Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 24-03-2011) 01-04-2011, n. 13402

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

D.N.I. ricorre personalmente contro la sentenza 8 luglio 2010 della Corte di appello di Catanzaro che ha confermato la sentenza 12 marzo 2008 del Tribunale di Catanzaro di condanna per il delitto ex art. 336 cod. pen..

1.) il capo di imputazione.

L’imputata è accusata del reato di cui all’art. 336 c.p., perchè alla richiesta di esibizione dei documenti di riconoscimento da parte degli Agenti di Polizia di Stato, appartenenti alla Sezione Volanti, usava nei confronti degli stessi minaccia, proferendo le testuali parole: "ma chi siete voi, che cazzo volete, non vi dovete permettervi a fermarmi, non sapete con chi avete a che fare, vi faccio passare una brutta serata, siete ridicoli con quella specie di divisa che avete addosso, che vi credete di essere, non vi do un cazzo di documento, vi vengo a trovare alle vostre case per farvela pagare, io sono la nipote di un giudice, vedete in che guai vi metto, con me non vi dovete permettere, sono al telefono con mio zio giudice parlateci voi che avete i coglioni sotto" (fatti del (OMISSIS)).

2.) i motivi di ricorso.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge sul presupposto: che nella specie "non vi era alcun atto del pubblico ufficiale da coartare", atto che non sarebbe neppure stato indicato nella motivazione della corte distrettuale; che difettava comunque l’elemento psicologico.

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione essendo mancata, pur a fronte di uno specifico motivo di appello, l’individuazione dell’atto impedito, tale non potendosi considerare l’esigenza di identificazione della donna, persona conosciuta dagli agenti.

Entrambi i motivi sono privi di fondamento.

Innanzitutto una lettura, anche superficiale, delle decisioni dei giudici di merito le quali integrano una doppia conforme pronuncia, rende manifesto che l’atto "coartato" dei pubblici ufficiali era l’accertamento della identità personale dell’imputata, correttamente richiesto nei contesti della condotta della donna, la quale si accompagnava e stava litigando con persona nota come pregiudicato.

Nè può valere, a giustificare la condotta omissiva della D. N., la circostanza che la sua identità era conosciuta all’Ufficio, considerato che il reato di cui all’art. 651 cod. pen. si perfeziona con il semplice rifiuto di fornire al pubblico ufficiale indicazioni circa la propria identità personale, per cui è irrilevante, ai fini dell’integrazione dell’illecito, che l’identità del soggetto sia facilmente accertata per la conoscenza personale da parte del pubblico (Cass. pen. sez. 6, 34689/2007 Rv.

237606 Massime precedenti Conformi: N. 1804 del 1985 Rv. 168010, N. 851 del 1995 Rv. 200588, N. 6052 del 1995 Rv. 201435, N. 9337 del 1995 Rv. 202978, N. 34 del 1996 Rv. 203851).

Inoltre, quanto alla legittimità della richiesta stessa, ferme restando le precedenti argomentazioni, va rammentato che in tema di rifiuto d’indicazioni sulla propria identità personale, di cui all’art. 651 cod. pen., il giudice penale può sindacare la legittimità della richiesta del pubblico ufficiale soltanto sotto il duplice profilo della qualifica soggettiva e della competenza del richiedente, ma non può (come sembra esigere il ricorso) investire anche la discrezionalità della concreta iniziativa del pubblico ufficiale, in relazione alla causa della richiesta. (Cass. pen. sez. 1, 7250/1993 Rv. 197886 Massime precedenti Conformi: Rv. 136559).

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge.

Il ricorso premette in fatto che il decreto di citazione a giudizio in appello è stato erroneamente notificato all’avv. Domenico Aiello e non all’avv. Claudia Orsini, e che all’udienza 8 luglio 2010 l’imputata è risultata difesa da difensore nominato quale sostituto d’udienza dal difensore di fiducia avv. Claudia Orsini, il quale non ha sollevato questione alcuna in sede dibattimentale.

Su tale premessa si chiede una pronuncia circa la legittimità di tale comportamento e, in particolare, si chiede se la nullità del decreto di citazione per il giudizio di appello, in quanto notificato a soggetto non difensore (l’avv. Domenico Aiello è soggetto totalmente estraneo al giudizio ancorchè precedente difensore e collega di studio dell’avv. Orsini), unitamente alla mancata proposizione di eccezioni processuali da parte del sostituto processuale nominato non sia motivo di nullità della impugnata sentenza, dal momento che la Corte ha giudicato senza rilevare detta evidente nullità del decreto, pur potendo peraltro correttamente giudicare stante il comportamento processuale del difensore ancorchè rappresentato da sostituto processuale.

Il quesito su cui si sollecita una pronuncia è, dunque, se sussiste un onere a pena di nullità di evidenziare l’esistenza di un vizio di nullità rilevabile d’ufficio, ancorchè sanato nel caso di specie dalla formale presenza del difensore nominato e dalla mancata proposizione di eccezioni procedurali, ovvero se la sanatoria delle irregolarità, in applicazione delle norme di legge, esoneri i Giudici anche dal rilevare i motivi di palese nullità e, conseguentemente, determini la regolarità di una pronuncia nonostante l’evidente omissione di applicazione di norme procedurali.

Ritiene il Collegio che il vizio procedurale, sanato per volontà di chi avrebbe titolo per dedurlo, non impone al giudice alcun rilievo formale della verificata nullità e ciò nel rispetto del principio affermato dalla Corte delle leggi (Corte costituzionale, ord. 8-10 maggio 2000, Pres. Mirabelli, rel. Flick) secondo cui non ogni irregolarità processuale conduce alla sanzione di nullità, specie ove si consideri che la legge di delega sul nuovo c.p.p., nella sua direttiva di esordio, ha espressamente sancito il criterio della massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attività non-essenziale". "Inoltre, l’insistito richiamo del legislatore delegante alla semplificazione delle forme non può dunque che rispondere ad una omologa e rigorosa limitazione della cause di nullità ai soli vizi di forma che rispondano ad altrettanti difetti di sostanza.

Il motivo è quindi palesemente infondato.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1500,00 (mille).
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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