Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 10-02-2011) 04-04-2011, n. 13532 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1 – F.S. ricorre contro sentenza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria, che ne ha confermato la condanna ad a. 10 e m. 8 di reclusione della Corte di assise di Palmi, per il delitto di cui all’art. 600 c.p., e L. n. 575 del 1965, art. 7, ai danni di due cittadini rumeni che, secondo l’imputazione, aveva posto in condizioni analoghe alla schiavitù sino al (OMISSIS), lui sottoposto a misura definitiva di prevenzione per mafia.

La sentenza di primo grado ha ricostruito che N.V. era venuto in Italia a fine (OMISSIS) e A.J. nella terza decade di (OMISSIS). Il fratello di A., P., si era fatto intermediario di entrambi per lavoro presso i F.. La paga sarebbe stata di circa Euro 500 mensili. Ma gl’immigrati erano stati sfruttati nelle loro prestazioni, in quanto richiesti di pastorizia e cura di 200 bovini dalle 4 – 5 del mattino alle 21 – 22 della sera mentre erano alloggiati in una baracca inidonea ad assicurarne i bisogni elementari, con rischio per la loro salute e senza ottenere la paga promessa, per sè esigua.

La Corte di Reggio ha bensì convenuto con le deduzioni d’appello che gli offesi erano muniti di permesso di soggiorno, all’epoca richiesto per i cittadini rumeni, sicchè non erano clandestini, che erano perciò anche liberi di spostarsi nel territorio italiano e comunque dal luogo di lavoro ed infine che non risultavano sottoposti a minacce o coercizioni fisiche.

Ma, alla luce di giurisprudenza (Cass., Sez. 3^, n. 2841/06 e 13734/09) intorno all’art. 600 c.p., innovato nel 2003, ha ritenuto che, date le condizioni di lavoro, l’alloggio incongruo ed il mancato pagamento di retribuzione, significativi del profittamento delle condizioni di necessità di persone prive di alternativa, vi erano gli estremi di reato.

Contro la sentenza risultano presentati due atti di ricorso, uno a firma degli Avv. A. Rania e prof. G. Aricò nominati all’uopo e l’altro dell’Avv. G. Milicia, già difensore.

In sintesi si denuncia violazione di legge penale. La sentenza si rifà incongruamente alla giurisprudenza citata, travisando anzitutto la continuità normativa della previsione dell’art. 600. Quindi, ammessa la fondatezza di specifiche adduzioni dell’appello, avrebbe dovuto qualificare il fatto quale violazione della normativa sull’impiego di manodopera straniera, autonomamente sanzionata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, come ritenuto dal Tribunale di riesame. Si denuncia altresì vizio di motivazione per il travisamento di altre prove.

2 – Il ricorso è fondato.

Giova riflettere che la "condizione analoga alla schiavitù" risale al diritto giustinianeo, che riferiva il concetto alla "servitù della gleba", cui erano soggetti i lavoratori agricoli dei latifondi dell’impero bizantino, incapaci di sottrarsi alla loro condizione. Ad esso si rifaceva il Codice positivista, perciò limitandosi ad una previsione alternativa sintetica, la cui specificazione di contenuto era offerta da norme internazionali, fatte proprie dallo Stato italiano nel 1926. A tali norme internazionali sono seguite quelle della Convenzione supplementare di Ginevra del 7.9.56, resa esecutiva con L. n. 1304 del 1957, ed infine l’art. 4 CEDU (cfr. Cass., Sez. 5^, n. 18072/10, CED rv, 247148), cui si è adeguata la novella del Codice. La L n. 228 del 2003, art. 1, ha modificato l’art. 600 c.p., offrendo in effetti con la sua specificazione una interpretazione autentica della locuzione "condizione analoga alla schiavitù", che non risulta per nulla discorde dalla giurisprudenza formatosi intorno alla lettera previgente.

La nuova giurisprudenza, citata in sentenza, ha difatti solo dato corpo casistico ai caratteri differenziali delle singole condotte confluenti nella riduzione in stato di soggezione delle persone private di fatto delle libertà fondamentali, esclusa l’attribuzione categorica della schiavitù, oggi giuridicamente irriconoscibile in qualsiasi ordinamento.

L’evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consiste comunque nella privazione della libertà individuale cagionata con minaccia, violenza, inganno o profittando di una situazione di, inferiorità psichica o fisica o di necessità.

Pertanto, nel caso dello sfruttamento delle prestazioni altrui, la condotta criminosa non si ravvisa per sè nell’offerta di lavoro implicante gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, poi neanche versato, sol che la persona si determini liberamente ad accettarla, ma può sottrarvisi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue.

In ogni caso Sa condizione sussiste se si impedisce alla persona di determinarsi liberamente nelle sue scelte esistenziali, per via o in costanza di una situazione di soggezione.

Su questa premessa, il fenomeno risulta frequentemente connesso all’immigrazione clandestina, pilotata da organizzazioni di mafia. Ma clandestinità e mafia hanno mera valenza indiziaria, potendo il reato essere commesso da chiunque a danno di chicchessia.

Nella specie l’accentuazione indiziaria dell’imputazione, sotto entrambi i profili di immigrazione clandestina degli offesi e mafiosità dell’offensore, ha condotto ad erronea applicazione di legge già nella sentenza di primo grado, che ha travisato che i due offesi non erano clandestini, nè sono stati privati di libertà già di determinarsi, per mafia.

Pur tanto riconoscendo, la sentenza di appello travisa che la caratura delinquenziale dell’imputato, cui non rapporta modalità della condotta in termini costrittivi nei caso di specie, non risulta affatto decisiva. Ciò è tanto vero che ha specularmente rilevato che i due rumeni si sono sottratti, senza dover far ricorso ad espedienti o sotterfugi, alle denunciate condizioni di disagio, all’evidenza correlate alla stessa oggettiva consistenza del lavoro di pastorizia nella zona, ancor prima che decorresse un mese di lavoro di ciascuno, per cui persino l’argomento che il compenso pattuito (sia pure incongruo) non fosse stato versato risulta fine a se stesso per quanto interessa l’art. 600 c.p.. Insomma, non risultando acquisizioni che dimostrino obiettivamente la costrizione imputata al ricorrente, ha combinato le condizioni di lavoro ed ambientali dei soggetti passivi con una presunzione legata alle qualità soggettive dell’imputato, confondendo fenomeni distintamente sanzionati.

In particolare la legge prevede diritti per chiunque presti lavoro nel territorio, chiunque ne sia datore, quindi sanzioni progressive (a partire dalla norma menzionata nel ricorso, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 5, in caso di immigrati clandestini, diverso da quello in esame), a tutela di principi fondamentali in materia in qualsiasi parte del territorio nazionale.

Alla luce dell’art. 129 c.p.p., va dichiarata pertanto allo statola causa di non punibilità.

Ma va sottolineato nel contempo che l’applicazione erronea dell’art. 600 c.p., per accentuazione incongrua di dati in concreto non decisivi per la dimostrazione degli estremi di reato, connessi ad altrimenti pur rilevanti condizioni ambientali e soggettive rischia di offrire paradossale spinta all’inosservanza delle leggi attuative dell’art. 36 Cost..

Tali leggi pongono oneri a chi offre lavoro agli stranieri che si dispongano a prestarlo in ogni parte dei territorio, per evitare che lo rendano in condizioni incompatibili con la dignità delle persone;

perciò inaccettate dai cittadini, ai quali la prassi adottata con gli stranieri produce danno inverso.
P.Q.M.

annulla senza rinvio l’impugnata sentenza perchè il fatto non sussiste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *