Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 04-03-2011) 04-04-2011, n. 13465 Associazione per delinquere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 30.1.09 la Corte di Assise di Siracusa condannava A. A., Ar.Gi., C.R., D.C. A., G.F., L.G. e M. S. a pene varie per i reati di concorso in omicidio premeditato (capo A) e detenzione e porto illegali di pistole con l’aggravante della D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (capo B), l’ A. e il L., concorso in rapine aggravate (capi C e D) e partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti con l’aggravante delle armi e del numero di persone superiore a 10 (capo F1) nonchè detenzione e spaccio delle stesse (capo F2) l’ Ar., entrambi i delitti con l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7; del reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti erano ritenuti responsabili anche il C., il G. e il M., mentre il D.C. era condannato soltanto per concorso in rapina, sempre aggravata ex art. 7 cit. (capo I).

Con sentenza 23.2.10 la Corte di Assise di Appello di Catania, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, assolveva per non aver commesso il fatto l’ Ar. dai reati ascrittigli ai capi C) e D) della rubrica (concorso nelle rapine aggravate commesse ai danni dell’Agenzia della Banca di Credito Popolare di (OMISSIS) e del Banco Ambrosiano Veneto), nonchè il C. dall’imputazione di cui al capo F1), per l’effetto rideterminando la pena nei confronti dei suddetti Ar. e C., confermando nel resto le statuizioni di prime cure.

Questi, in estrema sintesi, i fatti ricostruiti in sede di merito:

A.A. e L.G. erano stati condannati come mandanti dell’omicidio di Z.A. (commesso il (OMISSIS)) in concorso con B.S., D.P.C., L. C. e R.M.) avvenuto per un regolamento di conti all’interno dell’associazione per delinquere di tipo mafioso denominata clan "Aparo-Nardo-Trigila", attivo nel siracusano, nell’ambito del quale operava un gruppo più ristretto denominato "Santa Panagia"; la loro condanna era maturata sulla scorta di dichiarazioni rese da svariati collaboratori di giustizia (D. C.A., L.P., R.M. e D. P.C., questi ultimi due concorrenti nell’omicidio, come si è detto), riscontrate fra loro oltre che munite di riscontri inerenti alle modalità dell’esecuzione, all’arma utilizzata e alla sua provenienza furtiva, agli esiti delle indagini balistiche e ai colloqui in carcere in epoca prossima all’omicidio.

Quanto ai reati p. e p. ex D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 ascritti all’ Ar., premesso che l’esistenza di tale associazione per delinquere era provata da una precedente sentenza passata in giudicato, le relative responsabilità dell’imputato erano state desunte dalle dichiarazioni dei fratelli R. ( M. e L.), entrambi collaboratori di giustizia. Altre chiamate di correo avevano attinto il C., il G. e il M. per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 cit., mentre per quanto concerneva la rapina di cui al capo 1) dell’editto accusatorio, lo stesso D.C. aveva confessato la propria responsabilità.

Con separati atti l’ A., l’ Ar., il C., il D. C., il G., il L. e il M. ricorrevano contro la sentenza d’appello, di cui chiedevano l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

L’ A. e il L. deducevano:

1.1. violazione della D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16 quater, comma 9, stante l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese al PM dal collaboratore di giustizia D.C.A., perchè intervenute oltre i 180 giorni dall’inizio della collaborazione, trattandosi di dichiarazioni non meramente esplicative (come ritenuto dai giudici del merito), bensì innovative rispetto ai contenuti della collaborazione di cui al verbale illustrativo del 13.5.05, nel quale si era limitato ad indicare A.A. come uno dei mandanti (insieme con F.A., A.C. e L. G.) dell’omicidio Z.; solo dopo che erano trascorsi più di sei mesi aveva fornito i dettagli dell’omicidio e il relativo movente (lo Z., nel gestire una bisca, si sarebbe impossessato di denaro che avrebbe dovuto consegnare al clan malavitoso); inoltre, non rilevava che tali accuse fossero state formulate anche in dibattimento, trattandosi di reiterazioni di quanto già dichiarato dal collaboratore in sede di indagini preliminari;

1.2. violazione dell’art. 195 c.p.p. nonchè vizio di motivazione nella parte in cui la loro penale responsabilità era stata ritenuta in base alle sole propalazioni accusatorie di collaboratori di giustizia, prive di riscontri esterni individualizzanti, smentite dalle contrarie dichiarazioni del fratello del ricorrente – A. C., che si era autoaccusato quale mandante dell’omicidio in un periodo in cui reggeva da solo l’associazione criminale, sicchè non aveva bisogno di alcun avallo da parte dei ricorrenti – e da quelle di due degli esecutori materiali del delitto ( B.S. e L.C.), che avevano escluso qualsiasi partecipazione all’omicidio anche da parte dei ricorrenti; in particolare, la chiamata di correo operata da D.P.C. (altro concorrente nell’omicidio) si basava su un’ipotetica sua deduzione circa la conoscenza anche da parte di A.A. del proposito delittuoso, mentre quella operata da R.M. era de relato (per quanto avrebbe appreso da L.C., figlio dell’odierno ricorrente), sicchè non era utilizzabile se non attraverso la particolare procedura prevista dall’art. 195 c.p.p.;

