di edificabilità pari a 2 mc./mq.), oltre a limitare lo ius aedificandi garantito dalla Costituzione.

Anche tale motivo è destituito di giuridico pregio.

La tabella C prevede, infatti, una serie di parametri edificatori valevoli, in generale, per gli “insediamenti misti a bassa densità”. L’art. 12 delle norme di attuazione distingue poi gli stessi tra “esistenti” e “di progetto”. Come già precisato più sopra, la proprietà della ricorrente è compresa nelle aree di edilizia mista a bassa densità “esistenti”, per le quali la disciplina primaria è rinvenibile nel già menzionato comma 5 dell’articolo 12. E la vista prescrizione è sufficientemente chiara nell’ammettere il solo intervento di accorpamento della cubatura residua all’edificio esistente fino al limite massimo consentito per esso dal parametro di zona, ossia 1300 mc. In altri termini, nelle zone “esistenti” non è ammessa l’edificazione di un nuovo edificio (sebbene anch’esso rispettoso del volume massimo consentito), ma il solo ampliamento di quello in essere.

A parere del Collegio tale normativa, che distingue fra zone esistenti e di progetto, non incorre nella contestata contrazione dello ius aedificandi che la Corte costituzionale ha ritenuto incorporato nel diritto di proprietà tutelato dell’articolo 42 della Costituzione, ma, all’opposto, si presenta con una logica unitaria, stabilendo restrizioni edificatorie uguali per gli appartenenti ad una prefissata classe (proprietari della zona omogenea) e determinando, poi, i parametri delle possibili costruzioni (e quindi anche di mercato connessi al valore dell’immobile realizzabile e pertanto pure dell’area) in relazione a quelle omogenee restrizioni. In altri termini, non costituisce restrizione al diritto di proprietà ed allo ius aedificandi l’obbligo conformativo che opera quale limite generale in aree insistenti in una zona omogenea.

Tale funzione dell’Amministrazione si esercita in attuazione del potere conformativo della proprietà riconosciuto al pianificatore comunale che, nel disciplinare le diverse zone del territorio, può conferire alle stesse connotati di sostanziale unitarietà a seconda della preesistenza o meno su di esse dell’edificazione, in applicazione del principio di omogeneità nella destinazione d’uso del territorio.

6. In conclusione, il ricorso deve essere respinto, congiuntamente alla domanda di risarcimento del danno.

Le spese seguono la soccombenza e devono essere accollate alla parte ricorrente nella misura liquidata come da dispositivo.

P. Q. M.

il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa del Trentino – Alto Adige, sede di Trento, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 50 del 2008, in parte lo dichiara inammissibile ed in parte lo respinge.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 3.800,00 (tremilaottocento) (di cui € 3.000 per onorari ed € 800 per diritti), oltre a I.V.A. e C.P.A. ed al 12,5% sull’importo degli onorari a titolo di spese generali.

Così deciso in Trento, nella camera di consiglio del 26 febbraio 2009, con l’intervento dei Magistrati:

dott. Francesco Mariuzzo – Presidente

dott. Lorenzo Stevanato – Consigliere

dott.ssa Alma Chiettini – Consigliere estensore

Pubblicata nei modi di legge, mediante deposito in Segreteria, il giorno 11 marzo 2009

Il Segretario Generale

dott. Giovanni Tanel
N. 76/2009 Reg. Sent.

N. 50/2008 Reg. Ric.

Fonte: www.giustizia-amministrativa.it

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