Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-12-2010) 05-04-2011, n. 13634 Abuso di ufficio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Milano ha confermato (salvo la riduzione della sanzione inflitta), con sentenza del 18.12.2008, la decisione di condanna del Tribunale di Varese, resa il 10.5.2006, nei confronti degli attuali ricorrenti, accusati del reato di falso ideologico in atto pubblico, nonchè per F. anche del reato di abuso di ufficio.

L’addebito riguarda la redazione di una lettera, su carta intestata del Comune di (OMISSIS) e debitamente protocollata, in cui era affermato che l’agente di Polizia Urbana, C.R., aveva riscontrato – nell’esecuzione della delega di indagini ricevuta dal Pubblico Ministero – illecita attività di riporto di terra operato da alcuni soggetti.

La missiva risultava redatta in minuta dall’avv. S. V..

Affermazioni ritenute, in primo luogo, false sia quanto all’affermazione della C. di avere effettuato indagine obbedendo ad incarico disposto dal Pubblico ministero.

Dichiarazioni valutate, anche, integrative di abuso di ufficio poichè i responsabili del riporto di terra erano i proprietari di un fondo finitimo alla proprietà del F. (vice-sindaco del Comune di (OMISSIS)), ove questi stava edificando otto immobili e si trovava ad essere avversario in un contenzioso civile con i predetti, sia nella circostanza che il F. aveva delegato il tecnico comunale M. a svolgere un ulteriore sopralluogo locale a scopo ritorsivo verso i proprietari confinanti (accertamento che rilevava una costruzione abusiva di manufatti di legno insistenti su area demaniale).

La responsabilità del S. consisteva – secondo l’accusa – nell’aver redatto materialmente l’appunto, sfavorevole agli avversari del F., pur essendo egli il patrono del F. nella causa civile e, contemporaneamente delegato a seguire pratiche comunali.

La vicenda trasse origine dalla denuncia presentata da tali P., D. e L. presso la Procura della Repubblica di Varese.

Con essa costoro lamentavano che sul suolo di terreno, confinante con la loro proprietà, erano in atto lavori di edificazione nel cui contesto, in violazione alla normativa ambientale, era stato occluso il corso del torrente "(OMISSIS)", destinato alla raccolta delle acque piovane.

Alla denuncia seguiva, in data 29.1.2002, delega di indagine disposta dalla Procura della Repubblica di Varese e destinata al Comandante della Polizia municipale di (OMISSIS).

L’esito delle (apparenti) indagini era riportato a mezzo della lettera vergata dalla C., e di cui si è dianzi detto.

Ma, unitamente alla lettera, nella medesima busta, era rimasto inavvertitamente compiegato uno "schema di risposta" (pedissequamente ricopiato dalla C. sulla propria missiva), su carta intestata e con firma in calce dell’avv. S.V. (documento che risultava essere stato trasmesso a mezzo telefax al Comune di (OMISSIS)).

La C. nella lettera dava atto che i lavori edili erano stati eseguiti da impresa del F., ma che non erano ravvisabili depositi di terra, mentre attestava la illegittimità dell’opera di posizionamento di tombini sul torrente, condotta ascrivibile ai denuncianti.

Il PM contestava a F. ed a C. il reato di violazione di segreto di ufficio ( art. 326 c.p., comma 3: per essersi avvalsi di notizie di ufficio al fine di procacciarsi ingiusto profitto), ai predetti – in concorso con il S. – erano scritti anche i reati di cui agli artt. 323 e 479 c.p. (nonchè, di poi escluso in sede dibattimentale, pure il delitto di calunnia, così come era esclusa dall’addebito la posizione del S.L.).

Al processo avanti il Tribunale di Varese si costituivano parti civili i soli D. e L. nei confronti del F..

Con la decisione del 10.5.2006 il Tribunale assolveva la C. dal solo delitto di rivelazione di segreto.

Condannava gli altri per tutte le imputazioni.