1.3. aggiungeva il L. che le accuse mossegli dai collaboranti traevano origine da un’unica fonte di conoscenza ( L.C., che però a sua volta aveva negato ogni coinvolgimento del padre), sicchè l’accusa risultava, in ultima analisi, autoreferente e circolare; sempre il L., nel ribadire l’inutilizzabilità delle dichiarazioni del D.C. perchè rese oltre il termine dei 180 giorni, ne lamentava altresì l’inattendibilità nella parte in cui aveva riferito di aver appreso dell’intento delittuoso dai fratelli A. in occasione di un processo a loro carico innanzi alla Corte di Assise di Siracusa e di aver appreso da L.C. il mandato trasmesso dal padre L.G.: in realtà – proseguiva il ricorso di quest’ultimo -, nel verbale illustrativo della collaborazione (del 13.5.05) il D.C. aveva detto che dopo essere stato scarcerato nel 1995 aveva già ricevuto l’ordine di uccidere quattro persone fra cui lo Z., di guisa che il successivo incontro in carcere fra i due L. (padre e figlio) sarebbe stato privo di efficacia causale in relazione all’ordine di morte concernente lo Z., di cui il collaboratore R. riteneva che il D.C., proprio perchè ormai uscito dal gruppo criminale nel dicembre 1995, non fosse a conoscenza, come d’altronde reputato in altra sentenza della Corte di Assise di Siracusa; inoltre, contro l’attendibilità del D.C. militavano i suoi cattivi rapporti con il figlio del L.; si dilungava, ancora, il ricorso del L. nell’evidenziare che le modalità di trasmissione del mandato da A.C. (all’epoca ristretto in carcere) a B.S. fossero riscontrate dalle dichiarazioni di quest’ultimo, sempre costante nell’escludere qualsivoglia partecipazione del L. alla deliberazione delittuosa, cui nulla aggiungevano le dichiarazioni di altro collaboratore – Le.Pa. -, che si era limitato a rappresentare l’astratta possibilità che anche L.G., in quanto titolare di una posizione di spicco all’interno dell’associazione, potesse dettare un ordine di morte; le discrepanze tra le versioni di A.C. e di B.S. sulla trasmissione dell’ordine di assassinare lo Z., discrepanze messe in luce dall’impugnata sentenza, ben si spiegavano con il decorso di oltre dieci anni dai fatti; infine, ingiustificatamente la gravata pronuncia sminuiva il movente riferibile al solo A.C., consistente nel punire lo Z. per aver seguitato a rifornire di droga suo figlio P., tossicodipendente.

L’ Ar. (che proponeva personalmente il ricorso) lamentava:

1.4. vizio di motivazione nella parte in cui la sua penale responsabilità per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 era stata ricavata dalle chiamate di correo dei collaboratori R.M. e L. nonostante i riscontri negativi costituiti dalla deposizione dell’imputato in procedimento connesso P., da cui – invece – si desumeva che l’ Ar. ignorava la caratura criminale di R.M., nonchè dalle dichiarazioni degli altri collaboratori e/o coimputati sentiti nel corso del processo, nessuno dei quali aveva accostato il nome dell’ Ar. al traffico di sostanze stupefacenti, per altro neppure mai sequestrate; gli stessi tabulati telefonici dimostravano contatti dell’ Ar. con R.M., ma non con i presunti affiliati all’associazione;

1.5. la sentenza era altresì contraddittoria perchè, mentre aveva assolto l’ Ar. dalle rapine di cui ai capi C) e D) della rubrica in quanto le dichiarazioni accusatorie a suo carico formulate da R.L. erano rimaste prive di riscontro ( R. M. si era limitato a riferire di averne appreso dal fratello medesimo), aveva però ritenuto provato che l’ Ar. medesimo si fosse rivolto ai R. per organizzare delle rapine nella consapevolezza dell’esistenza della consorteria dedita al traffico di stupefacenti;

1.6. omessa motivazione sull’attendibilità intrinseca dei collaboranti R., che era stata solo genericamente esaminata da pag. 24 a pag. 27 della sentenza con riferimento alla ritenuta lunga e comprovata qualità della loro collaborazione, testata anche in altri processi;

1.7. mancanza di prova della partecipazione dell’ Ar. alla suddetta associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, a tanto non bastando il mero episodico concorso nella commissione di plurimi delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 cit. eventualmente ispirati da un medesimo disegno criminoso;

1.8. erroneamente era stata riconosciuta l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, che in realtà non risultava nè sotto il profilo metodologico (concernendo reati che per loro natura non richiedevano metodi mafiosi, non essendo diretti ad intimorire persone offese) nè sotto quello finalistico (non si comprendeva in che modo l’ Ar. avrebbe agito per favorire l’associazione mafiosa denominata Aparo – Nardo o il relativo gruppo denominato "Santa Panagia");

1.9. mancato riconoscimento dell’attenuante di cui al combinato disposto del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 e art. 73, comma 5, non incompatibile -contrariamente a quanto ritenuto dall’impugnata sentenza – con un’attività di spaccio continuativa posta in essere in attuazione del programma criminoso associativo;

1.10. le invocate attenuanti dell’art. 62 bis erano state negate per l’attribuzione all’ Ar. di un generico spessore criminale accompagnata dall’asettica considerazione dei reati contestatigli.

