Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 12-11-2010) 05-04-2011, n. 13571 Motivi di ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- A conclusione delle indagini preliminari C.D., minore degli anni diciotto al momento del fatto (quindici anni), è stato tratto a giudizio per rispondere dei delitti di: 1) concorso in omicidio premeditato, aggravato da motivi abbietti e da finalità mafiose ( L. n. 203 del 1991, art. 7), commesso a (OMISSIS) in pregiudizio di R.C., attinto al capo (regione parieto-occipitale sinistra) da un unico colpo mortale esploso con un fucile da caccia; 2) concorso in porto illegale di un fucile da caccia (aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7) allo scopo di commettere il predetto omicidio.

All’esito di articolato giudizio ordinario il Tribunale per i Minorenni di Catania con sentenza resa il 28.7.2003 ha dichiarato il C. colpevole dei reati ascrittigli unificati dalla continuazione e, esclusa l’aggravante della mafiosità dell’azione e concessagli l’attenuante della minore età stimata prevalente sulle residue aggravanti, lo ha condannato alla pena di quattordici anni e sei mesi di reclusione.

Tra le ore 17.30/18.00 dell'(OMISSIS), mentre si trova nella sala biliardi Golden House che gestisce nel rione o quartiere Borgata di Siracusa, R.C., soprannominato "(OMISSIS)" negli ambienti della criminalità locale, è ucciso, come poi chiarito dall’esame autoptico e medico-legale, da un solo colpo di fucile (con tutta probabilità canne mozze) armato con cartuccia a carica multipla, esploso dalla distanza di due – tre metri, che lo raggiunge alla tempia sinistra, nell’atto in cui si gira verso l’omicida, uccidendolo all’istante per la distruttiva azione dei pallini della cartuccia apertisi "a rosata" all’interno della teca cranica.

L’assenza di un foro di uscita per la descritta carica multipla (shot multi-charge) della pallottola che raggiunge la vittima impedisce una precisa localizzazione dello sparatore e del R. e di definire l’angolazione del tiro mortale, se non in termini approssimativi (rosata del colpo parallela al cranio del R.).

Sulla base degli elementi di prova generica e specifica acquisiti nel corso delle indagini e trasfusi nell’odierno processo oltre che nei processi svoltisi nei confronti del fratello d’odierno imputato, C.G., giovane ed emergente capo di una frangia criminosa denominata "gruppo Borgata" attiva nell’area territoriale sotto il controllo del sodalizio mafioso siracusano facente capo a B.S. e A.A., il Tribunale minorile giudica sorretta da concordi e persuasivi dati probatori l’accusa contestata a C.D. quale esecutore materiale dell’omicidio. Compiuto su mandato del fratello G., in quel momento detenuto nel carcere di Siracusa insieme a G. G., sodale del suo "gruppo" di giovani criminali aspiranti mafiosi. Il movente del delitto è individuato, in linea di massima, con l’asserito rifiuto del R. di versare a C.G. e al suo aggregato criminoso il "pizzo" mensile di 500,00 Euro per la conduzione della sala giochi ed altresì con i sospetti che si addensano sul suo conto come confidente della polizia. A tale causale omicidiaria nel corso del processo se ne affiancheranno anche delle altre, quali il tentativo del R. di monopolizzare in danno del C. e dei suoi sodali i traffici di sostanze stupefacenti nella Borgata di Siracusa od anche quello di aver indotto le madri dei fratelli C. e del G. all’uso di droga e alla prostituzione. Moventi che, nella loro poliedricità, non si rendono incompatibili tra loro, convergendo nell’attestare un quadro di radicato malanimo da parte di C.G. nei confronti del R., sì da indurlo ad ordinare al giovane fratello D. di ucciderlo.

Tanto puntualizzato, i giudici di primo grado valutano acquisite le prove della colpevolezza di C.D. di seguito sintetizzabili.

L’imputato, trovato dai funzionari di polizia giunti sul luogo dell’omicidio a curiosare con altri astanti presso la sala biliardo dell’ucciso, è condotto in Questura per verificarne la posizione ed eventuali alibi. Talune circostanze suffragano nel frattempo i sospetti nutriti nei confronti del giovane: nella sua abitazione poco distante dal luogo dell’omicidio è rinvenuta una cartuccia da fucile calibro 12 all’interno di un casco da motociclista. La cartuccia è compatibile con il tipo di arma con cui, fin dai primi rilievi, si comprende essere stato ucciso il R. e l’unico testimone dell’episodio, per quanto reticente e intimorito, tale Ra.