La Corte d’Appello, rinviando per relationem alla motivazione della prima decisione, dichiarava di condividere la lettura fornita al materiale istruttorio, ritenendo perspicuo il vaglio sulla deposizione M., nonchè attendibili le persone offese.

Poi, argomentava in punto di diritto sulle altre questioni dedotte con il gravame di appello.

I ricorsi.

Il ricorso interposto dalle difese degli imputati si articola sui seguenti motivi:

Ricorso F.:

– carenza ed illogicità della motivazione (con indistinto motivo) che trascura, quanto alla violazione dell’art. 326 c.p.. a) che il F. non era destinatario della missiva del PM e della delega di indagini e, dunque, non tenuto al segreto sul documento pervenuto al Comune di (OMISSIS);

b) che il documento svelato consisteva in uno schema di comunicazione da trasmettere al PM e, come tale, non poteva qualificarsi quale comunicazione in sè;

c) difettava l’ingiusto profitto, poichè i fatti enunciati nella missiva a firma C. erano già oggetto di indagine giudiziale;

d) il F. non era mai stato sottoposto ad indagine penale per l’asserito riporto di terra;

– Quanto alla violazione dell’art. 323 c.p.. a) che non esisteva contenzioso con le parti civili, anzi (Motivo sub 1/a, pag. 8/9) erano state le parti civili a violare la legge, come si desume dal diniego da parte del TAR di sospensiva da esse richiesta; erano state, piuttosto, loro ad invadere l’alveo del torrente "(OMISSIS)" era – al contempo – doveroso per il Comune ripristinare la situazione legittima;

b) che l’ordine a M. di effettuare sopralluogo sul fondo non rilevava, non avendo costui svelato all’AG gli esiti delle verifiche;

c) che manca la prova per cui l’avv. S. avesse consapevolmente deciso di rendere risposte false o favorevoli al F.;

d) che non poteva affermarsi l’esistenza di un obbligo di astensione in capo al F., mancando una deliberazione collegiale o deliberativa;

e) che mancò un danno patrimoniale per le parti civili, non essendo derivato pregiudizio alcuno dal sopralluogo delegato al M. e non essendo nè certo nè economicamente apprezzabile il danno derivante dalle iniziative addebitate al F.;

f) che erronea risulta applicazione della legge penale per non avere ritenuto l’art. 323 c.p., quale norma sussidiaria e residuale, assorbito dall’art. 479 c.p., attesa la clausola di salvaguardia ("salvo che il fatto non costituisca più grave reato").

– inosservanza della legge processuale sia nello scrutinio dell’attendibilità delle versioni delle persone offese, trattandosi di vaglio che richiede una severa verifica, maggiore che per altri testimoni indifferenti all’esito della vicenda processuale, sia nell’omissione dell’esame del contenuto del deposto T.;

– erronea applicazione della legge penale quanto all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 323 c.p. che si concreta nella intenzionalità;

quanto alla violazione dell’art. 479 c.p. non essendovi prova del contributo rilevante fornito dal F. alla dicitura risultata infedele;

– non rilevando la infedele dicitura circa la delega di indagine con il contenuto dell’atto, che è risposta alle richieste formulate dalla Procura della Repubblica;

Ricorso S.:

– erronea applicazione della legge penale quanto alla condanna per la violazione dell’art. 323 c.p., in assenza di violazione di legge, non essendo stato il F. tenuto all’astensione ed avendo – anzi – il S. espletato il proprio mandato quale professionista incaricato dal comune, intrattenendo rapporti esclusivamente con il Tecnico comunale M. e non direttamente con il proprio cliente F., senza prova alcuna della consapevolezza di partecipare ad un atto criminoso nella sua veste di extraneus all’altrui disegno illecito; del resto il testo contenuto nella busta incriminata diretta alla Procura non fu direttamente redatto dal prevenuto, ma ricopiato materialmente della C. sicchè l’atto incriminato (da quegli definito "schema di comunicazione") non apparteneva all’avv. S.;