Il M. (che proponeva personalmente il ricorso) si doleva:

1.11. della ritenuta intrinseca credibilità dei collaboratori R.M. e L. malgrado l’accertata inimicizia di costoro verso il ricorrente, al punto che il secondo aveva incendiato l’abitazione del Mo.; nè potevano valere a suo carico le dichiarazioni di R.M. – prive di elementi di riscontro – o quelle del D.C., meramente de relato; inoltre vi erano seri motivi per ritenere che le accuse provenienti dai germani R. fossero frutto di pregresse intese fraudolente, visto che L. aveva avuto modo di interagire con M. dopo che costui per primo aveva cominciato la propria collaborazione; ad ogni buon conto le dichiarazioni accusatorie dei R. non erano tali da riscontrarsi fra loro, vista la loro genericità; nè potevano valere come riscontri certi fatti storici (come i precedenti penali del Mo., la sua residenza, la distruzione della sua abitazione a seguito di incendio, i rapporti di parentela più o meno prossima, i periodi di detenzione) inidonei a collegare il fatto-reato al chiamato in correità.

Il C. deduceva:

1.12. non si comprendeva donde l’impugnata sentenza avesse tratto l’esistenza di un’associazione per delinquere riconducibile al paradigma di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, atteso che l’attività di spaccio posta in essere dal C. era permeata soltanto dalla sua stringente esigenza di procurarsi sostanze stupefacenti, essendo egli un tossicodipendente estraneo a qualunque adesione a sodalizi criminali;

1.13. pur nella sua qualità di tossicodipendente, il C. aveva sì detenuto sostanze stupefacenti, ma non vi era prova che, per quanto le avesse poste in vendita, tale vendita si fosse poi concretizzata;

1.14. non era stato applicato l’art. 81 c.p. e la pena era eccessiva.

Il D.C. si doleva:

1.15. della mancata concessione delle attenuanti dell’art. 62 bis c.p., che l’impugnata sentenza aveva negato in forza del carattere prevalente dei gravi precedenti penali del ricorrente, nonostante che per costante giurisprudenza le attenuanti generiche ben potessero concorrere (concernendo diversi presupposti) con la già riconosciuta attenuante del D.L. n. 152 del 1991, art. 8.

Il G. deduceva:

1.16. omessa motivazione sui documenti prodotti dalla difesa, attestanti una pluralità di condanne attestanti un giudicato penale sui periodi contestati e l’ininterrotto stato di detenzione del G. dall’aprile (OMISSIS), vale a dire in un periodo in gran parte coincidente con quello per cui aveva riportato condanna in ordine al capo F2) della rubrica, riferito al periodo (OMISSIS), il che smentiva la chiamata di correo proveniente dai germani R. da cui il G. era stato attinto.

Con successiva memoria egli insisteva nel dolersi della mancata motivazione relativamente alla produzione documentale attestante il proprio stato di detenzione in regime cautelare dal 10.9.95 al 2.10.97. 2.1. – Il motivo che precede sub 1.1. è infondato.

Il combinato disposto dell’art. 16 quater, commi 1 e 3 inserito dalla L. n. 45 del 2001, art. 14 nel D.L. 15 gennaio 1991, n. 8 (convertito, con modificazioni, in L. 15 marzo 1991, n. 82) prevede solo che nel termine di 180 giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare, consacrata nel verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione, il dichiarante dia le notizie in suo possesso sui fatti su cui è interrogato e su altri di maggior allarme sociale di cui sia comunque a conoscenza, ma non prescrive che entro il termine suddetto egli ne fornisca un racconto dettagliato, senza possibilità alcuna di integrazioni e spiegazioni.

Dunque, ben può il collaboratore, anche dopo la scadenza dei 180 giorni, integrare le proprie dichiarazioni, restando circoscritta la sanzione di inutilizzabilità prevista dal cit. art. 16 quater, comma 9, alle sole dichiarazioni che, rese oltre tale termine, portino ad individuare nuovi episodi criminosi o ulteriori soggetti responsabili degli episodi già denunciati (giurisprudenza costante: cfr. Cass. Sez. 2, n. 16619 del 13.3.08, dep. 22.4.08; Cass. Sez. 1, n. 13697 dell’8.3.07, dep. 3.4.07; Cass. Sez. 5, n. 506 del 25.9.06, dep. 12.1.07; Cass. Sez. 2, n. 2964 del 3.12.02, dep. 21.1.03).

Nel caso di specie, gli stessi ricorrenti riconoscono, invece, che fin dal verbale illustrativo della collaborazione, redatto il 13.5.05, il D.C. aveva già indicato A.A. e L.G. come due dei mandanti (insieme con F.A. e A.C.) dell’omicidio Z., di guisa che il dichiarante ben poteva integrare tali notizie con ulteriori chiarimenti (circa l’esatto movente ed altro) anche dopo lo spirare del termine di centottanta giorni.

2.2. – I motivi che precedono sub 1.2. e 1.3., da esaminarsi congiuntamente perchè connessi, sono da disattendersi.

Si premetta che, in forza del fondamentale arret costituito da Cass. Sez. Un. n. 45276 del 30.10.2003, dep. 24.11.2003, anche le chiamate in correità o in reità de relato possono assurgere al rango di piena prova se munite del necessario positivo apprezzamento in ordine all’intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma anche delle persone che hanno fornito le notizie, oltre che dei riscontri individualizzanti ed esterni alla chiamata stessa, riscontri che – come da giurisprudenza ampiamente consolidata – possono essere costituiti anche da altre collimanti chiamate de relato e possono pur provenire dallo stesso imputato od indagato (cfr. Cass. Sez. 1, n. 24249 del 25.2.2004, dep. 27.5.2004; Cass. Sez. 2, n. 4976 del 17.1.97, dep. 20.5.97).