V., presente nella sala giochi del R., ha riferito di aver per breve tempo visto l’aggressore impugnare un fucile e indossare un casco da motociclista tale da non renderlo riconoscibile. Gli operanti decidono di procedere, previa rituale autorizzazione dell’A.G. e alla presenza del difensore dell’indagato, al prelievo con tampone adesivo dei residui di polvere da sparo (processo di metallizzazione c.d. stub) sulle mani del C.. Il prelievo finalizzato ai successivi accertamenti tecnici è eseguito ad alcune ore di distanza dall’episodio criminoso (ore 23.40 circa), ma la sua validità è garantita dal fatto che i funzionari di polizia -proprio in previsione di un simile incombente- hanno avuto cura di tenere sotto sorveglianza il C. per tutto il tempo in cui è rimasto in Questura, impedendogli di lavarsi le mani e di poter rimuovere eventuali tracce dello sparo.

Gli esami e l’analisi spettroscopica eseguiti dal consulente tecnico del p.m., il funzionario di polizia (in servizio presso il Gabinetto di Polizia Scientifica del Ministero dell’Interno) Be., a lungo esaminato in dibattimento nel contraddittorio delle parti, suffragano senza incertezze l’uso recente di un’arma da sparo da parte dell’imputato del tipo di quella con cui è stato ucciso il R. (fucile da caccia armato a pallettoni). Il tecnico ha rilevato, infatti, la presenza di due particelle di polvere da sparo (piombo e bario) non esclusive sulla mano destra del C. e di una particella univoca più grande (piombo, bario e antimonio) sulla mano sinistra (sentenza p. 8: "…a fronte del rinvenimento di una particella univoca il peso probante delle due particelle non esclusive assume una pregnanza probatoria più significativa…"). A ciò deve aggiungersi che la particella di residui da sparo univoca contiene anche tracce di stagno. Emergenza che, con il conforto delle osservazioni del consulente del p.m., induce il Tribunale ad escludere l’ipotesi di possibili contaminazioni ambientali del C. adombrata dalla difesa (in quanto trasportato su una autovettura di polizia e tenuto nei locali della Questura ove sono presenti armi da sparo e persone armate), vuoi perchè i funzionari di polizia non fanno reale quotidiano uso di armi nella loro attività, vuoi soprattutto perchè lo stagno è elemento del tutto assente nelle munizioni delle armi in dotazione delle forze di polizia, ma sicuramente ancora presente nelle munizioni per fucili da caccia. Ciò che vieppiù conferma l’affidabile attribuzione al C. dell’uso di un’arma e di munizioni in tutto simili a quelle impiegate per l’omicidio del R..

L’imputato è stato specificamente indicato come l’autore dell’omicidio su mandato del fratello G. dal collaboratore di giustizia P.R., già autorevole membro del sodalizio mafioso Bottaro-Attanasio promotore e patrocinatore delle gesta criminose della succursale o appendice giovanile della Borgata guidata da C.G. (definita dal collaboratore "il vivaio del nostro gruppo"). Il P. ha riferito di aver appreso le circostanze direttamente dal coautore dell’omicidio C.G. e da G.G. durante la comune detenzione, per i mesi centrali del 2002, nel carcere di Siracusa, ove egli non tarda ad entrare in confidenza con i due giovani criminali, che lo rispettano come importante membro dell’organizzazione del B. e dell’ A., i quali ne caldeggiano la protezione agli altri detenuti con missive e cartoline inviate in carcere. La dinamica dell’omicidio R. è appresa dal P. in coincidenza con il visibile stato di preoccupazione che C.G. manifesta per il fratello nell’ultima parte del giugno 2002, epoca in cui stanno per essere esperiti gli accertamenti tecnici sul tampone stub prelevato al fratello. Dato veridico perchè effettivamente è stato possibile svolgere tali accertamenti soltanto in data 1.7.2002.

