Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 25-11-2010) 01-04-2011, n. 13405

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Svolgimento del processo

1.1- Con Sentenza in data 26.11.2009, depositata il 24.2.2010, la Corte d’Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza 29.04.2009 del GUP del Tribunale di Trento, condannava P. E. alla pena di anni 6, mesi 2, giorni 20 di reclusione; il giudice di primo grado, in esito al processo celebrato con le forme del rito abbreviato, lo aveva condannato alla pena di anni 5 di reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di lesioni, minacce gravi, tentato omicidio, lesioni aggravate, concedendo allo stesso la attenuante della provocazione giudicata equivalente alla recidiva di cui all’art. 99 c.p., comma 4.

I fatti oggetto del processo si verificarono in (OMISSIS) quando A.H., per chiedere conto di un precedente episodio nel corso del quale, pochi giorni prima, era stato colpito con dei pugni dal vicino di casa P.S. e insultato e minacciato da M.J. e da P.E., moglie e figlio di S., si era avvicinato nel cortile ai due P., padre e figlio, recando con sè, infilato posteriormente nella cintola dei pantaloni, un coltello con lama di 28 centimetri, larga 4,8,centimetri. Giunto in prossimità dei due l’ A. estrasse il coltello e, mentre P.S. riusciva bloccarlo afferrandolo con le braccia al torace, P.E. lo colpiva con una sedia tramortendolo e facendo cadere il coltello. A questo punto P. E., impossessatosi del coltello, colpiva l’ A. cagionandogli:

una ferita passante caratterizzata da una penetrazione della lama nel corpo per oltre 20 centimetri, procurando la rottura di una costola, la perforazione del lobo polmonare inferiore e la recisione di una arteria polmonare, ed una ferita alla faccia esterna del gomito destro.

La Corte di appello di Trento, in accoglimento dell’appello del P.M., che si doleva che il primo giudice avesse omesso di conteggiare l’aumento per la continuazione secondo il limite minimo invalicabile previsto dall’art. 81 c.p., comma 4, (aggiunto dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 5), aumento che opera tutte le volte in cui la recidiva reiterata infraquinquennale sia ritenuta sussistente, ancorchè come nel caso di specie dichiarata equivalente all’attenuante della provocazione, rideterminava la pena applicando l’aumento di 1/3 per la continuazione e pervenendo alla condanna ad anni 6, mesi 2 e giorni 20 di reclusione.

1.2.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso per Cassazione il difensore dell’ P.E. adducendo:

1) Erronea applicazione della legge penale riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo nel reato di tentato omicidio. In particolare sostiene la necessità, per la configurabilità del delitto tentato, della sussistenza del dolo diretto e dell’insufficienza del solo dolo eventuale, che sarebbe, nel caso della condotta concretamente posta in essere dal P.E. l’elemento psicologico rilevabile dalle circostanze esteriori, significative, in mancanza di specifiche ammissioni, sicchè è ingiustificata la condanna per tentato omicidio.

2) Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 56 c.p., comma 3 (desistenza volontaria) e comma 4 (recesso attivo), e manifesta illogicità della motivazione sul punto. L’ E., infatti, dopo aver attinto l’ A. all’emitorace destro ed al gomito destro, pur potendo facilmente ucciderlo con ulteriori coltellate ha volontariamente desistito dall’azione lasciando che si rifugiasse dentro l’abitazione dei P. da dove poi l’avrebbe cacciato senza ulteriormente torcergli un cappello e chiamando, subito dopo, attraverso il 112, i soccorsi. Ed erroneamente sia il giudice di primo grado che quello di appello avrebbero escluso l’applicabilità di entrambe gli istituti, sostenendone, nel caso in esame, l’incompatibilità con il delitto tentato, ciò in contrasto con la prevalente dottrina e con i recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Il punto di sentenza impugnato è anche affetto da vizio di manifesta illogicità della motivazione dato che seguendo il ragionamento dei giudici di merito si finisce illogicamente per riservare il medesimo trattamento sanzionatorio sia a colui che, dopo aver posto in essere atti idonei ed univocamente diretti ad uccidere un uomo, non riesce a perfezionare l’azione omicida perchè interrotto da cause esterne, sia a colui che, trovandosi nella medesima situazione (come ha fatto il P. nel caso di specie) decide volontariamente di non uccidere la vittima, pur potendolo fare senza che qualcuno o qualcosa glielo impedisca.

1.2.- Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione

2.1.- Il ricorso è inammissibile. I due motivi di ricorso si sostanziano nella contestata qualificazione del fatto da parte dei giudici di merito in base ad una prospettata, diversa, lettura del fatto medesimo e dei dati di prova che sollecita un a ulteriore rivalutazione del di merito esulante dalle attribuzioni di questa Corte.

Riguardo al primo motivo osserva il collegio che è pacifico, per consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che ha natura di dolo diretto, ed è compatibile con il tentativo di omicidio, quella particolare manifestazione di volontà definita dolo alternativo, che sussiste quando il soggetto attivo prevede e vuole, con scelta di sostanziale equivalenza, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (S.U. n. 748 del 12 ottobre 1993, Cassata; S.U. n. 3428 del 6 dicembre 1991, S.U. n. 3571 del 14 febbraio 1996, Suraci e S.U. n. 3286 del 27 novembre 2008, Chiodi). Il dolo diretto, nella peculiare forma del dolo cosidetto alternativo, sussiste (Cass., sez. 1, sent.