In breve, per pacifico orientamento giurisprudenziale dal quale non vi è motivo di discostarsi, l’attitudine probatoria delle chiamate de relato non viene meno sol perchè la fonte referente è lo stesso soggetto che riveste la qualità di indagato od imputato nel processo o in procedimento connesso.

E se è vero che anche alle chiamate de relato si applicano le disposizioni di cui all’art. 195 c.p.p., nel caso in oggetto i ricorrenti non spiegano in cosa sarebbe consistita la dedotta violazione dell’art. 195 c.p.p., che non stabilisce affatto una prevalenza delle dichiarazioni provenienti dalla fonte referente, ma semplicemente l’obbligo di escutere la fonte medesima a richiesta di parte, sotto comminatoria di inutilizzabilità delle dichiarazioni indirette.

E nella vicenda per cui è processo risulta che oltre alla chiamata de relato proveniente da R.M. sono state acquisite le dichiarazioni della fonte referente L.C..

In ordine – poi – al credito dato al R. rispetto a quanto riferito da L.C., si consideri che si tratta di mera valutazione in punto di fatto delle risultanze processuali.

In proposito l’impugnata sentenza, con motivazione immune da vizi logico-giuridici, ha ritenuto la penale responsabilità di A. A. come uno dei mandanti dell’omicidio Z. in base alle coerenti dichiarazioni del D.C., di R. M. e di D.P.C., oltre che in virtù di quelle di altro collaboratore – Le.Pa. – che ha confermato che nel periodo in cui fu deciso ed eseguito l’omicidio per cui è processo (dicembre 95 – gennaio 96) al vertice del clan malavitoso vi erano i fratelli A. e L.G..

Il D.C. e il R. hanno confermato che il movente dell’omicidio era quello di punire lo Z. perchè si impossessava di denaro che avrebbe dovuto invece versare all’organizzazione e che la decisione a riguardo fu presa dai vertici dell’organizzazione medesima, vale a dire dai fratelli A. e da L.G.. Il D.C. ha dichiarato che fu proprio il suo dissenso rispetto a tale omicidio a provocarne la fuoriuscita dall’associazione.

Per l’esattezza, il R. racconta di essere stato messo al corrente da L.C. (un altro degli esecutori materiali) che il padre G., in presenza di Ap.An., gli aveva impartito l’ordine di uccidere lo Z., mentre il D.C. riferisce di aver appreso direttamente dai fratelli A., approfittando nel dicembre 1995 d’un contatto con loro in occasione di un’udienza che li vedeva imputati di altri reati, dapprima di tenersi pronto a commettere degli omicidi, i cui dettagli avrebbe ricevuto da L.C. dopo che questi avesse avuto un colloquio in carcere con il padre (colloquio che poi risulta effettivamente avvenuto). Infatti, aggiunge poi il D.C. che proprio L.C. gli riferì dell’ordine di uccidere lo Z., cui il D.C. si oppose per ragioni di opportunità, già versando l’organizzazione in difficili frangenti perchè i suoi capi erano in carcere. Sempre il D.C. allega di aver invitato L.C. a rappresentare al padre tali sue perplessità, ricevendone in risposta che, ove non fosse stato d’accordo con quanto già deliberato, poteva anche uscire dall’associazione.

Sempre il D.C. narra di aver visto A.A. in occasione di altra udienza che lo vedeva imputato, apprendendo da lui del risentimento suo e del fratello C., nonchè di L. G., per il rifiuto di eseguire l’ordine.

Ancora il D.C. riferisce di aver in seguito appreso da R.M. (cui era legato da antichi vincoli di amicizia, conoscendosi sin da bambini) che i vertici dell’associazione medesima avevano trasmesso dal carcere l’ordine di punirlo con la morte per tale insubordinazione.

Nuovamente arrestato nel febbraio 1996 (vale a dire il mese successivo a quello dell’omicidio Z.), il D.C., sempre ristretto nel carcere di (OMISSIS), aveva avuto un diverbio proprio con A.A. e L.G., che gli avevano rinfacciato il suo rifiuto di eseguire l’omicidio dello Z..

Dunque, esaminate nel loro complesso, le dichiarazioni del D. C. dimostrano che la sua chiamata in reità nei confronti degli odierni ricorrenti A.A. e L.G. non è de relato, ma – in realtà – deriva da sue cognizioni dirette, quanto meno tratte in occasione del predetto diverbio in carcere con A. A. e L.G..

Ciò smentisce l’assunto del ricorrente L., secondo il quale le accuse mossegli dai collaboranti sarebbero affette da vizio di circolarità in quanto tratte sempre e soltanto da un’unica fonte referente ( L.C.).

Analoghe considerazioni valgano per il D.P., che ha riferito che, nell’approssimarsi della propria scarcerazione (21.12.95), A.A. (con lui detenuto nel carcere di (OMISSIS)) gli ordinò di mettersi a disposizione di B.S. (uno degli esecutori materiali dell’omicidio), il quale poi gli disse di aver ricevuto da A.C. l’ordine di uccidere lo Z..

Anche qui, si tenga presente che – sempre alla stregua di quanto riportato dall’impugnata sentenza – all’epoca della decisione di eliminare lo Z. i fratelli A. e L.G. erano detenuti nello stesso carcere ed erano i capi dell’organizzazione, il che il D.P. riferisce per scienza diretta, circostanza confermata sempre per scienza diretta dal collaboratore L.P. e dallo stesso A.C. che, pur negando il coinvolgimento del fratello A. e di L.G. nell’omicidio per cui è processo, nondimeno ha ammesso che con costoro condivideva il comando dell’associazione criminale.

