Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13-12-2010) 05-04-2011, n. 13644

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

rraboschi per A.; Anastasio e Rotondi per C..
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione A.M.G. e C. A. avverso la sentenza della Corte di assise di appello di Bologna del 4 novembre 2009, con la quale è stata confermata quella di primo grado, di integrale condanna, nei confronti della C. mentre è stata parzialmente riformata la stessa sentenza emessa dalla Corte di assise nei riguardi dell’ A. il quale ha visto escludere la circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà verso la persona, con la conseguenza della eliminazione anche dell’isolamento diurno infittogli.

Gli imputati sono stati chiamati a rispondere di avere, in concorso tra loro e con R.S. e B.P. – nei confronti dei quali si è proceduto separatamente con rito abbreviato, essendo, poi, il B. assolto – sequestrato a fine di estorsione il piccolo O.T., bambino di diciotto mesi, fatto commesso il (OMISSIS).

L’azione materiale del sequestro di persona era stata posta in essere, secondo la ipotesi accusatoria, da R.S. e da A. i quali, con il volto travisato da passamontagna, si introducevano poco dopo le 19 e 30, nel casolare di campagna ove abitava la famiglia O. e, simulando dapprima una rapina, immobilizzavano i coniugi con nastro adesivo per pacchi, portando poi via il bambino che si trovava seduto nel seggiolone e scappando in sella ad uno scooter.

L’ A. si posizionava sul posto del passeggero nascondendo il bambino sotto gli abiti. La C. aveva, ancora secondo la accusa, il ruolo di andare a prelevare, con un’auto, l’ A. e il bambino dopo che il R. si era allontanato.

Di fatto, l’azione come preordinata non andava secondo i piani, in quanto l’ A., preso dal panico a causa dell’incontro di una volante della Polizia di Stato con i lampeggianti accesi, si appartava in una stradina secondaria e poneva fine alla breve vita del bambino soffocandolo o strozzandolo.

Per tale ragione all’ A. veniva contestata ed addebitata la ipotesi dell’art. 630 c.p., comma 3 che punisce la causazione dolosa della morte dell’ostaggio mentre a C. era contestata ed addebitata la ipotesi del comma 2, stesso articolo che punisce invece la causazione della morte a titolo di colpa.

Ad A. venivano contestati anche l’occultamento del corpicino, il porto abusivo di coltello e il furto del cane degli O., perpetrato al fine di evitare un possibile ostacolo al perfezionamento del più grave reato in via di esecuzione.

In considerazione di tali imputazioni, l’ A. era stato condannato, in primo grado, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno e la C. alla pena d trenta anni di reclusione, oltre ad essere entrambi destinatari delle ulteriori determinazioni di legge.

Le indagini prontamente avviate avevano portato alla luce una serie di rapporti e contatti degli O. con alcune persone che avevano effettuato lavori di ristrutturazione del loro casolare fino alla fine del 2005 ( B., A., R. oltre alla C., convivente dell’ A.) scoprendosi che costoro avevano utilizzato, in telefonate prossime al sequestro, anche schede telefoniche intestate a persona inesistenti.

Il raccordo preciso con uno di essi, ai fini delle indagini, avveniva con l’accertamento che sul nastro adesivo utilizzato per immobilizzare gli O. vi era una impronta digitale di R. S..

Il R., sottoposto già il 1 aprile a misura cautelare al pari di A. e C., ammetteva la propria partecipazione al sequestro, chiamando in reità A. e C. ma negando ogni responsabilità in ordine alla uccisione del bambino.

Subito dopo anche A. confessava il proprio coinvolgimento nel sequestro ma addebitava al R. la uccisione del piccolo T., che egli aveva solo contribuito a seppellire, ed escludeva qualsiasi partecipazione al fatto della propria convivente.

Il corpo del bimbo veniva trovato sepolto in una zona detta (OMISSIS), a margine di una viuzza che si dipartiva da via del (OMISSIS), utilizzata come discarica abusiva e frequentata da prostitute. Il piccolo risultava morto per asfissia e presentava anche la frattura delle ossa mandibolari, non tale però da averne cagionato il decesso.

Il racconto del R. vedeva l’ A. quale organizzatore e promotore del delitto che avrebbe dovuto fruttare cinque milioni di Euro a titolo di riscatto. La C. veni va descritta come partecipe alla fase organizzativa progettuale, confezionando anche i passamontagna con la propria macchina da cucire, fase comprensiva della perlustrazione della zona di montagna ove la C. avrebbe dovuto provvedere a custodire l’ostaggio.

Ancora il R. aveva ricostruito le fasi salienti del sequestro e la fuga con l’ostaggio in sella allo scooter fino alla via del (OMISSIS) in 10-15 minuti, senza imprevisti di sorta. Ivi giunti egli aveva telefonato alla C., come da precedenti accordi, per dirle che il marito era pronto, tentando poi, inutilmente una seconda chiamata. A quel punto si era allontanato per andare ad eliminare le tracce del reato (abiti da bruciare, pistola, coltello e nastro adesivo da gettare nel Po). Soltanto il giorno dopo aveva appreso dall’ A. che le cose non erano andate come si era previsto e che questi aveva soffocato il bambino. Inoltre l’ A. gli aveva detto che la sua compagna non sapeva come fosse morto il piccolo T., chiedendogli di confermarle che si era trattato di un incidente. Aveva poi visto la donna profondamente adirata e qualche giorno dopo l’aveva nuovamente incontrata per ricevere certi documenti apprendendo dalla C., in quella occasione, che essa aveva compreso quanto era accaduto, manifestando preoccupazione anche per sè.

Invece, come detto, il racconto dell’ A., nelle immediatezze della propria cattura, era stato diverso.

Egli attribuiva al R. il ruolo di promotore e organizzatore, indicando in R.G., suo fratello, colui che avrebbe dovuto ricevere l’ostaggio dopo il sequestro, nell’area di un distributore di benzina, per poi consegnarlo a qualcuna delle proprie congiunte. L’ A. riferiva che egli avrebbe dovuto uscire di scena dopo il sequestro, venendo lasciato a (OMISSIS), mentre la fase susseguente avrebbe dovuto essere curata da R., coadiuvato come detto dal fratello e da B.P. che aveva messo a disposizione un alloggio.

Le cose non erano andate però come previsto, poichè c’era stato il timore di essere seguiti, poi il pericolo di uno scontro frontale ed infine l’avvistamento di un’auto della Polizia. Per questo R. aveva saltato il bar di (OMISSIS) e alfine, aveva imboccato una stradina sterrata.

Secondo il racconto dell’ A., il R. aveva deciso di sbarazzarsi del bambino e lo aveva visto allontanarsi. Poi aveva appreso da quello che era "soffocato" ma lo aveva visto colpire con una vanghetta il bambino vicino alla gola. Alfine decise di aiutare il R. a seppellire il bambino non dopo avere controllato il traffico. Aggiungeva che poi si erano allontanati sostando per disfarsi dei vestiti. Il R. gli aveva detto di avere avvisato la C. affinchè lo andasse a prelevare.

La C., sarta di mestiere, negava qualsiasi compromissione e negava anche di avere ricevuto, la sera dei fatti, qualsiasi telefonata da R.. Sosteneva solo di essere andata a prelevare l’ A. alle 20,30 al bar di (OMISSIS), come da accordi presi in precedenza. Sosteneva, poi, in un secondo interrogatorio, di avere portato con sè, in quella occasione, anche il figlio G., un bambino di sette anni. Chiariva di avere appreso del sequestro la mattina presto del (OMISSIS). Ribadiva di non avere ricevuto telefonate da R. la sera del (OMISSIS). Solo alla fine della istruttoria dibattimentale, con dichiarazioni spontanee, ammetteva di avere ricevuto una telefonata sul cellulare del convivente, rimasto in suo possesso, ma di non avere compreso cosa l’ignoto interlocutore dicesse.

Sulla base di tali emergenze, il giudice di primo grado aveva affermato la responsabilità sia di A. che di C. in ordine alle fattispecie a ciascuno ascritte, osservando, però che la chiamata di correo di R. era da ritenere attendibile solo con riferimento alla fase della preparazione ed esecuzione del sequestro.

Quanto alla parte successiva, il R. non veniva ritenuto credibile nel processo in esame posto che la Corte di assise lo reputava pienamente responsabile del concorso nella azione volta a cagionare volontariamente la morte del bambino.

Era poi accaduto, nel processo di appello, che il Procuratore Generale aveva prodotto una lettera inviatagli dall’ A. il quale chiedeva di essere interrogato, ricostruendo la vicenda in modo tale da includere tra gli organizzatori anche la convivente C. e suoi stretti familiari.

L’ A. veniva quindi sottoposto ad esame e confermava il contenuto della lettera specificando che la convivente aveva incluso tra i partecipi anche il fratello che era esperto delle zone di montagna ove cercare l’alloggio per il sequestrato. L’ A. aveva poi parlato di un primo tentativo di sequestro che non era andato a buon fine la sera del (OMISSIS), anche per la inaffidabilità dimostrata dal cognato (fratello della C.) che avrebbe dovuto essere colui che lo prelevava al bar di (OMISSIS), chiarendo che per tale ragione il ruolo in questione era stato attribuito, per il giorno dopo, proprio alla convivente. Questa aveva anche provveduto, in quella occasione, a confezionare due passamontagna da utilizzare al posto dei sottocaschi che non apparivano utili a coprire bene il volto. Sempre secondo la nuova versione, la C. si era anche data da fare nella fase preparatoria, dichiarandosi disponibile anche ad avvicinare la madre del bambino, P., offrendo servigi in veste di baby sitter.

A. parlava poi della fase esecutiva e della telefonata fatta da R. alla propria convivente dopo che il bambino era stato ucciso, per dirle che l’appuntamento con lui non era al bar ma più avanti lungo la via (OMISSIS). Si era quindi avviato con il complice sullo scooter ed aveva incontrato per strada la con vivente a bordo di una Fiat Tipo, col figlio G., su un cavalcavia. Gli aveva detto che il bambino era morto a seguito di un incidente, solo il giorno seguente. A. spiegava il senso del mutato comportamento processuale facendo riferimento ad un pregresso giuramento fatto alla convivente e alla madre, di non fare i nomi dei responsabili: era venuto meno all’impegno sia per intervento di un religioso, che a causa di dissidi con la famiglia C. per l’affidamento del figlio G..

Nel corso delle successive fasi processuali, caratterizzate anche da un confronto con A., la C. non mutava la propria versione difensiva.

La Corte territoriale ricostruiva taluni aspetti contestati della vicenda, nei seguenti termini, dichiarando in premessa che sugli orari e sui tragitti degli spostamenti non era stato possibile giungere a conclusioni in termini di certezza assoluta ma di certezze ragionevoli.

Ad avviso della Corte – che così superava uno dei motivi di appello – doveva in primo luogo ritenersi che R. ed A., subito dopo il rapimento consumato entro le 19,50, si erano recati al (OMISSIS) senza soste intermedie, giungendo sul posto alle 20,05 circa, e da tale luogo effettuando – il R. – la telefonata alla C. delle 20,17 per dirle di venire a recuperare il compagno. Sul punto la Corte si diceva di contrario avviso a quanto ritenuto dai primi giudici a proposito della continuità dell’allontanamento dal luogo del sequestro, anche perchè i due imputati, confessi sulla dinamica dei fatti fino a quel momento, avevano negato qualsiasi sosta intermedia. Confutavano d’altra parte, la valenza – dal punto di vista della cronologia degli eventi – della testimonianza del passante ( D.) che aveva detto di avere incrociato lo scooter dei due ad un orario successivo. La Corte assumeva poi che la sosta in questione non avrebbe alcuna rilevanza sulla ricostruzione dei comportamenti colpevoli, ma sosteneva ed argomenta – elemento importante ai fini del movente della azione omicidiaria, ossia la paura di venire scoperti con l’ostaggio – che prima che i due giungessero alla strada sterrata del cd. bosco almeno una volante della Polizia era già in quella zona, allertata dalla immediata telefonata della P.. La Corte argomentava poi sulla inutilità dei mezzi istruttori sollecitati con i motivi di appello ed in particolare la acquisizione dei tabulati delle forze dell’ordine e di tutti i soggetti di possibile interesse, essendo stata, tra l’altro, già espletata in primo grado la perizia sulle celle telefoniche che avevano agganciato le linee dei cellulari soprattutto per stabilire ove la C. si trovasse quando aveva ricevuto la telefonata delle 20,17.

Sulla posizione dell’ A., la Corte ha posto in evidenza come non si discuta più della sua partecipazione alla fase organizzativa del sequestro, ma solo di quella relativa alla fase della uccisione dell’ostaggio, fase che ha fatto registrare una divergenza tra le dichiarazioni di R. e di A. (ognuno dei quali ha addebitato all’altro la relativa responsabilità.

Ebbene la Corte osserva che non solo la deposizione dell’ A., comunque imputato della causazione dolosa dell’evento, ma anche quella del R. (imputato nel processo separato di causazione colposa della morte del Piccolo T.) sono da ritenere – come già fatto anche dal primo giudice – entrambe non persuasive dal punto di vista della coerenza intrinseca.

La versione del R., cioè, secondo cui egli aveva lasciato l’ A. col bambino nei pressi di un bidone vicino alla sbarra prima del (OMISSIS), affinchè quello si incontrasse poi con la C. – appositamente sollecitata a raggiungerlo con la telefonata delle 20,17 e con altra successiva rimasta senza risposta – e si recasse poi nel casolare in montagna mentre l’ A. tornava a Parma (essendo sottoposto a misura restrittiva della libertà); la successiva dichiarazione di aver saputo dall’ A., il 4 marzo che aveva deciso di soffocare il bambino per non lasciare tracce e non correre rischi, erano dichiarazioni non conformi ai fatti accertati.

Ad avviso della Corte il R., affermando che tutto era andato bene fin quando aveva lasciato l’ A. e che quindi costui si era determinato da solo alla soppressione dell’ostaggio era poco plausibile in quanto aveva tentato di nascondere invece che c’era stato l’avvistamento di volanti, come affermato dall’ A. e desumibile dalla deposizione di D., e che quindi entrambi e non solo l’ A. erano stati presi dal panico, essendo quest’ultima la verosimile ragione della improvvisa decisine di uccidere il bambino.

Inoltre il racconto del R. non era credibile neppure quanto alla affermazione che l’ A. avrebbe dovuto attendere per strada, interi minuti e con l’ostaggio in braccio la convivente, senza neppure avere un luogo precisissimo per l’appuntamento lungo la via del (OMISSIS).

Anzi la Corte si diceva sicura di poter affermare che la C., quando aveva raggiunto l’ A., non vide il bambino ancora vivo e addirittura seppe – come ammesso anche dal R. e dall’ A. – solo in seguito delle circostanze effettive in cui era morto il bambino.

Inoltre la Corte affermava che il R. era credibile quando aveva parlato dell’incontro avuto con la C. la sera del (OMISSIS) successivo, fissato da A. (che non poteva uscire di casa per la nota misura restrittiva) con il pretesto di consegnare documenti di lavoro.

Ebbene ad avviso della Corte l’incontro c’era stato ed aveva avuto ad oggetto non certo questioni di lavoro legale, ma questioni riguardanti il modo di difendersi dalle indagini sul sequestro nonostante talune discrasie nei racconti di A. e R. al riguardo.

La Corte concludeva osservando che R., come già rilevato dal primo giudice, aveva goduto, riguardo alla entità del suo coinvolgimento, di immeritato credito da parte della accusa che, a causa di ciò, aveva elevato a suo carico una ipotesi di reato meno grave.

Anche in ordine alla ricostruzione dell’ A., relativamente alla fase omicidiaria, la Corte rilevava un deficit, seppur minore, di credibilità.

Tale ricostruzione, che assegnava al R., a causa del panico dovuto agli incontri per strada, la decisione di sopprimere il bambino e di occultarne il corpo, presentava una progressione – nei tre interrogatori subiti – di racconti tutti tesi ad allontanare sempre più da sè il momento della uccisione.

Tuttavia era anche connotata da particolari atti a dimostrare che egli era sul posto, controllava l’eventuale sopraggiungere di automobili pericolose ed era perfettamente consapevole di tutto quanto stava accadendo.

La Corte riteneva, a fronte della impossibilità di sceverare il vero dal falso nelle due dichiarazioni, che fosse sufficiente, ai fini della disamina della posizione dell’ A., quanto pacificamente emerso e cioè che i due imputati erano giunti assieme al (OMISSIS) col bambino vivo, che nel volgere di pochi minuti il bambino era stato ucciso e il suo corpo occultato e che subito dopo da quel luogo il R. aveva telefonato a C. (pag. 45 e 46).

La Corte concludeva al riguardo evidenziando da un lato la assenza di ragioni per la concessione delle attenuanti generiche e, dall’altro, la mancanza di prova sulla integrazione della aggravante della crudeltà ( art. 577 c.p., comma 1, n. 4). Sulle restanti imputazioni registrava la assenza di appello.

Sulla posizione di C., la Corte prendeva in considerazione in primo luogo le risultanze della perizia tecnica che aveva dimostrato come la nota telefonata delle 20,17 parti dalla zona di via del (OMISSIS) (come confermato dagli altri due imputati) e fu ricevuta dalla C. o a casa sua o nei pressi di casa. Vi erano poi elementi considerati dalla Corte dubbi quanto alla possibilità di affermare o negare che la C., quando si recò a recuperare l’ A. la sera del rapimento, avesse portato con se il figlio G. di 7 anni. Una simile evenienza, evidentemente atta a dimostrare che la C. non era destinata a ricevere l’ostaggio, non poteva dirsi provata, essendo stata sostenuta solo dagli imputati A. e C. senza però che i riscontri ricercati sul punto avessero consentito di ritenere vera o falsa la circostanza.

Ad avviso della Corte erano poi da by-passare, perchè privi di incidenza sulla ricostruzione dei fatti, tutti i rilievi della difesa riguardanti l’esatto orario in cui la macchina Fiat Tipo con A. e C. a bordo, transitò in fase di ritorno alla casa di (OMISSIS), lungo un crocevia di (OMISSIS). La discrasia di dodici minuti tra le risultanze delle indagini e la tesi della difesa non pareva importante ai fini del decidere posto che la tesi della responsabilità della C. si basava sulle prove della sua partecipazione alla fase organizzativa del sequestro. E tali prove riguardavano la fase precedente all’incontro con A. lungo la strada, dopo la conclusione sciagurata del sequestro.

La Corte argomentava che la C. ricevette la telefonata attraverso la quale il R. la sollecitava ad andare a prelevare il convivente quando si trovava ancora a casa. E deduce tale conclusione sia dalla perizia, sia dalla conseguenza temporale dei suoi comportamenti, caratterizzati da una stretta sequenza cronologica tra il ricevere la telefonata e l’uscire per andare a prelevare l’ A.. La Corte affrontava anche i dubbi sollevati dalla difesa sul tempo che sarebbe occorso alla donna per raggiungere il convivente fino al luogo dell’ultimo delitto e tornare indietro ma argomentava sulla possibilità di superarli perchè il tragitto poteva essere stato più breve di quello presupposto dalla difesa ai suoi ragionamenti. La donna poteva non avere raggiunto l’ A. alla nota sbarra, prelevandolo prima.

La Corte ricordava, poi che si era registrata una sostanziale convergenza e sovrapponibilità fra le dichiarazioni accusatorie di R. e di A. (per quest’ultimo si riferisce alle dichiarazioni rese in appello) con riferimento al fatto che la C. aveva partecipato alla fase preparatoria del sequestro. In ordine alla fase della gestione dell’ostaggio invece i due racconti divergevano in quanto secondo il R. il bambino sarebbe stato custodito dalla C. mentre secondo l’ A., dal fratello di R.S., R.G. (peraltro poi avvalsosi della facoltà di non rispondere) e da B.P. (poi assolto).

La Corte al riguardo affermava che il R. sul punto è del tutto inattendibile perchè, come già detto, non vi è la prova, soprattutto logica, che la C. dovesse fungere da custode dell’ostaggio. Invece è attendibile per quanto riguarda la fase ideativa del rapimento e la fase di recupero del complice. E desumeva tale convincimento dal fatto che la C. ricevette – peraltro sul cellulare di A. lasciato a casa – la telefonata delle 20,17 (di cui è rimasto non rintracciabile il contenuto alla lettera) in costanza di esecuzione del delitto, al fine di andare a recuperare l’ A.: e ciò, tanto secondo il racconto del R. (ritenuto non credibile sul ruolo che la C. avrebbe di li a poco dovuto svolgere) quanto secondo il racconto dell’ A..

Ebbene la telefonata è stata a lungo negata dalla C. e tale suo comportamento (poi leggermente modificato con l’ammettere la chiamata ma attribuendole un autore sconosciuto e incomprensibile), in rotta di collisione con una emergenza sufficientemente acclarata nei suoi connotati, è stato giudicato dalla Corte come elemento a carico.

La Corte si soffermava sulla valenza della telefonata che essa giudicava quale "prova diretta" della partecipazione della C. al sequestro programmato. E a sostegno di tale assunto la Corte ricordava il momento assolutamente importante in cui la telefonata avvenne, l’utilizzazione di schede con intestazione falsa procurate da R. ed infine la brevità della conversazione (9 secondi) che quindi si inseriva in un contesto noto alle parti colloquianti.

Smontava, la Corte, le argomentazioni usate dalla difesa per rappresentare la assenza di significatività della telefonata in questione, possibile frutto, sempre secondo la difesa, di un errore del R. o addirittura di un suo tentativo di precostituire un elemento a carico della C. incolpevole. Il tutto perchè, ad avviso della difesa, il R. non poteva non sapere che C. e A. si erano già dati un appuntamento per ragioni anche del tutto legittime. La Corte inseriva poi l’elemento di prova costituito dalla telefonata in questione nel contesto degli altri elementi raccolti e in special modo dalle dichiarazioni della teste V. – teste ritenuta pienamente attendibile – la quale aveva ricordato di avere parlato con la amica C. il pomeriggio del (OMISSIS) (ossia il giorno seguente quello del sequestro) e di averla trovata in uno stato di turbamento talmente marcato da apparire sintomo non di un mero e generico dispiacere provato da tutti i membri della collettività interessata. Inoltre la C. era risultata alla V. a conoscenza di particolari ancora non resi noti dalla stampa come quelli delle impronte lasciate dagli autori del fatto e del nastro adesivo, che erano quei particolari che avevano effettivamente poi consentito agli inquirenti di inchiodare il R. (costui aveva usato del nastro adesivo per bloccare gli O. ma a causa dei movimenti maldestri aveva causato la rottura di un guanto, lasciando così una impronta decisiva sul nastro).

Ebbene, ad avviso della Corte il resoconto fatto dalla V. era troppo specifico perchè potesse essere ricondotto a generiche preoccupazioni della C. slegate dal reato commesso. Il nastro adesivo di cui aveva parlato la C. alla V. era elemento che non poteva in alcun modo riguardare i lavori edili che il marito aveva eseguito in casa O., perchè si trattava di bene merceologico estraneo ai lavori ordinari di ristrutturazione di un immobile. Inoltre quei lavori risalivano a due mesi prima, sicchè la Corte riteneva non normali i timori per il rinvenimento di impronte del marito che, per la risalenza di quei lavori, non potevano essere riferibili se non alle impronte sul nastro adesivo che o il R. aveva lasciato a causa della rottura del guanto o il convivente A. aveva potuto imprimere quando aveva comperato il nastro che poi aveva passato all’ A. durante la fase della immobilizzazione.

Il terzo elemento a carico veniva individuato nella causale dell’incontro del (OMISSIS) avuto dalla C. con R. e ricondotto dalla Corte, per le ragioni di carattere logico dette sopra, alla necessità di consultarsi e ricevere notizie sugli sviluppi delle indagini. Sul punto dell’essersi trattato di un incontro non volto allo scambio di documentazione di lavoro, la Corte registrava una convergenza significativa nelle dichiarazioni tanto di A. che di R..

In ordine alla partecipazione della C. alla fase preparatoria, la Corte muoveva da una descrizione della personalità della donna come persona in tutto partecipe alle attività anche non lecite del marito essendo stata, tra l’altro, anche coinvolta nel tentativo di accendere un conto corrente a (OMISSIS) non riuscito, sembra a causa di uno sfondo di sospetti di riciclaggio di denaro sporco. Ma soprattutto la Corte riteneva impossibile, anche per tali ragioni, che la C. fosse rimasta all’oscuro del piano che andava delineandosi, sin dalla fine del (OMISSIS), nella casa in cui lei abitava con A.: casa sua.

In più i giudici dell’appello evidenziavano che la C., secondo l’ultima versione dell’ A., si era detta disponibile a dare una mano alla preparazione del reato, anche andando a svolgere mansioni di baby sitter in casa O..

La circostanza era stata sintomaticamente negata dalla imputata mentre aveva trovato importante riscontro nelle parole della P..

Infine la Corte passava in rassegna due ultime circostanze indizianti a carico della C.:

– il fatto cioè che la donna, secondo il racconto del R. e dell’ A., partecipò a sopralluoghi nelle zone di montagna per trovare il casolare ove custodire l’ostaggio;

– il fatto inoltre che essa avrebbe confezionato i passamontagna utilizzati dai sequestratori per rendersi irriconoscibili.

Su tale secondo punto, raccontato da A. e da R.. La Corte registrava una importante" divergenza nei particolari cronologici e su una serie di altri dettagli, mentre quanto al primo punto si evidenziava la assoluta mancanza di riscontri esterni.

La Corte osservava al riguardo che le dichiarazioni di A. e di R. non sarebbero state di per sè sole sufficienti a formulare un giudizio di responsabilità a carico della chiamata perchè divergevano radicalmente quanto alla ricostruzione di ciò che accadde e che sarebbe dovuto accadere a partire dal momento dell’arrivo dei due alla sbarra con l’ostaggio. Però convergevano – e quindi potevano ritenersi attendibili – su elementi importanti riguardo alla ricostruzione della fase preparatoria e alla partecipazione, ad essa, della C. alla quale entrambi attribuivano sia la partecipazione ai viaggi in montagna che – sia pure con divergenze sul come e sul quando – il confezionamento dei passamontagna.

I giudici spiegavano il criterio logico cui si attenevano in tale percorso argomentativo e affermavano che è consentito al giudice, dopo avere apprezzato anche in termini meramente possibilistici la valenza di ciascun indizio, superare poi la ambiguità che è insita in qualsiasi elemento indiziante attraverso l’apprezzamento globale e unitario delle emergenze, sicchè dalla sommatoria degli indizi ben può discendere il necessario univoco significato dimostrativo richiesto per condannare.

In conclusione la Corte osservava che i fatti acclarati a carico della C. sono certi, plurimi, concordanti, precisi, non equivoci e gravi sicchè si imponeva la conferma della responsabilità secondo il criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, essendo rimasta accertata la sua partecipazione alla fase ideativa, a quella preparatoria e ad una parte di quella esecutiva, col recupero dell’ A..

Riguardo al mutamento di versione dell’ A., la Corte riferiva trattarsi di circostanza causata da un dissidio insorto tra le famiglie di riferimento per l’affidamento del piccolo G., dissidio illustrato già nelle lettere scambiate dal carcere da A. con la suocera. In una lettera in particolare vi era il riferimento ad un pregresso giuramento fatto dall’ A. a non rivelare i nomi degli altri partecipi e di tale giuramento era poi stata fatta menzione anche durante l’esame orale. Anche da altro carteggio della C. la Corte desumeva che la donna era a conoscenza di molti più particolari dell’accaduto di quanto avesse lasciato trapelare nel processo.

Deduce la difesa di C..

1) il vizio di motivazione in riferimento ai criteri di valutazione della prova posti dall’art. 192 c.p.p., comma 3.

La Corte aveva esordito (a pag. 53) affermando che la circostanza della ricezione, da parte della C., della telefonata delle 20,17 la sera del sequestro, sarebbe stata prova diretta della partecipazione al reato, mentre tale poteva essere una telefonata compatibile anche con una spiegazione alternativa: quella cioè data dalla difesa dell’essersi la telefonata sovrapposta alla decisione presa autonomamente dalla donna di uscire per andare a prendere il convivente a (OMISSIS) alle 20,30 come da accordi presi in precedenza e senza nulla sapere di cosa andava accadendo. Tale tesi era peraltro stata corroborata da una ricostruzione meticolosa degli orari e degli spostamenti ((OMISSIS) matrice cronologica della ricostruzione dell’evento) che la Corte aveva affermato apoditticamente di non ritenere rilevante. Ebbene, poteva trattarsi al più di una prova indiretta o indiziaria – come desumibile dal paragrafo conclusivo sulla prova indiziaria a pag. 62 – oltretutto valutata sulla base di una premessa indimostrata: e cioè quella (ricavata dal fatto che i due imputati avrebbero parlato di una secondo tentativo di telefonata, non andato a buon fine e comunque mai dimostrato con i relativi tabulati) che la prima telefonata in questione sarebbe stata ricevuta dalla C. quando era ancora in casa (e quindi si sarebbe trovata in attesa delle istruzioni sul da farsi) per poi uscirne immediatamente proprio in esecuzione delle dette istruzioni ricevute. Applicazione, il tutto, dell’incerto e vietato canone del post hoc propter hoc", reso fallace dalla effettiva progressione dei fatti e cioè quella, rappresentata dalla difesa, secondo cui la C. doveva comunque uscire di casa e lo stava facendo, indipendentemente dalla telefonata, per i normali accordi presi col convivente.

Dunque, mancando una prova diretta, risulta evidente che la motivazione di condanna si è basata sulle dichiarazioni di due chiamanti in correità la cui attendibilità avrebbe dovuto essere sottoposta necessariamente al previo vaglio imposto dall’art. 192 c.p.p., comma 3. Un vaglio che si compone come è noto di tre passaggi, indicati dalla giurisprudenza di legittimità anche a Sezioni unite, costituiti dalla attendibilità soggettiva del chiamante (soprattutto in relazione alla sua personalità, alla genesi della dichiarazione accusatoria ed alla assenza di eventuali ragioni di rancore, odio e vendetta), dalla coerenza della chiamata (che deve essere articolata, univoca e verosimile) e, solo in ultimo, dai riscontri esterni.

I riscontri infatti, servono ad ulteriormente corroborare la attendibilità del chiamante e non a provare il fatto, altrimenti sarebbero elementi di prova autonomi.

Nessuno di tali passaggi aveva formato oggetto di giudizio da parte della Corte territoriale.

Non il primo punto, essendosi anzi affermata in più parti della sentenza la poca affidabilità dei chiamanti (pag. 61).

Dell’ A., addirittura, non è stata valutata la spontaneità della chiamata. La difesa aveva sul punto fornito alla Corte una serie di lettere con i congiunti atta a dimostrare che la scelta di collaborare derivava dalla necessità di acquisire credibilità a danno della compagna in vista dell’affidamento, che appariva alquanto turbolento, del figlio G.: si era delineato cioè un interesse dell’ A. alle dichiarazioni accusatorie che poi aveva reso e questo dato avrebbe dovuto rendere imprescindibile una valutazione da parte del giudice del merito.

Ma anche le dichiarazioni del R. rendevano indispensabile lo stesso vaglio, soprattutto nel profilo dell’interesse retrostante che era quello, una volta confessata la propria partecipazione al sequestro, di limitare quanto possibile i danni derivanti dalla propria confessione, tentando di attribuire ad altri, parte delle condotte (comprese quelle riguardanti la gestione dell’ostaggio) riferibili proprio ad esso chiamante. In tale prospettiva la affermazione di avere telefonato alla C. per farla venire sul teatro degli eventi era funzionale alla necessità del R. di allontanare da sè i sospetti sulla implicazione nella uccisione del bambino e comunque dai propri congiunti i sospetti sulla implicazione nel progetto di custodia del piccolo T.. Certo, prosegue la difesa, il chiamante può essere oggetto di valutazione frazionata ma non quando, come nella specie, egli sia scoperto a dire il falso (ci si riferisce al tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità in punto di decisione di uccidere il bambino) e tale falsità sia destinata a riverberare i propri effetti anche sulla chiamata in correità della C., funzionale, come detto, a corroborare la tesi della propria totale estraneità, anche nei progetti, alla fase della gestione dell’ostaggio, attribuita appunto alla C.. La difesa aveva poi sollecitato – inutilmente – anche un vaglio sul requisito della spontaneità della chiamata di correo del R. il quale non era stato affatto spontaneo nel confessare, essendo stato, viceversa incastrato dal rinvenimento della sua impronta digitale sul nastro usato per immobilizzare gli O..

La difesa aveva anche segnalato la assenza di costanza nelle diverse versioni delle chiamate operate nelle successive fasi processuali. La Corte nulla aveva replicato ed, anzi, ammettendo che la versione del R. sul punto della partecipazione della C. alle perlustrazioni dei luoghi di montagna ove custodire l’ostaggio non era "degna di fede", ne avrebbe dovuto far discendere un generale giudizio di inattendibilità del R. relativamente alla chiamata in correità della C., essendo stato oltretutto il R. già ritenuto non credibile anche per quanto riguardava il suo coinvolgimento alla fase omicidiaria. Riguardo all’ A., oltre a quanto già sopra ricordato in punto di interesse alla chiamata in correità della C., la difesa evidenzia mancanza di motivazione sulla genesi e quindi sulla spontaneità della chiamata stessa. Anzi, la Corte, riferendosi ai dissidi nati per affidamento del figlio G. nelle more del giudizio di secondo grado, ha di fatto toccato il tema dell’interesse dell’ A. ad una accusa anche non vera, e soprattutto non ha motivato sulla credibilità delle dichiarazioni accusatorie a preferenza, di quelle iniziali, volte invece a scagionare la compagna, come invece richiesto espressamente dalla difesa con memorie all’uopo depositate.

L’ A., a proposito delle ragioni del "voltafaccia" aveva fornito spiegazioni non collimanti nei dettagli (il riferimento era alla presenza, non ribadita di un certo religioso che lo aveva sciolto da un presunto giuramento) e soprattutto aveva chiamato in causa anche comportamenti del fratello e della madre della C., per nulla valutati dalla Corte.

In più si trattava di persona, l’ A., che aveva reso interviste affabulanti e soprattutto aveva continuato a negare la propria partecipazione alla uccisione del bambino, invece accertata dalla Corte, con la conseguenza che l’accusa alla convivente non poteva neppure inquadrarsi in un percorso di emenda personale.

Solo all’esito di tale positiva valutazione la Corte avrebbe potuto passare a valutare i riscontri esterni, mentre era caduta nell’errore di credere di assolvere al proprio precedente compito parlando di fatti afferenti alla diversa tipologia della credibilità, non del chiamante, ma dei fatti narrati (la chiamata);

2) il vizio di motivazione con riferimento alla valutazione della chiamata in correità ossia alla coerenza oggettiva della narrazione.

A pag. 61 i chiamanti erano stati definiti "poco affidabili", le loro chiamate da sole insufficienti per poi, e ciò nonostante, affermare poco dopo che le loro dichiarazioni sulla compromissione della C., pur non provate quanto alla partecipazione alle perlustrazioni in montagna, erano convergenti e quindi credibili.

La Corte, in realtà, era passata direttamente a valutare la esistenza di indizi di colpevolezza a carico della C. (compreso quello della telefonata delle 20,17), per poi desumere da tale evenienza la credibilità soggettiva dei dichiaranti che invece doveva precedere la intera analisi. In altri termini, si desumeva anche dalla dichiarazione di intenti sui criteri logici seguiti (pag.

62) che le chiamate di correo non erano state valutate secondo la regola di giudizio posta dall’art. 192 c.p.p., ma come meri indizi al pari di altri, posto che la predetta dichiarazione di intenti presupponeva che la Corte disponesse non di prove ma solo ed esclusivamente di indizi, comprese quindi le chiamate in correità. E tanto era stato reso possibile proprio dall’essersi la Corte sottratta al dovere di verificare se le chiamate di correo della C. presentassero o meno i requisiti per costituire prova ai sensi dell’art. 192 c.p.p..

Tanto si desumeva anche dal fatto che la Corte aveva, sintomaticamente, dapprima rilevato una mancanza di riscontri esterni alle chiamate (pag. 60-61) ma poi aveva ritenuto di superare tale impasse in ragione della convergenza delle due chiamate sulla posizione della C..

Aveva – se così può sintetizzarsi il pensiero della difesa – confuso la valutazione della prova con la sua esistenza.

Tra l’altro, sul tema della partecipazione ai sopralluoghi in montagna non vi era solo mancanza di riscontri esterni, come affermato dalla Corte, ma mancanza di motivazione da parte sua riguardo ai plurimi elementi segnalati dalla difesa per sostenere la esistenza, semmai, di rincontri negativi sul punto.

Sull’ulteriore tema del confezionamento dei passamontagna, poi, la Corte era incorsa in una palese illogicità della motivazione. Aveva cioè rilevato discrasie profonde nel racconto dei due chiamanti, ma aveva ritenuto di superarle con percorso logico incomprensibile affermando, alfine, che vi era convergenza sul punto: invece, secondo la regola dell’id quod plerumque accidit, la divergenza dei racconti dei due imputati su un punto di capitale importanza nella ricostruzione della dinamica degli eventi, non poteva non risolversi in un dubbio sulla attendibilità generale di ciascun chiamante, oltre che nella affermazione del dubbio sulla dimostrazione del fatto.

In secondo luogo le due chiamate avrebbero dovuto quantomeno riscontrarsi reciprocamente ed essere messe a confronto, anche in quanto presentavano divergenze proprio sul coinvolgimento della C., evidenziate dalla difesa. Le divergenze riguardavano il ruolo della C. (destinata alla gestione dell’ostaggio solo per R.), il contenuto della telefonata delle 20,17, le ragioni dell’incontro del (OMISSIS).

3) il vizio di motivazione sugli elementi di riscontro.

La Corte aveva implicitamente ritenuto che la chiamata in correità dell’ A. fosse il riscontro a quella del R. perchè convergeva con essa, essendo da reputare quale indizio nel contesto di tutti gli altri elementi partecipi della stessa natura.

Ma in tema di pluralità di chiamate di correo la giurisprudenza di legittimità richiede, perchè sia assolta la regola di giudizio posta dall’art. 192 c.p.p., che si tratti di dichiarazioni convergenti, indipendenti e specifiche.

E invece tale valutazione non è stata fatta con la conseguenza che si deve affermare che le due chiamate non servono da riscontro l’una all’altra ma sono chiamate "nude", ossia prive di elementi di riscontro esterno sul punto specifico delle chiamate stesse che è quello della partecipazione da parte della C. ai sopralluoghi in montagna e ala confezionamento di passamontagna.

La chiamata di correo di A., infatti, è stata di anni successiva a quella di R. sicchè non è improprio parlare di adeguamento del primo al secondo.

4) il vizio di motivazione sulla esistenza di indizi alla stregua dell’art. 192 c.p.p., comma 2.

Gli indizi valutati dalla Corte, quattro in tutto, sarebbero intanto non costituiti da fatti certi e poi privi dei requisiti della gravità, precisione e concordanza. La Corte, in altri termini, avrebbe dovuto verificare la qualificabilità degli indizi secondo tale regola mentre si era limitata ad effettuarne una sommatoria, secondo la nota dichiarazione di intenti.

Così, la telefonata delle 20,17 aveva una valenza ambigua e la Corte non aveva motivato sulla tesi difensiva secondo cui con essa il R., sapendo dell’appuntamento fissato dall’ A. con la ignara C., si era limitato ad assicurarsi che essa effettivamente arrivasse. La Corte aveva reso argomentazioni improprie e illogiche sostenendo apoditticamente che la C. non aveva dato prova del fatto che R. sapesse del proprio appuntamento con A. fissato al di fuori del progetto criminale.

Inoltre la Corte avrebbe dovuto dare maggior risalto al fatto che il contenuto della importantissima telefonata era stato riferito in termini diversi dai due chiamanti.

Ulteriore elemento di illogicità era quello di presumere il contenuto della telefonata senza conoscerlo, essendo la brevità della telefonata compatibile anche con la tesi della difesa.

Insomma tutti i rilievi della difesa tesi a dimostrare che la telefonata fu ricevuta dalla donna quando già era uscita per recarsi all’appuntamento prefissato col convivente non erano stati analizzati dalla Corte la quale, invece, basandosi sull’apodittica affermazione che la telefonata fu ricevuta in casa dalla donna, ne ricava l’elemento fortemente indiziante del rappresentare, (a telefonata, l’elemento di raccordo operativo fra complici perchè subito dopo la telefonata la donna uscì per andare a prelevare l’ A..

La testimonianza della V.. Era stata ritenuta dalla Corte assai sintomatica della intraneità della C. alla azione delittuosa perchè la imputata aveva fatto confidenze su elementi noti fino a quel momento solo agli inquirenti oltre che ai protagonisti dalla vicenda mentre la difesa aveva svolto una serie di rilievi per dimostrare che la donna aveva riferito o particolari noti a tutti o particolari compatibili con il suo status di estranea al reato. Inoltre quella deposizione afferiva ad un comportamento successivo alla perpetrazione dei delitti e quindi spiegabile anche con fatti appresi dalla donna anche dal convivente quando i delitti erano stati già perpetrati.

L’incontro del (OMISSIS) tra R. e C. era risultato ricostruito in maniera differenziata dai due chiamanti in correità e tale elemento avrebbe dovuto influire sulla valutazione di credibilità dei due chiamanti, senza considerare che si trattava di un appuntamento spiegabile anche alla luce di rapporti assolutamente leciti tra le parti, non considerati dalla Corte.

La deposizione della teste P. infine era piena di incertezze e non consentiva di utilizzare la offerta della C. di farle da baby sitter come un indizio della sua precostituzione di un piano per entrare nella intimità della famiglia O..

Infine la Corte non aveva mancato di valutare, a carico, elementi (quali la partecipazione della C. agli affari del convivente) del tutto estranei alla dinamica degli eventi in esame.

5) il vizio della motivazione sulla ricostruzione cronologica degli avvenimenti. La Corte afferma di non volere seguire i rilievi della difesa sulla ricostruzione cronologica degli accadimenti, ma poi lo fa ricalcando i rilievi difensivi relativi ai fatti fino all’arrivo dei due malviventi al (OMISSIS). La Corte ha ritenuto quindi apoditticamente troppo ambiziosa la aspirazione della difesa ed ha, da un lato, attribuito speciale valenza alla telefonata delle 20,17, per poi affermare che non aveva rilevanza l’esatto accertamento dell’orario di passaggio dell’auto dei due imputati ( C. e A.) al crocevia di (OMISSIS). Ed invece il calcolo di quell’orario e l’accertamento del luogo dell’effettivo incontro doveva servire a dimostrare che la ricostruzione dei tempi del percorso seguito dalla donna secondo la Corte era fallace e che la C. non poteva avere percorso tutto il tragitto attribuitole nel breve tempo individuato dalla Corte. Oltretutto diversi erano i luoghi indicati da R., dalla C. e infine dall’ A. con riferimento al punto in cui si erano ritrovati, con la conseguente mancanza di valutazione della incidenza di dette diverse ricostruzioni sulla attendibilità dell’ A..

Attendibilità che la Corte dava per scontata a priori.

Uguale sottovalutazione da parte della Corte aveva riguardato l’accertamento del sè i due uomini avessero o meno effettuato una sosta prima di arrivare al luogo ove si erano nascosti ed aveva soppresso il bambino.

6) il vizio di motivazione sul criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

La sentenza delle Sezioni unite del 2002 in tema (Franzese) aveva posto in evidenza come la detta regola, posta nell’art. 530 c.p.p., commi 2 e 3, debba costituire un limite al libero convincimento del giudice. Nella specie molteplici erano i dubbi sull’orario in cui i due imputati avrebbero incrociato il teste D. diretti nel tragitto di allontanamento dal luogo del rapimento; incerto è l’orario di ritorno della donna con il convivente verso casa sua;

incerta è la credibilità di R.S.; incita era infine la coerenza del narrato già evidenziata nei motivi di appello. Non valutata è l’attendibilità del dichiarante A. ed anzi è affermata in altra parte la inaffidabilità dei due dichiaranti per poi riconoscerla in altra sede; non è infine adeguatamente affrontata la problematica dei riscontri esterni.

7) la violazione di legge sul diniego delle attenuati generiche;

8) la illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p. che del tutto irragionevolmente prevede, per giunta in relazione a reato aggravato da evento non imputato a titolo di dolo, una grave sanzione non modulabile dal giudice in relazione alla gravità maggiore o minore dei fatti.

In data 25 novembre 2010 la difesa ha depositato una memoria nella quale ha rappresentato come tutti i vizi di motivazione già rappresentati nel ricorso originario e "costruiti" come mancate risposte ai motivi di appello, ai motivi aggiunti ed alla memoria depositata il 29 ottobre 2009 con riferimento al mutamento del comportamento processuale dell’ A., siano idonei, altresì, a inficiare di nullità la sentenza impugnata.

A tal fine la difesa, nell’allegare nuovamente la detta memoria del 29 ottobre, compreso un interrogatorio dell’ A., e nel ripercorrere i temi sui cui non si sarebbe dispiegata una adeguata attività argomentativa del giudice del merito, cita, a sostegno della tesi illustrata a questo giudice della legittimità, la giurisprudenza della Cassazione sul tema ed in particolare la sentenza della sezione feriale del 9 settembre 2010 che ha qualificato come violazione dei diritti difensivi, rilevante ex art. 178 c.p.p., lett. c), la mancata valutazione di tutte le ragioni delle parti e di tutti i fatti le circostanze addotte da queste.

A. deduce a mezzo del proprio difensore con il ricorso depositato il 2 febbraio 2010 al Tribunale di Parma.

1) il vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche.

La Corte di assise di appello aveva sottovalutato la circostanza che a far ritrovare il corpicino di T. era stato l’imputato A.. Egli aveva finito per subire un trattamento sanzionatorio ben più grave di quello di R. il quale, seppure sospettato di essere l’esecutore materiale della uccisione, ha beneficiato della redazione di un favorevole capo di imputazione sulla colposità, in riferimento al suo comportamento, dell’evento letale. In conclusione la motivazione, per quanto detto, risulterebbe manifestamente illogica, come si desume, d’altra parte, dalla lettura della sentenza che finisce per accreditare la versione di A. sulla uccisione da parte di R. e come risulterebbe dalle emergenze probatorie che avevano fatto risaltare un ruolo assolutamente gregario dell’ A. rispetto a quello direttivo del R.. In altri termini il trattamento sanzionatorio riservato ai due sarebbe chiaramente sproporzionato e un riadeguamento non potrebbe certo ritenersi precluso dalla gravità dei fatti, non essendovi alcuna preclusione di principio alla applicazione delle circostanze anche a reati di particolare gravità come quello in esame.

Con un successivo atto di gravame, depositato il 3 febbraio al Tribunale di Parma, il difensore ha rappresentato un ulteriore motivo con il quale ha dedotto la violazione di legge per la insussistenza del concorso di persona nella condotta omicidiaria di cui al capo A).

Alla luce delle dichiarazioni dello stesso A., rese dinanzi al Gip il 4 aprile 2006, la Corte avrebbe dovuto considerare che l’ A. non aveva fornito alcun contributo morale o materiale alla azione dell’omicidio del piccolo T., neppure preannunciata dal R. nelle note circostanze di tempo e di luogo.

Si sarebbe configurata, in altri termini, ed al più, una situazione di mera connivenza dovuta alla sola presenza fisica dell’ A. nel luogo ove altro soggetto consumava l’omicidio.

Il ricorso presentato nell’interesse della C. è fondato.

Risultano infatti effettive e rilevanti, ai fini della tenuta della decisione, sotto il profilo della completezza e della logicità della motivazione, le mancanze di disamina, da parte del giudice del merito, relative ad una serie di questioni sollevate dalla difesa per il giudizio di appello, rimaste ingiustificatamente pretermesse nella sentenza in esame.

Invero, al riguardo non si nega che, secondo un orientamento condiviso da gran parte della giurisprudenza di legittimità, nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Rv. 233187;

massime precedenti conformi: N. 36757 del 2004 Rv. 229688).

Ed in tal senso ed entro tali limiti è da intendersi il senso dell’ulteriore orientamento citato nel ricorso, mirante essenzialmente a sanzionare non la omessa valutazione di qualsiasi deduzione difensiva, indiscriminatamente, quanto piuttosto "l’immotivato" diniego dell’ingresso della memoria difensiva ex art. 121 c.p.p. al fascicolo processuale e quindi del suo accesso alla valutazione – implicita o esplicita, come detto – da parte del giudice (vedi Rv. 244321, sul rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione di una memoria difensiva e Rv. 232518 sul rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione e valutazione di una memoria).

Il fatto è che, nella specie, le omissioni di valutazione denunciate dalla difesa non possono dirsi poste nel nulla da una valutazione implicita della loro inconsistenza posto che, al contrario, le lacune argomentative segnalate cadono su elementi fondanti della intera decisione e segnatamente su punti imprescindibili per la formazione di una motivazione completa e dotata della necessaria struttura logica.

Si tratta della valutazione delle due chiamate in correità poste a fondamento della decisione di condanna: quella operata da R. S. e quella, successiva e acquisita nel giudizio di appello, proveniente da A.M..

Deve darsi atto che, sul punto, la difesa della C. aveva sollevato una serie di specifici rilievi.

Come si deduce dalla stessa motivazione della sentenza impugnata (pag. 13 e segg.) i difensori avevano tra l’altro denunciato:

1) la incongruenza della ricostruzione dei fatti così come operata da R. del quale si contestava la attendibilità soggettiva, oltre alla inaffidabilità oggettiva del dichiarato, specialmente sotto il profilo dell’interesse che lo stesso aveva nel delineare una propria ridotta partecipazione, al fine di conseguire il vantaggio della più favorevole contestazione ex art. 630 c.p., comma 2, poi effettivamente raggiunto. Si segnalavano dubbi sulla spontaneità immediatezza e costanza delle dichiarazioni del R. e sulla effettività degli elementi di riscontro obiettivo alla sua ricostruzione dei fatti;

Nella memoria depositata il 30 ottobre 2009 a seguito del mutamento del comportamento processuale dell’ A. e della sua chiamata in correità della C., poi si denunciava 2) la inattendibilità intrinseca del chiamante, autore di mutevoli dichiarazioni, e altresì della chiamata intesa nella sua oggettiva capacità di fornire una coerente ricostruzione dei fatti, oltre ai contrasti e alle contraddizioni tra le due chiamate e la assenza degli elementi di riscontro.

Si segnalava, tra l’altro, a pag. 16, il rancore maturato da A. nei confronti della ex convivente, come desumibile da alcune lettere inviate da A.M. dopo il suo arresto e quindi l’interesse (pag. 18) di natura personale e familiare che traspariva come connesso a "quello che farò in appello". Si evidenziavano anche (pag. 42 e segg.) elementi di contrasto tra le dichiarazioni di A. e di R., tali da inficiare il giudizio di attendibilità di entrambi.

Ebbene la lettura della motivazione della sentenza impugnata evidenzia la mancata valutazione, in termini adeguati ed esaustivi, di tutti i sopradetti punti, notandosi, tra l’altro, che anche nella parte espositiva della vicenda processuale, la memoria depositata in udienza il 30 ottobre 2009 dall’avv. Vincenzo Luigi (ed affollata a ff. 488-544 del fascicolo) non appare neppure menzionata, evenienza che avvalora la censura di omessa motivazione sui punti in essa esposti.

Si ricava invero, dalla lettura della motivazione, che i giudici dell’appello hanno attribuito specifica rilevanza alla nuova chiamata di correo proveniente dall’ A., nonostante che, in mancanza di essa, i primi giudici fossero pervenuti comunque alla condanna della ricorrente.

La chiamata dell’ A., però, non rappresenta, nella economia della motivazione, un elemento meramente aggiuntivo a conferma di un quadro autonomamente già ritenuto chiaro ed esaustivo, non fosse altro che per la ragione che apportando elementi utili al costrutto accusatorio, ma anche elementi di novità e di notevole divergenza da quelle del R. dal punto di vista ricostruttivo, ha comportato, per il giudice dell’appello, la necessità di una rinnovazione della verifica anche dei dati emergenti dalla chiamata di correo del R., alla luce, appunto, delle novità emerse.

Si imponeva quindi in primo luogo la valutazione della chiamata di correo dell’ A., come sollecitata anche dalla difesa, secondo la regola di giudizio posta dall’art. 192 c.p.p., comma 3.

Non sarebbe più sufficiente, infatti, fermarsi aprioristicamente allo schema di ragionamento del primo giudice e alla constatazione della acquisizione della prima chiamata di correo (quella del R.) accompagnata da uno o più elementi oggettivi di riscontro (diversi dalla chiamata dell’ A.), se non passando attraverso una precisa analisi critica della incidenza (o meno) su tale quadro, dell’elemento probatorio nuovo rappresentato dalla chiamata di correo dell’ A. medesimo, frequentemente citato ed utilizzato nel compendio della motivazione esibita proprio a conferma delle dichiarazioni accusatorie del R. a carico della C..

E’ necessario, sul tema, richiamare il costante monito della giurisprudenza di legittimità anche a Sezioni unite secondo cui, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a mente del disposto dell’art. 192 c.p.p., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità soggettiva del dichiarante, soprattutto in riferimento alla genesi della sua risoluzione alla accusa dei complici; in secondo luogo verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità e soltanto da ultimo esaminare i riscontri cosiddetti esterni.

L’esame del giudice deve esser compiuto seguendo l’indicato ordine logico perchè non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli "altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità" se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa (Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 Ud. (dep. 22/02/1993) Rv. 192465).

E la ragione di un simile approccio alla prova scaturisce evidentemente dal sospetto che la eventuale esistenza di riscontri obiettivi ad una dichiarazione etero-accusatoria potrebbe formare oggetto di calunniosa precostituzione di questa da parte di chi intenda rivestire i panni di collaboratore per un interesse diverso dall’accertamento della verità: ferma restando ovviamente la legittimità della valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie relative al singolo dato, nei limiti ed alle condizioni poste unanimemente dalla elaborazione giurisprudenziale, una volta che sia stato adeguato conto della analisi tripartita di cui sopra.

Quando poi le chiamate di correo che si intendono valorizzare siano, come nella specie, più d’una, e quindi si intenda utilizzarle relativamente al fatto da provare (il coinvolgimento della C. secondo il capo di imputazione), una a riscontro dell’altra, come pure sembra avere ritenuto il giudice dell’appello nel caso in esame, opera la ulteriore regola di giudizio secondo cui le dichiarazioni accusatorie in questione devono caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza – intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente – da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la cd. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell’incolpato, sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d’accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere, (v. tra le molte, Sez. 2, Sentenza n. 13473 del 04/03/2008 Ud. (dep. 31/03/2008) Rv.

239744).

Nella motivazione in esame il giudice ha reso un quadro del tutto carente quanto alla illustrazione della genesi di entrambe le chiamate di correo e segnatamente alle ragioni della – evidentemente ritenuta – assenza di un interesse calunniatorio nei riguardi della ricorrente da parte sia di R. che di A..

In ordine alla posizione del primo, infatti, coinvolto dalle dichiarazioni di A. anche assieme al proprio fratello come soggetto che doveva gestire anche la custodia dell’ostaggio, è emerso un interesse a minimizzare la propria partecipazione al fatto, già segnalata anche dai giudici del merito sia pure limitatamente alla ricostruzione della fase della uccisione del piccolo T. (pag. 11).

Si tratta però della delineazione di un possibile interesse ad una versione adulterata della intera vicenda che riverbera i propri effetti anche sulla posizione della C., quale soggetto indicato dal R. come onerata della custodia del bambino.

Per quanto concerne l’ A., poi, viene indicato, quale motivo delle nuove accuse alla C., il timore di non avere le credenziali per l’affidamento del figlio G., ma si omette del tutto, da parte della Corte, la indicazione delle ragioni per le quali un simile timore non potrebbe avere generato una volontà calunniatoria agli stessi fini.