9949, ud. 20/10/97, dep. 5/11/97, Trovato, e recentissime Cass. Sez. 1, sent. 22.9.2010, n. 37516, imp. Bisotti; Cass. Sez. 1, sent.

23.9.2010, n. 36723, imp. Solovuchuk e altri; Cass. Sez. 6, sent.

14.10.2010, n. 40808, imp. Cazzaniga) allorquando l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicchè già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve prevederli entrambi. La Corte d’appello, conformandosi alla decisione del Tribunale, ha ritenuto che fosse ravvisabile il dolo diretto, quindi la volontà dell’agente di uccidere o di ferire gravemente, fondando il suo giudizio sulla base dei parametri che questa Corte ha più volte indicato quali elementi sintomatici del dolo: tipo di arma usata, zona del corpo attinta, forza del colpo, conseguenze prodotte. L’intenzione omicidiaria del prevenuto, secondo il condivisibile percorso argomentativo della corte, è infatti dimostrata dai dati obiettivi, accertati dal medico legale, risultanti dalla gravita delle lesioni riportate dall’ A., in particolare dalla ferita passante all’emitorace destro in sè largamente idonea a determinare, in alcune decine di minuti, la morte del tunisino per shock emorragico ed insufficienza respiratoria. L’imponenza del danno fisico e le caratteristiche della ferita escludono che possa essere veritiera la tesi difensiva relativa alla accidentalità della lesione a seguito della colluttazione tra i contendenti. Solo un fendente inferto intenzionalmente, dopo aver ben brandito il coltello, con lama di 28 centimetri, larga 4,8 centimetri, ed averlo distanziato dall’obiettivo, poteva consentire di imprimere lo slancio e la forza necessari per fratturare la settima costola e cagionare l’infrazione della ottava. Dunque dopo che l’ A. aveva perso l’arma e questa era stata presa dal P.E., la legittima reazione difensiva di questi si era esaurita e il successivo evolversi dei fatti era stato determinato da una autonoma determinazione volitiva dell’imputato il quale aveva subitaneamente deciso di sferrare il micidiale fendente in una parte del corpo dell’avversario sede dei principali organi vitali. Anche la profonda ferita riportata dalla vittima alla faccia esterna del gomito destro, sicuramente non causata accidentalmente in corso di colluttazione di reciproca offesa e difesa, posto che il tunisino impugnava il coltello con la mano destra, conferma la volontà, con dolo d’impeto, diretto e non solo eventuale, da parte del P.E. di colpire e di cagionare la morte dell’antagonista ormai inoffensivo e ridotto all’impotenza. La valutazione di tali elementi alla stregua di segnali inequivocabili della volontà omicidiaria, appare dunque incensurabile in questa sede perchè accurata e plausibile laddove, invece, il ricorso ripete deduzioni in fatto già largamente smentite dagli argomenti richiamati.

2.2.- Considerazioni analoghe valgono per il secondo motivo. Sotto il profilo oggettivo, la desistenza prevista dall’art. 56 c.p., comma 3 sussiste quando il soggetto attivo interrompe la sua azione prima di avere posto in essere l’intera condotta tipica, mentre l’ipotesi del recesso attivo, disciplinato dall’art. 56 c.p., comma 4, ricorre quando il soggetto, avendo compiutamente realizzato la condotta tipica, si attiva per impedire l’evento e riesce, concretamente e con condotta avente specifica valenza causale, ad evitare che si verifichi. La desistenza può aversi solo nella fase del "tentativo incompiuto" e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento (Cass., Sez. 1 sent. 2.10.2007, n. 42749, imp. Pepini; Cass., Sez. 1^ sent. 23.9.2008, n. 39293, imp. Di salvo;

Cass., Sez. 6^, sent. 9.4.2009, n. 32830, imp. Norci). La sentenza impugnata, nell’escludere la scriminante della desistenza e la diminuente del cd. recesso attivo, ha correttamente argomentato, con motivazione completa e logica rispetto alle risultanze fattuali, che l’azione di P.E. in danno dell’ A. si era compiutamente estrinsecata in tutta la sua potenzialità letale quando la vittima si rifugiò nella abitazione dei P., dalla quale peraltro subito uscì fuggendo attraverso una porta-finestra, nè vi era ragione di infierire ulteriormente contro l’avversario già ferito a morte a causa del fendente sferratogli al torace.

L’evento letale, che sarebbe intervenuto per shock emorragico ed insufficienza respiratoria in alcune decine di minuti a causa delle lesioni provocate dalla micidiale coltellata sferrata alla vittima all’emitorace destro, fu scongiurato, secondo la puntuale ricostruzione dei giudici di merito, solo dalla prontezza dei soccorsi a carattere medico conseguenti all’immediato ricovero in ospedale della vittima.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 (mille) alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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