Nell’occasione il C. rivela di aver fatto assassinare il R. perchè "infame" e perchè non disposto a pagare il pizzo. Il Tribunale ha ritenuto pienamente affidabili le propalazioni accusatorie (chiamata in reità) del P.. Sia sotto il profilo della credibilità intrinseca: il collaboratore si è accusato del reato di associazione mafiosa e di diversi episodi di estorsione per i quali non era mai stato indiziato. Sia sotto il profilo della credibilità estrinseca con riferimento alla dinamica modale e storica del rapporto confidenziale instaurato in carcere con il fratello e mandante del giovane esecutore dell’omicidio e con l’altro detenuto G.: dal maggio al luglio 2002 i tre sono detenuti nel carcere di Siracusa e fruiscono dei medesimi spazi per l’ora d’aria;

effettivamente il 27 maggio, come riferisce P., il C. è ricoverato in ospedale per una appendicite; la reale conoscenza di C.G. dell’imminente accertamento tecnico sui tamponi prelevati al fratello D. è fatta palese dalla comunicazione allo stesso D., avvenuta l’11.6.2002, della data dell’incombente tecnico presso il Gabinetto di Polizia Scientifica e dal colloquio di D. con il fratello subito dopo svoltosi in carcere (il 17.6.2002).

Per il Tribunale l’esito positivo dell’accertamento sui residui di polvere da sparo presenti sulle mani del C. e le attendibili dichiarazioni accusatorie del c.d.g. P. nei suoi confronti si integrano reciprocamente, in una ottica probatoria di c.d. convergenza del molteplice, attestando la piena fondatezza dell’impianto accusatorio.

Quanto al trattamento sanzionatorio e agli elementi circostanziali del fatto criminoso, il Tribunale minorile ha ritenuto sussistenti le due contestate aggravanti dei motivi abbietti, per il palese disprezzo della altrui vita che ha caratterizzato l’azione delittuosa, e della premeditazione, il proposito omicidiario essendo maturato nei due autori (mandante ed esecutore) progressivamente e in reazione al rifiuto della vittima di soggiacere alle pretese estorsive dei C. e del loro gruppo. Il Tribunale, valutando subvalenti le due aggravanti rispetto alla riconosciuta diminuente della minore età dell’imputato, ha escluso – invece- l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 in difetto di dati idonei a provare che l’omicidio sia stato consumato per agevolare l’attività e il predominio territoriale della consorteria riconducibile a C.G. e ad altri criminali del rione Borgata (sentenza, p. 22: "…non si è coltivata in dibattimento la prova circa la soggettiva partecipazione dell’imputato alla predetta organizzazione, nè si è approfondita la prova della sua esistenza, che per una pronuncia di sussistenza della circostanza aggravante, avrebbe necessitato l’acquisizione di ulteriori elementi").

2.- Adita dall’impugnazione del C., la Sezione Minorile della Corte di Appello di Catania con la sentenza del 26.11.2007 indicata in epigrafe ha confermato la penale responsabilità dell’imputato, condividendo l’indagine ricostruttiva dei fatti integranti la regiudicanda e le valutazioni probatorie sviluppate dal Tribunale e considerando infondati le eccezioni di nullità e i rilievi critici sulle fonti di prova svolti con gli atti di appello dei codifensori del C. contro la decisione di primo grado.

Indagine e valutazioni che nel corso del giudizio di secondo grado hanno rinvenuto ulteriori e significativi supporti probatori.

Nel corso della rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale disposta di ufficio ( art. 603 c.p.p., comma 3) dalla Corte di Appello minorile:

– sono state acquisite le dichiarazioni, omologhe a quelle già rese nel giudizio di primo grado del presente processo, rilasciate dal c.d.g. P.R. nel separato processo svoltosi a carico di C.G. ed altri anche per l’omicidio R.;

– sono state acquisite le dichiarazioni di altro collaborante (rese nel citato processo contro C.G.), Cr.Pa., che ha riferito di aver ascoltato in carcere un dialogo tra altri due detenuti concernente l’uccisione del R. e la sua attribuzione a C.D., che ha sparato con un fucile;

– sono stati esaminati i collaboratori di giustizia, D.C. A. e S.M. (collaborazione iniziata dopo l’appellata sentenza del Tribunale): D.C. ha riferito di aver appreso dallo stesso capo-clan A.A. dell’omicidio R. attuato dai fratelli C. e materialmente eseguito dal minorenne, omicidio da collegare, oltre che a personali risentimenti dei C. (il cui padre già negli anni passati aveva manifestato il proposito di eliminare il R.), al ruolo di confidente assunto dal R. e al suo rifiuto di pagare il pizzo; S. ha riferito le stesse circostanze per averle apprese da G. G. durante una detenzione comune, ricevendone poi ulteriore conferma dallo stesso esecutore C.D. nel 2006;

– acquisite le certificazioni sui luoghi e periodi di detenzione subiti dai collaboratori e dalle persone da essi menzionate negli anni relativi all’avvenuta conoscenza dei fatti di causa, sono stati esaminati – quali testi di riferimento – A.A. (che ha attribuito al c.d.g. P. l’omicidio del R.), G. G., Sc.Ma. e D.F.S. (hanno negato di aver fatto ai collaboratori le confidenze da essi riferite);

– sono state acquisite la sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania del 21.12.2006, che -accogliendo l’appello del p.m. contro la decisione assolutoria di primo grado- ha riconosciuto C. G. responsabile del concorso, in veste di mandante, dell’omicidio di R.C. eseguito dal fratello D., e della sentenza del 15.6.2007 della Corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso avverso detta sentenza di appello, rendendo definitiva la condanna di C.G. per l’omicidio R..

La Corte territoriale ha giudicato affidabili e convergenti, ad onta delle contrarie prospettazioni dei testimoni di riferimento, risultate per più versi mendaci, le dichiarazioni accusatorie dei collaboranti per un triplice ordine di ragioni.

Le accuse rivolte all’imputato come esecutore materiale dell’uccisione del R. sono dotate di intrinseca credibilità per il vissuto personale dei singoli propalanti e per il credito che le loro rivelazioni hanno riscosso in separati procedimenti.

Le accuse medesime sono suffragate, sul piano della attendibilità estrinseca, dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna di C.G. come concorrente e ispiratore dell’omicidio, gli attuali collaboranti avendo reso dichiarazioni omologhe a quelle riguardanti C.D. nel processo contro il fratello G., le critiche rivolte in tale processo alle dichiarazioni del P., del D.C. e dello S. essendo state smentite dalla decisione della Cassazione, che nel rigettare il ricorso di C.G. contro la sentenza di condanna in appello ha ritenuto indenne da rilievi l’apprezzamento della credibilità accusatoria dei tre collaboranti espresso dalla Corte di merito.

Ancora sul piano dei riscontri "esterni" le accuse dei collaboranti sono decisivamente accreditate dall’esito dell’accertamento sui prelievi dei residui di polveri da sparo sulle mani dell’imputato, che conclamano l’uso di un’arma da fuoco da parte dell’allora minorenne imputato e segnatamente di un fucile, avuto riguardo alla decisiva presenza anche di stagno nelle tracce rilevate. Elemento che entra nella composizione delle sole cartucce per fucili da caccia e non si rinviene nelle cartucce delle armi degli organi di polizia.

Donde l’ulteriore inferenza della inconsistenza della ipotesi di contaminazione ambientale delle mani dell’imputato e la sopravvenuta superfluità, tenuto conto dei complessivi elementi di giudizio raccolti attraverso la rinnovata istruzione dibattimentale, di una perizia tecnica sui campioni stub prelevati al C., di cui pur in origine la stessa Corte di Appello aveva ravvisato l’utilità. 3.- Avverso l’illustrata decisione di appello ha proposto ricorso per cassazione C.D. con il ministero dei suoi due difensori, che hanno presentato due distinti atti di impugnazione deducenti plurimi vizi di violazione di legge e di difetto e illogicità di motivazione.

Intuibili ragioni di speditezza espositiva suggeriscono di far seguire alla enunciazione, per gli effetti cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, dei motivi di ricorso esposti dai due difensori del C. le immediate valutazioni di questo giudice di legittimità. Fin d’ora, tuttavia, anticipandosi che il ricorso di C.D., unitariamente considerato, deve essere rigettato sia per la giuridica infondatezza dei motivi proposti, sia -in taluni casi- per la loro intrinseca indeducibilità, in quanto generici (id est aspecifici), siccome replicanti invariati motivi di gravame privi di concreti rilievi critici sul percorso decisorio della sentenza di appello, ovvero attinenti a profili di merito imperniati su una lettura alternativa e una reinterpretazione dei dati processuali e delle fonti di prova meramente fattuali e, per ciò stesso, estranee al giudizio di legittimità, tenuto conto della coerenza logica e della corretta applicazione dei canoni di valutazione della prova che connotano la decisione di appello e la confermata decisione di primo grado.

Sotto quest’ultimo aspetto l’analisi critica esperibile dal giudice di legittimità in ossequio al principio devolutivo dell’impugnazione, impone una rapida premessa metodologica in ordine ai referenti o parametri di giudizio utilizzabili in questa sede. La giurisprudenza di questa Corte regolatrice ha chiarito come il giudice di legittimità, ai fini del vaglio di congruità e completezza della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento -ove si tratti di una sentenza pronunciata in grado di appello- sia alla sentenza di primo grado che alla sentenza di secondo grado, che si integrano vicendevolmente in sinergica funzionalità, dando origine ad enunciati ed esiti assertivi organici ed inseparabili. Dato che diviene ancor più rilevante quando, come nel caso di cui all’odierno ricorso, la sentenza di appello abbia confermato per intero in punto di responsabilità le statuizioni del primo giudice, condividendone le valutazioni probatorie. Con la peculiarità, nel caso di specie, che l’autonomo vaglio delle emergenze processuali esperito dalla Corte di Appello si è ampliato ed arricchito, nei termini prima indicati, con ulteriori e nuove fonti probatorie venute in luce nel corso della rinnovata istruttoria dibattimentale. Peculiarità che in definitiva ha fatto sì, nel rispetto ed anzi a più estesa tutela delle ragioni difensive dell’imputato, che il processo di secondo grado sia stato scandito – ai sensi dell’art. 603 c.p.p., comma 3 – non tanto dalla semplice reiterazione delle assunzioni probatorie preesistenti, quanto piuttosto da una evoluzione progressiva delle acquisizioni probatorie, quali quelle rappresentate: dagli apporti conoscitivi di nuovi collaboratori di giustizia ( D.C., S., Cr.) sovrappostisi a quelli offerti dal P., già ritenuti sufficienti in primo grado per affermare la responsabilità del ricorrente in uno alle emergenze dei reperti dei tamponi stub; dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna di C. G. per concorso nello stesso fatto omicidiario ascritto all’odierno ricorrente, basata in sostanza su prove storiche e dichiarative comuni al presente processo; dal passaggio in giudicato, come rileva l’impugnata sentenza di appello, della posteriore condanna del ricorrente per il delitto di associazione mafiosa connesso all’attività criminale del clan Borgata di Siracusa (analoga condanna definitiva, va aggiunto, essendo stata riportata da C.G., mandante dell’omicidio del R.).

4.- Con il ricorso a firma dell’avv. Giambattista Rizza si profilano quattro motivi di impugnazione.

1. Erronea interpretazione dell’art. 468 c.p.p. in relazione all’art. 111 Cost..

La sentenza di appello ha respinto l’eccepita nullità dell’ordinanza con cui il Tribunale ha giudicato tardivo il deposito della lista testimoniale della difesa, perchè avvenuto oltre la scadenza del termine di sette giorni anteriori alla fissata prima udienza previsto dall’art. 468 c.p.p., comma 1. I giudici di appello hanno escluso la ritualità del deposito della lista avvenuto il 3.6.2003 (udienza stabilita per il 10.6.2003) per essere il precedente giorno 2 festivo, ipotizzando che la lista testimoniale avrebbe dovuto essere presentata il precedente 1.6.2003, non trovando applicazione nel caso di specie il disposto dell’art. 172 c.p.p., comma 3, secondo cui il termine scadente in giorno festivo è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo, il momento per depositare la lista testimoniale essendo soltanto quello antecedente finale dei sette giorni precedenti l’udienza, giorni da computarsi "interi e liberi".

L’interpretazione della Corte di Appello, che impropriamente estende il termine per il deposito della lista, è erronea e contraria ai principi del giusto processo ( art. 111 Cost.), finendo per privare l’imputato del diritto alla prova.

Il motivo di ricorso è infondato.