– erronea applicazione della legge penale quanto alla condanna per la violazione dell’art. 479 c.p. poichè l’inciso "nell’espletamento delle indagini delegate" era una clausola di stile, in sè assolta dalla C. con l’interpello del tecnico comunale M., pertanto, l’inciso rappresentava un "falso inutile", inoffensivo in relazione alla fede pubblica;

– carenza di motivazione poichè la decisione impugnata si richiama a quella del Tribunale, ma non motiva le ragioni di condivisione della giustificazione dei primi giudici, determinando in tal modo un vuoto motivazionale non consentito dal nostro ordinamento;

– erronea applicazione della legge penale per non avere ritenuto l’art. 323 c.p., quale norma sussidiaria e residuale, assorbito dall’art. 479 c.p., attesa la clausola di salvaguardia ("salvo che il fatto non costituisca più grave reato"): all’avv. S. la condotta addebitata è unica e non plurima, tale da consentire il concorso formale dei reati;

– prescrizione di tutti i reati, maturata alla data del 14.11.2009, considerate le sospensioni intervenute.

Ricorso C.:

– erronea applicazione della legge penale nell’aver condannato l’imputata al pagamento delle spese sostenute dalla Parte Civile per il grado di giudizio, pur non avendo la Parte civile presentato conclusioni nei confronti della C. ma soltanto del F.;

– erronea applicazione della legge penale nell’avere ritenuto ideologicamente falsa l’annotazione "nell’espletamento dell’attività delegata …", quando l’inciso non influiva sulla funzione attestativa del documento e sul suo contenuto (per il quale non è stata inflitta alcuna condanna, pur provenendo dal tecnico M.);

– erronea applicazione della legge penale quanto all’elemento soggettivo del reato di falso poichè nella ricostruzione operata dalla decisione si accenna ad una "incauta" leggerezza o negligenza da parte della donna, circostanza incompatibile con il dolo, momento necessario per l’integrazione della fattispecie; del resto le questioni edilizie – come risulta dai provvedimenti di merito – erano trattate dal M. sicchè in ogni caso la C. avrebbe dovuto rivolgersi al M., per poi compilare la risposta o farla compilare al S., sicchè non è dato ravvisare il falso in capo alla donna.

In data 16.11.2010 la difesa del F. ed in data 22.11.2010 quella di C. facevano pervenire alla Corte motivi nuovi con cui instava per l’annullamento senza rinvio per prescrizione dei reati.
Motivi della decisione

Deve preliminarmente riconoscersi fondamento al motivo da ultimo esposto dalla difesa di S.: tutti i reati sono estinti per prescrizione, poichè trova applicazione la nuova disciplina dettata dall’art. 157 c.p. come riformato dalla L. n. 251 del 2005 e come stabilito dalla relativa normativa transitoria: infatti, la sentenza del Tribunale è successiva all’entrata in vigore della novella.

La pena massima edittale per il falso ideologico, reato più severamente punito (sei anni) rinviene estinzione nel decorso di sette anni e sei mesi, considerate le sospensioni nella fase di appello, il termine è ormai spirato.

La circostanza aggravante dettata dall’art. 476 c.p., comma 2 (come richiamato dall’art. 479 c.p.), avente effetto speciale (rilevante, quindi, nella nuova disciplina normativa in tema di prescrizione, poichè eleva la pena difformemente dal canone dell’art. 64 c.p.), risulta presente nel capo di accusa, ma non nella rubrica.

Soprattutto, di essa non si rinviene cenno alcuno nè nel contesto dei provvedimenti decisoli, nè in seno ai motivi di appello e di ricorso dei difensori.

Ancora: la motivazione, delle decisioni dei giudici di merito prescindono da essa, pure nel computo della sanzione da irrogare.

Conseguentemente è necessario ipotizzare che essa sia stata implicitamente esclusa dai giudici (e dal PM che non si è doluto, quantomeno, del computo sanzionatorio).

