Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-06-2011, n. 14286 Contratto di formazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza impugnata, ha disposto la conversione del contratto di formazione e lavoro stipulato tra le parti in contratto di lavoro a tempo indeterminato, con la condanna della società Autostradale srl a riammettere il ricorrente in servizio quale dipendente di sesto livello ed a corrispondergli la retribuzione corrispondente a tale livello dalla data di notifica del ricorso giudiziale. A tale conclusione, il giudice d’appello è pervenuto ritenendo che il lavoratore non avesse ricevuto la formazione prevista dalla legge ( L. n. 451 del 1994, art. 16di conv. del D.L. n. 299 del 1994), nè sotto il profilo teorico (avendo partecipato a un corso di formazione di 60 ore in luogo delle 80 ore previste dalla legge), nè sotto il profilo pratico (avendo ricevuto da un collega più anziano, durante il turno di lavoro normale, istruzioni non dissimili da quelle che avrebbe ricevuto qualsiasi altro lavoratore nuovo assunto).

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la società Autostradale srl affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso V.S.. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

1 – Con il primo motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 451 del 1994, art. 16, L. n. 407 del 1990, art. 8, comma 7, L. n. 863 del 1984, art. 3, comma 9, formulando un quesito di diritto con cui si chiede se "in base al combinato disposto" delle norme sopra citate debba escludersi la configurabilità di un inadempimento tale da determinare la conversione del contratto di formazione e lavoro in contratto di lavoro a tempo indeterminato "quando la formazione ricevuta dal dipendente non corrisponda all’esatto numero di ore previste dalla L. n. 451 del 1994 citata, art. 16, ma il dipendente abbia comunque acquisito la formazione prevista". 2.- Con il secondo motivo la ricorrente deduce l’esistenza di un vizio di motivazione in ordine alla ritenuta esistenza di un inadempimento del datore di lavoro talmente grave da determinare la conversione del rapporto di cui trattasi in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

3.- Il ricorso deve essere rigettato.

Va premesso che, in tema di adempimento degli obblighi formativi previsti dal contratto di formazione lavoro, la giurisprudenza ha riconosciuto che l’attività formativa è bensì modulabile in relazione alla natura e alle caratteristiche delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere, potendo assumere maggiore o minore rilievo a seconda che si tratti di lavoro di elevata professionalità o di semplici prestazioni di mera esecuzione, ma ha pure affermato che, in ogni caso, l’addestramento pratico proprio di un contratto di formazione e lavoro non può identificarsi con la fase iniziale di un normale rapporto di lavoro a tempo indeterminato e che l’attività formativa deve essere adeguata alla specifica professionalità richiesta, non potendo l’obbligo formativo ritenersi adempiuto con il solo affiancamento del giovane a lavoratori più anziani e nello scambio di esperienza tra questi ed il lavoratore in formazione (Cass. n. 14097/2006). L’inosservanza degli obblighi formativi da parte del datore di lavoro è specificamente sanzionata dalla norma di cui alla L. n. 863 del 1984, art. 3, comma 9, di conversione del D.L. n. 726 del 1984, secondo cui il contratto si considera a tempo indeterminato ab origine in caso di mancata erogazione della formazione. La trasformazione del contratto in rapporto a tempo indeterminato viene riconosciuta quando l’inosservanza degli obblighi formativi riveste un’obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione teorica e pratica, ovvero in un’attività carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione, e così in tutti i casi di inosservanza degli obblighi formativi che non siano di scarsa importanza e che non siano comunque tali da poter essere sanati in tempo utile attraverso la formazione del giovane nel tempo stabilito dal contratto (cfr. ex plurimis, Cass. n. 14465/2006, Cass. n. 2247/2006). La valutazione circa l’importanza dell’inadempimento degli obblighi formativi spetta al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se congruamente motivata. Il giudice deve valutare, in base ai principi generali, la gravità dell’inadempimento giungendo alla declaratoria della trasformazione del contratto nei casi di inosservanza degli obblighi formativi di non scarsa entità (cfr. Cass. n. 2247/2006, cui adde Cass. n. 9294/2011).

4.- Ciò premesso, passando ora all’esame dei motivi di ricorso, va rilevato anzitutto che il primo motivo deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010).

Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo in conferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito o in modo tale da richiedere alla S.C. un inammissibile accertamento di fatto o, infine, sia formulato in modo del tutto generico (Cass. sez. unite n. 20360/2007). Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione ( art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione". Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

5.- Nella specie, il quesito formulato dalla ricorrente a chiusura del primo motivo, oltre a non individuare chiaramente il principio di diritto posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato, fa riferimento ad un accertamento di fatto (ovvero alla circostanza che il dipendente, pur non avendo ricevuto una formazione pari al numero di ore previsto dalla L. n. 451 del 1994, art. 16 "abbia comunque acquisito la formazione prevista") che non trova riscontro nella sentenza impugnata e che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge in quanto esterno all’esatta interpretazione della legge ed integrante una tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, esclusivamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n. 9908/2010; Cass. n. 8730/2010, Cass. n. 11094/2009).

6.- Quanto alle censure espresse con il secondo motivo, anche a prescindere dalla considerazione che le dedotte carenze motivazionali non appaiono sufficientemente individuate e precisate nel senso che si è sopra indicato, ovvero mediante la necessaria indicazione del fatto controverso in una parte del motivo che costituisca un momento di sintesi del complesso degli argomenti critici sviluppati nell’illustrazione dello stesso motivo, va rilevato che le argomentazioni della società ricorrente non appaiono idonee ad inficiare la validità dell’impianto motivazionale della sentenza impugnata, risolvendosi, in definitiva, nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento alla gravità delle carenze dell’attività formativa, sia sotto il profilo della formazione teorica sia sotto il profilo dell’addestramento pratico, limitato, quest’ultimo, alle istruzioni ricevute dal V. da parte di un collega più anziano nello svolgimento della propria attività lavorativa (in contrasto con quanto previsto al D.L. n. 299 del 1994, art. 16, comma 5, conv. in L. n. 451 del 1994, secondo cui le ore di formazione vanno effettuate "in luogo della prestazione lavorativa").

Si tratta, dunque, di una valutazione di fatto, che, per essere adeguatamente motivata, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici in precedenza enunciati, non è assoggettabile alle censure che le sono state mosse in questa sede di legittimità.

Al riguardo, va rimarcato che, come è stato più volte affermato da questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Ciò comporta che il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata debba giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito, ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da risultare sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre, dunque, soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorchè il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009, Cass. n. 17477/2007, Cass. n. 15489/2007, Cass. n. 7065/2007, Cass. n. 1754/2007, Cass. n. 14972/2006, Cass. n. 17145/2006, Cass. n. 12362/2006, Cass. n. 24589/2005, Cass. n. 16087/2003, Cass. n. 7058/2003, Cass. n. 5434/2003, Cass. n. 13045/97, Cass. n. 3205/95).

7.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la conferma della sentenza impugnata.

8.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 25,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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