Tali rilievi, unitamente al fatto che A.A. aveva ordinato al D.P. di mettersi a disposizione del B. (che, poco dopo, lo coinvolse nell’omicidio Z.), dimostrano quale fosse il senso dell’incarico ricevuto dal collaborante (e da lui riferito per cognizione diretta, sia pure in un momento in cui ancora non ne conosceva le esatte implicazioni) nonchè il livello di condivisione dello stesso da parte degli esponenti apicali del sodalizio mafioso.

E’, invece, propriamente de relato la chiamata di correo di R.M. nei confronti di A.A. e L.G., riferendo il collaborante quanto appreso da un altro degli esecutori materiali dell’omicidio, vale a dire L. C., che gli aveva indicato nel padre G. e nei fratelli A. i mandanti del delitto. In particolare, proprio all’uscita di un colloquio avuto in carcere, L.C. disse al R. (che lo attendeva all’uscita) che il padre, alla presenza di A.A., gli aveva impartito l’ordine di uccidere lo Z..

Il descritto colloquio fra padre e figlio e la presenza di A. A. sono stati riscontrati dalle indagini degli inquirenti, che hanno accertato che nei giorni (OMISSIS) (a ridosso, dunque, dell’omicidio dello Z., che risale al 24.1.96) L.C., all’epoca sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, era stato autorizzato dall’autorità di p.s. ad avere dei colloqui con il padre ristretto presso la casa circondariale di (OMISSIS) e che nei giorni 2, 13 e 20 gennaio 1996, vale a dire in due occasioni coincidenti, lo stesso A.A. (anch’egli ristretto nel medesimo carcere) aveva avuto un colloquio con la moglie ( B.M.); per la precisione, il 2.1.96 tali colloqui erano avvenuti nella stessa fascia oraria (12,10 – 13,10), il che collima con quanto riferito da R.M. nel momento in cui ha detto di aver appreso da L.C., all’uscita da un colloquio col padre, dell’ordine di uccidere lo Z. impartito alla presenza di A.A..

Obiettano i ricorrenti che il collaboratore aveva riferito di aver appreso dell’ordine circa 7 o 10 giorni prima della sua esecuzione (avvenuta, giova ricordare, il 26.1.96), ma l’argomentazione svolta dall’impugnata sentenza – che ritiene modesta e non significativa tale imprecisione cronologica, visto il lungo tempo trascorso fra l’episodio e la sua narrazione processuale – non costituisce nè illogicità nè contraddittorietà censurabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Per altro verso, poi, il R. riscontra direttamente le dichiarazioni del D.C., confermando di aver ricevuto l’incarico di eliminarlo proprio per essersi rifiutato di eseguire il mandato relativo allo Z..

In conclusione: A.A. è attinto dalla chiamata in reità diretta del D.C. e del D.P., nonchè da quella indiretta di R.M., mentre L.G. è attinto dalle dichiarazioni (sempre de relato) di quest’ultimo e dalle dichiarazioni dirette del D.C., il tutto in un insieme che i giudici del merito hanno, ancora con motivazione immune da censure, ritenuto coerente e munito di reciproci riscontri.

Ciò vuoi dire che vi sono riscontri individualizzanti a carico di ognuno degli odierni ricorrenti (riscontri che possono consistere, com’è noto, anche nelle dichiarazioni di altro collaboratore) e che non vi è il denunciato vizio di circolarltà della chiamata riguardo al L..

A ciò si aggiunga che i predetti collaboranti hanno riferito circostanze di fatto riscontrate (come i colloqui in carcere all’esito dei quali L.C. aveva ricevuto l’ordine delittuoso dal padre, nonchè l’uso di una pistola 357 precedentemente rubata a tale F. la precedente notte di (OMISSIS); vi sono poi altri riscontri relativi alla materialità del fatto, oggetto di motivazione in prime cure e non di impugnazione in appello) che dimostrano la qualità delle loro cognizioni in ordine non solo all’esecuzione dell’omicidio, ma anche alla provenienza del relativo mandato.

Ancora immuni da critiche sono le considerazioni svolte nella gravata pronuncia in relazione alla concreta possibilità di contatti, in occasioni di udienze, fra imputati detenuti e pubblico (il che, infatti, in seguito determinò il ricorso allo strumento della videoconferenza).

Alla coerente e logica ricostruzione operata dai giudice del merito A.A. e L.G. oppongono le contrarie dichiarazioni di A.C., B.S. e L. C., che invece scagionano i due ricorrenti, nonchè gli asseriti cattivi rapporti del D.C. con il figlio del L..

Va però rilevato che si tratta di censure in fatto che attengono al mero diverso apprezzamento delle prove raccolte in dibattimento, compito – questo – proprio del giudice del merito e non di quello di legittimità.

Ancora involge un apprezzamento di fatto che richiederebbe un approccio diretto agli atti di causa, precluso in sede di legittimità, l’assunto secondo cui da altra sentenza della Corte di Assise di Siracusa risulterebbe che, secondo il R., il D.C., proprio perchè ormai uscito dal gruppo criminale nel dicembre 1995, non fosse a conoscenza del proposito di uccidere lo Z..

Nè può dirsi che l’impugnata sentenza abbia immotivatamente privilegiato le dichiarazioni dei collaboratori rispetto a quelle di A.C., B.S. e L.C.: in particolare, l’inattendibilità del primo è stata diffusamente argomentata dalla Corte territoriale, che ne ha posto in risalto le contraddizioni e le illogicità nel narrato e l’interesse a concentrare su di sè ogni responsabilità in quanto già condannato all’ergastolo per altri delitti; quanto all’asserita volontà di A.C. di punire lo Z. anche perchè vendeva droga al figlio P., si tratta pur sempre di delibazione in punto di fatto che, comunque, non smentirebbe il concorrente movente narrato dai collaboratori.

E’, poi, infondata l’obiezione di L.G. secondo cui, avendo A.A. già dato al D.C. nel dicembre 1995 (come da questi riferito) l’incarico di uccidere quattro persone fra cui lo Z., il successivo incontro in carcere fra i due L. (padre e figlio) sarebbe stato privo di efficacia causale in relazione all’ordine di morte in discorso: a parte il rilievo che la trasmissione dell’ordine da parte di A.A. non esclude la concomitante concorde volontà, già a quel momento, anche di L. G. (desumibile dalle altre considerazioni svolte dalla gravata pronuncia), basti considerare che pur soltanto il rafforzare l’altrui proposito criminoso (quanto meno nel corso del colloquio avuto con il figlio C.) comporta la responsabilità a titolo di concorso morale nel delitto.

2.3. – Il motivo che precede sub 1.4., relativo al ricorso dell’ Ar., si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), perchè in sostanza si limita a sollecitare una diversa delibazione in punto di fatto delle dichiarazioni dei R., che – contrariamente a quanto si legge nell’atto di impugnazione – non soffrono del riscontro negativo della deposizione del P., che – anzi – conferma i rapporti fra il ricorrente e i R., le cui dichiarazioni sono state altresì riscontrate dai tabulati telefonici attestanti i contatti fra l’ Ar. e i R., oltre che dalle indagini di p.g. trasfuse nella deposizione del teste isp. G..

2.4. – Il motivo che precede sub 1.5. è infondato.

E’ pur vero che il passaggio che si legge a pag. 64 dell’impugnata sentenza, laddove si parla della richiesta di appoggio logistico rivolta dall’ Ar. al R. per delle rapine in banca, può sembrare in contraddizione con l’assoluzione dell’ Ar. medesimo da tali delitti per mancanza di riscontri alla chiamata in reità proveniente da R.L. (tale non potendo essere quella formulata da suo fratello M., non autonoma in quanto derivante proprio da quel che L. gli aveva riferito):

tuttavia, la prova di resistenza conferma la sufficienza – ai fini della statuita responsabilità dell’ Ar. per i delitti ascrittigli ai capi F1) e F2) dell’epigrafe – delle altre autonome dichiarazioni dei R. concernenti il traffico di stupefacenti, fra loro riscontrate e a loro volta riscontrate dai tabulati telefonici. In questa ottica, il richiamo operato dalla Corte territoriale all’appoggio logistico chiesto dall’ Ar. per delle rapine in banca costituisce un passaggio non decisivo nell’attribuzione all’ Ar. medesimo della consapevolezza dell’appartenenza dei R. ad un più ampio gruppo criminale dedito al traffico di sostanze stupefacenti, consapevolezza desunta dalla continuità e quantità dei relativi rifornimenti e dal rilievo che l’ Ar., tramite il P., ben conosceva R.M. fin dall’epoca in cui entrambi erano stati in carcere.

L’assunto secondo cui – invece – dalla deposizione del P. sarebbe emerso che l’ Ar. non aveva consapevolezza della caratura criminale del R. integra, in realtà, un mero invito affinchè si proceda ad un nuovo esame degli atti (non consentito in questa sede).

Tale doglianza non può intendersi neppure come rituale denuncia di travisamento della prova. Va, infatti, ricordato che nel dedurre un travisamento della prova la parte deve necessariamente trascriverla od allegarne in copia il documento in cui essa è consacrata (il che non è avvenuto nel caso di specie), evidenziando altresì l’esatto passaggio in cui si annida il vizio: diversamente, il ricorso non è autosufficiente (cfr., da ultimo, Cass. Sez. F n. 32362 del 19.8.10, dep. 26.8.10).

2.5. – Il motivo che precede sub 1.6. è manifestamente infondato, atteso che la credibilità intrinseca dei R. era stata già diffusamente vagliata dalla sentenza di primo grado (sul punto espressamente richiamata dalla Corte territoriale) e che l’appello dell’ Ar. non aveva investito tale specifico profilo.

2.6. – Il motivo che precede sub 1.7. è infondato.

Premesso che, quanto alla condanna dell’ Ar. per i delitti rubricati ai capi F1) e F2), si è in presenza di una doppia pronuncia di merito conforme, sicchè le motivazioni delle due pronunce vanno ad integrarsi reciprocamente, saldandosi in un unico complesso argomentativo (cfr. Cass. Sez. 2, n. 5606 del 10.1.2007, dep. 8.2.2007; Cass. Sez. 1, n. 8868 del 26.6.2000, dep. 8.8.2000, nonchè numerosissime altre), si consideri che la affectio societatis ben può desumersi dalla ricostruzione della rete dei rapporti personali, dei contatti, delle cointeressenze e delle frequentazioni all’interno dell’associazione per delinquere (cfr., ad es., Cass. Sez. 1, n. 5466 del 18.4.95, dep. 12.5.95).