Non si frappone, pertanto, ostacolo all’accoglimento dell’istanza formulata dai ricorrenti, quanto al compiuto decorso del periodo prescrizionale.

Tanto impone l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, quanto agli effetti penali.

Mentre agli effetti civili il Collegio osserva:

a) per ciò che trae alla imputazione ex art. 326 c.p. non è fondata la censura che esclude rilevanza alla condotta del F. in ragione della diversa soggettività del destinatario.

Infatti, in tema di segreto processuale, quale quello disciplinato dall’art. 329 c.p.p. con rilevanza in seno all’art. 326 c.p., il vincolo alla riservatezza assume connotato oggettivo (a differenza che per l’abrogato codice di rito), radicato sulla natura del documento investigativo.

Esso, quindi, prescinde dalla destinazione a cui l’atto è diretto ed impone il dovere di segretezza a tutti coloro che vengono in possesso del contenuto del documento riservato.

Segnatamente, per l’addebito qui formulato – la violazione dell’art. 326 c.p., comma 3 – il comportamento illecito viene indicato come lo sfruttamento di "notizie di ufficio", con ciò prescindendo dalla destinazione dell’informazione, essendo sufficiente che esse debbano rimanere segrete. b) Pertiene al profilo di fatto l’esame del contenuto del documento incriminato.

In ogni caso lo "schema di comunicazione" trasmesso al PM assumeva incontestabile rilievo giuridico sia per il suo contenuto sia in ragione della competenza dell’Ufficio a cui era destinato, non palesando interesse, al proposito, la finalità per cui i prevenuti ricopiarono il testo della minuta redatta dall’avv. S..

Per questo motivo, la decisione impugnata ha apprezzato l’oggetto della informazione e, giustamente, ha trascurato la tipologia del messaggio. c) Sui motivi di tutti i ricorrenti relativi alla possibilità di concorso di persone nei reati di falso ideologico e di abuso di ufficio, il Collegio osserva che il fulcro dell’abuso perpetrato, contestato ai prevenuti (in soccorso alle intenzioni del F.), è individuato non già nella mancata astensione del Vice Sindaco dal partecipare – grazie ai suoi poteri derivanti dalla posizione pubblicistica – alla vicenda che lo interessava ed in cui agiva quale protagonista nella vertenza privata (la mancata astensione è una, ma non la sola, delle modalità di condotta considerate dall’art. 323 c.p.), bensì nell’aver, ancora, commissionato al M., valendosi della posizione pubblicistica di supremazia, ulteriore sopralluogo nell’area di proprietà degli avversati in seno alla vicenda che aveva originato il contrasto.

In ordine al primo profilo della contestazione non può che convenirsi con i ricorrenti: il carattere sussidiario e residuale del reato di abuso d’ufficio – desumibile dalla esplicita riserva "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", contenuta anche nella nuova formulazione dell’art. 323 c.p., dovuta al D.P.R. n. 234 del 1977 – implica che, qualora la condotta addebitata si esaurisca soltanto nell’azione di falsificazione documentale (come nel caso di specie, secondo quanto sarà successivamente osservato), soltanto di quest’ultimo illecito l’agente deve rispondere e non anche dell’abuso d’ufficio, da considerare assorbito nell’altro.

Ma anche per il secondo versante, non è dato ravvisare l’illecito in discorso: infatti, non è stata dimostrata l’ingiustizia del profitto nel verificare una situazione di irregolarità urbanistica, per il tramite dell’incaricato comunale a ciò specializzato, tanto aderendo al compito proprio del Vice-Sindaco (e non risulta dalle decisioni di merito che l’indagine accedesse ad una situazione di perfetta regolarità), che – anzi – risultava, al proposito, omissivo nell’adempimento dei suoi doveri.