D’altra parte, è la motivazione della sentenza in esame a rendere evidente che la omissione rilevata non è bilanciabile con argomenti implicitamente desumibili da altri passaggi posto che sono gli stessi giudici dell’appello a dare atto a pag. 61 del provvedimento impugnato che " A.M. e R.S. si sono dimostrati soggetti complessivamente poco affidabili (il secondo anche meno del primo) e le loro dichiarazioni non sarebbero di per sè sole sufficienti per la formulazione di un giudizio di responsabilità a carico della chiamata". Si tratta di una valutazione, come detto, "complessiva" dell’apporto dei chiamanti e quindi non circoscrivibile, alla stregua di quanto affermato dai giudici, a singoli punti o passaggi delle loro ricostruzioni.

E’ quanto si desume dalla collocazione della affermazione a seguito del rilievo (contenuto a pagg. 60 e 61) secondo cui, da un lato, il racconto del R. sulla partecipazione della C. ai viaggi in montagna tesi a cercare il nascondiglio per l’ostaggio non ha trovato riscontri esterni (a quanto sembra neppure nelle dichiarazioni dell’ A.) e del rilievo secondo cui non coincide affatto il racconto di R. e A. su un altro particolare saliente ai fini della esatta ricostruzione dei tempi e modi della partecipazione della C. alla preparazione del rapimento:

quello dei tempi e modi e della occasione che aveva determinato il confezionamento dei passamontagna che gli esecutori del sequestro avrebbero dovuto calzare per non essere riconosciuti.

Ebbene, è del tutto irrazionale con tale premessa la successiva affermazione degli stessi giudici (ultimo capoverso di pag. 61), peraltro non argomentata, secondo cui vi sarebbe convergenza tra le chiamate dei due coimputati "per quanto attiene al diretto coinvolgimento di C. nella fase preparatoria ed organizzativa del sequestro, compresa la partecipazione ai viaggi in montagna e il confezionamento dei passamontagna".

E la manifesta illogicità si ravvisa non solo in riferimento a quella che appare una valutazione assolutamente non piana e logica dei limiti dell’apporto probatorio derivante dalle due chiamate di correo, considerate singolarmente e poi complessivamente, ma anche in relazione alla regola di giudizio che i giudici dell’appello hanno affermato di volere seguire: quella cioè secondo cui la valenza dimostrativa di ciascun indizio, di grado meramente possibilistico, verrebbe a mutare di natura e ad integrare una piena prova di colpevolezza per effetto della sommatoria e della valutazione integrata.

La regola, così declinata, è incompleta come si desume dall’insegnamento delle Sezioni unite secondo le quali in tema di valutazione della prova indiziaria, il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005 Ud. (dep. 20/09/2005) Rv. 231678).

Tale regola di giudizio, peraltro, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, ben può operare anche in relazione alla valutazione di una pluralità di chiamate di correo, delle quali non è esclusa nemmeno dalla giurisprudenza che possano in taluni casi valere non come prove ma soltanto come indizi o principi di prove (quando ad esempio non siano assistite da validi elementi di riscontro: così Sez. 3, Sentenza n. 4983 del 14/11/2007 Ud. (dep. 31/01/2008) Rv.

238801). Il punto propedeutico e imprescindibile relativo alla valutazione della chiamata di correo, però resta quello che essa o risulta parametrabile con esito positivo a tutti i criteri sopra enunciati e quindi vale come prova oppure, se tale non è e viene valutata come indizio, nei sensi e nei limiti detti, deve comunque rispondere al criterio fissato per la elaborazione degli indizi e cioè quello secondo cui gli indizi a fini di prova si differenziano dalle mere congetture perchè sono costituiti da fatti ontologicamente certi che, collegati tra loro, sono suscettibili di una ben determinata interpretazione (Sez. 2, Sentenza n. 43923 del 28/10/2009 Cc. (dep. 17/11/2009) Rv. 245606).

I giudici di rinvio dovranno cioè argomentare quale sia l’esatta capacità dimostrativa di ogni singolo elemento indiziante – comprese le chiamate di correo se ritenute tali – che intenda utilizzare ai fini della decisione.

Soltanto in tale sequenza logica si potrà passare a valutare gli altri elementi obiettivi indicati nella motivazione i quali, atteggiandosi ad elementi di riscontro delle chiamate di correo o comunque ad indizi sia pure convergenti, sono destinati ad una tipologia di valorizzazione e di valutazione differenziata a seconda che ricorra l’uno o l’altro caso; e sul punto, è appena il caso di puntualizzare che risulta apodittica l’affermazione della Corte di merito secondo cui la natura della telefonata delle 20,17, di cui non è stato accertato l’esatto contenuto, e che è stata anche rivendicata nella tesi difensiva ad una iniziativa rientrante nel contesto di rapporti anche legittimi, sarebbe quella di "una prova diretta o storica" della responsabilità della ricevente.

Gli ulteriori motivi restano assorbiti.

Inammissibile è invece il ricorso di A..

La concessione od il diniego delle attenuanti generiche rientra nel potere del giudice di merito. Questi quindi non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o ricavabili dagli atti del procedimento, ma è sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego di tali circostanze attenuanti, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri. In sede di impugnazione, dunque, il giudice di secondo grado può trascurare le deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame quando abbia individuato, tra gli elementi di cui all’art. 133 cod. proc. pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato e le deduzioni dell’appellante siano palesemente estranee o destituite di fondamento (Sez. 1, Sentenza n. 6200 del 03/03/1992 Ud (dep 22/05/1992) Rv.

191140).

Nella specie il giudice dell’appello non si è sottratto al dovere di motivazione e, come rilevato anche nell’atto di gravame dall’interessato, ha preso in considerazione l’elemento segnalato dalla difesa a sostegno della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio e lo ha ritenuto sub-valente rispetto alle altre emergenze ritenute meritevoli di valorizzazione nel giudizio da effettuare ai sensi dell’art. 133 c.p.p..

La Corte ha infatti menzionato il fatto che a far ritrovare il corpicino di T. fu l’ A. ed ha anche apprezzato il dolo d’impeto, ma ha ritenuto che, nel bilanciamento dei fatti significativi, meritasse preponderanza la nota di abiezione data dalla scelta degli imputati, di sacrificare la vita di un ostaggio che, oltretutto, in ragione dei suoi pochi mesi di vita, si sarebbe potuto anche abbandonare senza serio pregiudizio per la impunità dei colpevoli.

Rispetto a tale logica conclusione, rispettosa dei criteri cui il giudice deve conformarsi, la censura della difesa si atteggia come sollecitazione ad una autonoma rivisitazione delle emergenze di causa, rivolta inammissibilmente alla Corte di legittimità.

Il ruolo avuto dall’ A., dominante o gregario, non può certo costituire oggetto di valutazione nella presente sede, a prescindere dalla valutazione operata dal giudice del merito, il quale non ha mostrato di potere accreditare un comportamento del prevenuto della natura di quello rappresentato nei motivi di ricorso.

Il ricorso depositato il 3 febbraio al Tribunale di Parma, d’altra parte, contenendo motivi del tutto nuovi rispetto a quelli rappresentati nell’originario ricorso, e relativi al tema della "responsabilità" da concorso, avrebbe dovuto quantomeno essere presentato entro i termini previsti per il deposito tempestivo del ricorso per cassazione: ossia entro il 2 febbraio. Esso è quindi inammissibile per tardività e non può essere valutato, come detto, alla stregua di una memoria difensiva o di motivi consentiti ex art. 585 c.p.p. posto che la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi trova il limite del necessario riferimento ai motivi principali dei quali, i motivi aggiunti, devono rappresentare soltanto uno sviluppo o una migliore esposizione, anche per ragioni eventualmente non evidenziate ma sempre collegabili ai capi e ai punti già dedotti. Sono pertanto ammissibili motivi nuovi con i quali, a fondamento del "petitum" dei motivi principali, si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori (Rv. 230281). Sono viceversa inammissibili quelli che, come nella specie, introducono un tema non trattato nel ricorso originario, volto a rilevare un vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio.

Alla inammissibilità del ricorso di A. consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 1000.

Alla soccombenza consegue, d’altra parte, a carico dello stesso A., la condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili che hanno depositato la relativa notula, spese che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.A. e rinvia ad altra sezione della Corte di assise di appello di Bologna per nuovo giudizio nei confronti della stessa.

Dichiara inammissibile il ricorso di A. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 1000, nonchè alla rifusione delle spese delle parti civili difese dall’avv. Donata.

Capelluto, in questo grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3500 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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