Nel caso di specie l’ Ar. non nega gli stabili rapporti con i R. nella commissione di singoli illeciti traffici di stupefacenti, ma lamenta che essi non basterebbero a provare il dolo proprio del reato associativo; ma in contrario deve osservarsi che l’impugnata sentenza ha posto in rilievo, come sopra ricordato, la consapevolezza dell’ Ar. di avere a che fare con esponenti di un più ampio sodalizio criminale.

Nè l’essere il rapporto dell’ Ar. limitato a due soli componenti dell’associazione (i R., appunto) ne esclude la partecipazione ad essa, noto essendo nella giurisprudenza di questa S.C. che a tal fine non è necessaria la prova di un contatto con tutti o con molti dei correi e che il vincolo associativo può – anzi – ravvisarsi anche tra soggetti che si pongono in posizioni contrattuali contrapposte nella catena del traffico di stupefacenti, come i fornitori all’ingrosso e i compratori dediti alla distribuzione, che – proprio perchè in tali posizioni – per lo più non hanno contatti con altri esponenti dell’associazione (cfr. Cass. Sez. 6, n. 37116 del 28.9.07, dep. 8.10.07).

2.7. – Merita, invece, accoglimento la doglianza che precede sub 1.8.

La sentenza di primo grado aveva riconosciuto l’aggravante dell’art. 7 cit. sotto il profilo finalistico, sul presupposto di una precedente sentenza passata in giudicato (Corte di Assise di Siracusa del 20.1.03) che aveva accertato l’esistenza dell’associazione ex art. 74 e il fatto che a partire dal 1997 i suoi proventi erano riversati – per pagare i detenuti – al clan mafioso all’epoca retto da S.B..

In appello l’ Ar. aveva negato la sussistenza di tale aggravante, ma se in ordine al suo aspetto finalistico (come accertato dai giudici di prime cure) nulla di particolare aveva opposto, aveva tuttavia negato che ricorressero gli estremi del dolo specifico.

Su tale doglianza la Corte territoriale non ha motivato, nonostante che la giurisprudenza di questa S.C. abbia già avuto modo di chiarire che in tema di agevolazione dell’attività di un’associazione di tipo mafioso l’aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7 richiede per la sua configurazione il dolo specifico di agevolare l’associazione medesima in modo che la condotta sia diretta a ledere l’ulteriore interesse protetto dall’aggravante (cfr., ad es., Cass. Sez. 6, n. 11008 del 7.2.2001, dep. 21.3.2001).

Stante il difetto di motivazione sul punto si impone l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata relativamente ad Ar.

G. e limitatamente al profilo del dolo specifico inerente alla contestata aggravante ex art. 7 cit..

2.8. – La censura che precede sub 1.9. è infondata poichè la gravata pronuncia non ha negato l’attenuante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 per una sua presunta incompatibilità in linea di principio con una continuativa attività di spaccio posta in essere in attuazione del programma criminoso associativo, ma l’ha esclusa perchè, nel caso di specie, le sostanze stupefacenti trattate erano notevoli per quantità e qualità (eroina e cocaina, come contestato in rubrica).

2.9 – Il motivo che precede sub 1.10. è generico, poichè a fronte della motivazione adottata dalla Corte territoriale per negare le attenuanti dell’art. 62 bis c.p. (lo spessore criminale dell’ Ar.) il ricorso non allega neppure quali sarebbero stati, invece, gli elementi di fatto trascurati dai giudici del merito che, alla luce di altri fra i parametri dell’art. 133 c.p., avrebbero giustificato un più mite trattamento sanzionatorio.

2.10. – Il motivo che precede sub 1.11. (in cui si sostanzia il ricorso di Mo.Se.) è meramente ripetitivo delle doglianze mosse con l’atto d’appello, cui l’impugnata sentenza ha adeguatamente risposto rimarcando le dichiarazioni accusatorie dei R., che non avevano negato i pregressi motivi di rancore che avevano indotto R.L. ad incendiare la porta dell’abitazione di Mo. Sebastiano proprio perchè questi (che insieme al fratello V., non ricorrente, fungeva da pusher per conto dei R.) non gli aveva pagato alcune partite di droga; in seguito i rapporti fra i due si erano normalizzati.

Come ben si vede, dunque, proprio il motivo del pregresso rancore verso il ricorrente ammesso da R.L., lungi dallo smentire i collaboratori, conferma l’attività di spaccio svolta da M.S..

Del tutto generica e non autosufficiente (perchè non indica neppure il documento o l’atto processuale su cui si fonda) è, poi, la doglianza con cui il ricorrente afferma che i germani R. avrebbero avuto modo di interagire fra loro e di concordare fraudolentemente le proprie accuse.

2.11. – Il motivo che precede sub 1.12. (il primo fatto valere dal C.) è inammissibile per difetto di interesse, essendo stato il ricorrente già assolto in appello dal delitto associativo ascrittogli al capo F1).

2.12. – Il motivo che precede sub 1.13. è manifestamente infondato, atteso che il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 è un reato a consumazione anticipata laddove punisce anche soltanto la mera messa in vendita di sostanze stupefacenti, irrilevante essendo che essa si sia poi concretizzata (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 1 n. 29670 del 25.3.10, dep. 28.7.10; Cass. Sez. 4, n. 44621 del 10.3.05, dep. 7.12.05; Cass. Sez. 6, n. 5954 del 16.3.98, dep. 20.5.98).