La circostanza che l’indagine fu dettata da un movente di vessazione verso il privato/avversario è – alla luce della nuova formulazione della fattispecie ed in assenza di denunciata violazione normativa – irrilevante, segnalando, al più, sovrapposizione di interessenza privatistica su un dovere di natura pubblica, notoriamente estranea al precetto nella sua versione novellata (essendo, al contrario, il punto focale dell’abrogato art. 324 c.p.). d) La responsabilità dei ricorrenti nella condotta di falso documentale è ravvisata dai giudici milanesi del merito esclusivamente (cfr. Sent. pag. 15) nell’inciso contenuto nella missiva per cui l’informazione faceva seguito allo svolgimento di attività di indagine.

Infondate sono le censure dei ricorrenti sul punto.

L’amministrazione comunale era stata espressamente incaricata di fornire risposta all’AG in merito alla vicenda, perchè sollecitata dalla denuncia dei privati.

Era ovvio, pertanto, che le risposte attenessero ad un’attività di indagine di PG. E’, al contempo, indubitabile che la serietà della risposta discendesse dalla premessa che inquadrava l’informazione quale esito di accertamenti svolti a proposito della richiesta formulata dalla Procura della Repubblica.

Da tanto consegue sia la penale rilevanza dell’inciso, incompatibile con la mera qualifica di clausola di stile, sia l’influenza della stessa sul contenuto dell’atto, poichè il documento era globalmente connotato da ufficialità e serietà comunicativa, essendo omologato ad un vero e proprio rapporto di Polizia giudiziaria.

Attiene al fatto la valutazione del concreto contributo fornito da ciascun ricorrente nel reato: la Sentenza ha ragionevolmente qualificato (Sent. pag. 16) l’apporto del F. nella sua veste di "ispiratore" della missiva, coerentemente con le premesse aderenti alla ricostruzione della vicenda.

Gli altri due imputati, S. e C., furono i materiali estensori del contenuto dell’atto.

La loro partecipazione risulta, quindi, ancorata al dato istruttorio.

E’ manifestamente infondato l’inquadramento della condotta della C. in comportamento colposo, essendo evidente che l’allusione all’infortunio inconsapevole ("buccia di banana"), contenuta nella sentenza impugnata, attiene, non già alla scarsa diligenza nella compilazione della lettera, bensì alle cautele da assumere, nello svolgmento dell’operazione, per evitare incriminazioni. e) Non è astrattamente infondata la censura (portata dai ricorsi di F. e di S.) sulla metodologia argomentativa della pronuncia.

Invero, in tema di motivazione della sentenza di appello, se è ammissibile un richiamo alle motivazioni della prima sentenza ed anche il parziale rinvio per relationem ad esse, quando si traducano in una mera e pedissequa ripetizione dei medesimi argomenti già affacciati dal giudice di primo grado è, al contempo, onere indefettibile del giudice di appello la considerazione dei singoli motivi di doglianza formulati dalle parti nel gravame quando censurino le conclusioni della prima pronuncia o prospettino critiche ad esse.

Tuttavia, nel caso concreto, è dato riscontrare – nonostante la premessa programmatica – sufficiente attenzione, pur nella brevità dedicata, alle singole censure avanzate dagli appellanti. f) E’ fondata la censura avanzata dalla C. nell’eccepire l’erronea applicazione della legge per aver condannato l’imputata al pagamento delle spese sostenute dalla Parte Civile per il grado di giudizio, pur non avendo la Parte civile presentato conclusioni nei confronti della C. ma soltanto del F.;

E’, infatti, illegittima la condanna dell’imputato alla rifusione delle spese di costituzione e difesa della parte civile, quando per mancata presentazione delle conclusioni, all’esito del dibattimento, deve ritenersi revocata l’istanza privata nel processo penale facendo così cessare il rapporto processuale; del resto, la statuizione in esame è consentita solo nel caso di condanna dell’imputato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata essendo i reati estinti per prescrizione e, nei confronti della C., anche nel punto delle statuizioni civili a suo carico, che elimina; rigetta, agli effetti civili, i ricorsi di F. e S..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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