In udienza la difesa del C. ha negato l’esistenza degli estremi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 cit., a suo avviso potendosi ravvisare quelli del comma 5 (fatto di lieve entità), ma le chiamate di correo a suo carico operate dai germani R. oltre che dal D.C. e dal D.P. sono state – sempre con motivazione immune da vizi logici e/o giuridici – ritenute dai giudici del merito tali da non lasciare adito a dubbi circa l’attività di spacciatore svolta dal C.. Tali dichiarazioni accusatorie risultano reciprocamente riscontrate – sempre alla stregua di quanto accertato in sede di merito – nonchè dalle indagini dell’isp. di polizia G., che in dibattimento ha riferito dei prolungati rapporti del C. con R.M. nell’attività di spaccio di stupefacenti (eroina), di cui il ricorrente non era semplice assuntore. Sempre l’impugnata sentenza ha motivatamente escluso l’applicabilità dell’art. 73, comma 5 in base alla consistenza e alla reiterazione della condotta illecita e ai gravi e numerosi precedenti penali dell’imputato, rilievi rispetto ai quali nulla di concreto ha opposto l’odierno ricorrente se non l’insistere nella propria qualità di tossicodipendente.

2.13. – Il motivo che precede sub 1.14. è generico perchè non chiarisce per quale ragione la pena sarebbe eccessiva. Nel richiamare – poi – una pretesa mancata applicazione dell’art. 81 c.p. trascura che, in realtà, è stata già riconosciuta la continuazione interna dei plurimi episodi di spaccio ascritti al C..

2.14. – Il ricorso del D.C., consistente nel solo motivo che precede sub 1.15., è inammissibile perchè, nel dolersi della mancata concessione delle attenuanti dell’art. 62 bis c.p. (negategli per i gravi precedenti penali e non già per una presunta incompatibilità con la già riconosciutagli attenuante del D.L. n. 152 del 1991, art. 8) non chiarisce le ragioni che, ignorate dalla Corte territoriale, a suo avviso sarebbero state tali da renderlo meritevole di un più mite trattamento sanzionatorio.

2.15. – Del pari inammissibile è il ricorso del G., integrato dalla sola censura che precede sub 1.16.

Invero, a pag. 86 dell’impugnata sentenza la Corte territoriale da espressamente atto che non risulta prodotta alcuna sentenza di condanna per episodi di spaccio di sostanze stupefacenti collocati nell’arco di tempo coperto dalla condanna per cui oggi è processo (marzo – novembre 1998, come ritenuto in primo grado e confermato in appello).

A tale rilievo dei giudici del gravame l’odierno ricorrente non oppone alcunchè se non la mera generica reiterazione dell’eccezione di giudicato, così esponendosi il suo ricorso alla sanzione prevista in caso di mancata specificazione del motivo in violazione dell’art. 581 c.p.p., lett. c), che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità (cfr. Cass. n. 19951 del 15.5.2008, dep. 19.5.2008; Cass. n. 39598 del 30.9.2004, dep. 11.10.2004; Cass. n. 5191 del 29.3.2000, dep. 3.5.2000; Cass. n. 256 del 18.9.1997, dep. 13.1.1998).

Nè gioverebbe al ricorrente qualificare la doglianza come implicita deduzione di travisamento della prova: anche a tale riguardo valga quanto sopra ricordato in termini di difetto di autosufficienza del ricorso.

Quanto alla mancata motivazione in ordine all’ininterrotto stato di detenzione che il G. deduce di aver sofferto dall’aprile 1998 al giugno 1999, è appena il caso di rilevare che nell’atto d’appello si parla – invece – di detenzione del G. dal 1995 fino all’ottobre 1997 (circostanza ribadita nella memoria depositata dal G. nelle more di fissazione dell’odierna udienza) e dal 3.11.98 al 4.12.2000, dunque di due distinti periodi, uno precedente e uno successivo a quello per cui ha riportato condanna (marzo – novembre 1998, come ritenuto in primo grado e confermato in appello).

3.1 – In conclusione, deve annullarsi con rinvio la sentenza impugnata relativamente ad Ar.Gi. limitatamente alla contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, con ordine di trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Catania per nuovo giudizio sul punto, nel resto rigettandosi il ricorso e dichiarandosi ex art. 624 c.p.p. il passaggio in giudicato della sentenza in punto di accertamento della penale responsabilità dell’ Ar. (salvo che – appunto – per l’aggravante di cui all’art. 7 cit., sulla quale dovrà pronunciarsi il giudice del rinvio).

Vanno rigettati in loto i ricorsi di A.A. e L. G. e dichiarati inammissibili quelli di M.S., C.R., D.C.A. e G.F..

Ex art. 616 c.p.p. consegue la condanna di tutti i ricorrenti – ad eccezione dell’ Ar. – al pagamento delle spese processuali e dei soli M., C., D.C. e G. anche al versamento di Euro 1.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende, somma così quantificata alla luce dei profili di colpa ravvisati nelle impugnazioni, secondo i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186/2000.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Seconda Penale, annulla con rinvio la sentenza impugnata relativamente ad Ar.Gi. limitatamente alla contestata aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203 del 191 e dispone trasmettersi gli atti ad altra sezione della Corte di Assise di Appello di Catania per nuovo giudizio sul punto.

Rigetta nel resto il ricorso dell’ Ar..

Rigetta i ricorsi di A.A. e L.G. e dichiara inammissibili i ricorsi di M.S., C. R., D.C.A. e G.F..

Condanna tutti i ricorrenti, a eccezione di A.G., al pagamento delle spese processuali e i soli M., G., D. C. e C. anche al versamento di Euro 1.000,00 ciascuno alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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