Il ragionamento seguito dalla sentenza impugnata è giuridicamente ineccepibile, perchè aderente alla corretta esegesi del computo del termine perentorio previsto a pena di inammissibilità dall’art. 468 c.p., comma 1. La norma prevede, infatti, unicamente il "momento finale" del termine di deposito della lista testimoniale, che deve precedere di sette giorni interi e liberi l’udienza introduttiva del giudizio ordinario di primo grado, come espressamente stabilisce l’art. 172 c.p.p., comma 5. In tali casi non può ovviamente valere la diversa regola della proroga automatica del termine scadente in giorno festivo stabilita dall’art. 172 c.p.p., comma 3 (cfr. Cass. Sez. 3, 2.3.1994 n. 4711, Proietto, rv. 197605). Nessuna lesione del diritto di difesa dell’imputato, nella sua manifestazione di diritto alla prova, si è comunque prodotta in pregiudizio del ricorrente, atteso che -come precisa la sentenza- la Corte di Appello si è in ogni caso fatta carico, a prescindere dalla intempestività del deposito della lista, di vagliare nel merito le prove in essa indicate ai fini della loro eventuale assunzione nel quadro della rinnovazione istruttoria ex art. 603 c.p.p., comma 3. Vaglio infausto per la rilevata inconferenza delle fonti probatorie evocate.

2. Violazione dell’art. 192 c.p.p. e difetto di motivazione in riferimento al ruolo conferito ex art. 501 c.p.p. al consulente tecnico del p.m. in punto di accertamento delle tracce dei residui di sparo sulle mani del C..

Sia la Corte di Appello che il Tribunale hanno incongruamente gratificato il consulente Be. di una totale credibilità che non soltanto non è giustificata dalla sua preparazione professionale (è un funzionario di polizia con qualifica di tecnico di laboratorio della Polizia Scientifica), ma si pone in contrasto con il suo ruolo di consulente di parte, cioè di difensore tecnico di una delle parti che per forza di cose si adegua alla logica processuale di cui quella è portatrice. In tale prospettiva non è condivisibile l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 501 c.p.p. che conferisce al consulente di parte la sostanziale qualità del testimone, cioè di una persona che non dovrebbe essere portatrice di interessi particolari nel processo. Nel corso del dibattimento di primo grado, del resto, il Be. non ha nascosto l’insofferenza per le critiche difensive sul valore probatorio riconoscibile all’unica particella univoca per residui dello sparo localizzata sulla mano sinistra del C.. Immotivatamente la Corte di Appello non ha constatato come il Tribunale, non consentendo l’esame del consulente tecnico della difesa (un docente universitario), abbia vulnerato il diritto difensivo dell’imputato alla "controprova".

L’articolato motivo di censura, in gran parte generico poichè traslittera le stesse doglianze espresse con l’atto di appello senza condurre alcuna critica alle risposte offerte dall’impugnata sentenza di secondo grado, è privo di pregio.

Il valore degli apporti processuali di natura tecnica non discende dai soli titoli scientifici dei consulenti o dei periti ma soprattutto dalla loro specifica competenza nella materia oggetto di approfondimento. Nel caso di specie l’esperienza e la conoscenza casistica del consulente Be., che per ragioni professionali effettua quotidianamente indagini di rilevamento di residui di polveri da sparo, avvalendosi di attrezzature per le analisi spettroscopiche di elevato livello tecnico (Gabinetto di Polizia Scientifica del Ministero dell’Interno), non sembrano in alcun modo dubitabili, come rimarcano le due concordi sentenze di merito. In particolare la sentenza di primo grado, che a lungo si sofferma sui rilievi critici sollevati dai difensori dell’imputato sul peso dimostrativo e sulla interpretazione (in special modo per l’ipotesi della addotta eventuale "contaminazione" ambientale del C.) delle particelle significative e univoche riscontrate sulle mani dell’imputato. Affatto incongrua è la riserva espressa sulla applicazione delle regole procedurali di cui all’art. 501 c.p.p., che attribuisce alle dichiarazioni dei consulenti tecnici di parte, intervenuti in ambito peritale o extraperitale, lo stesso valore probatorio di quelle testimoniali (v. Cass. Sez. 3, 17.1.2008 n. 8377, Scarlassare, rv. 239281). Equiparazione che risponde alla logica e alla dinamica del processo di parti, in cui ogni contributo testimoniale e dichiarativo (e quindi anche quello dei consulenti o dei periti) deve superare un controllo di attendibilità complessiva del dichiarante da parte del giudice di merito, che ne verifichi l’idoneità rappresentativa, dando conto del percorso di formazione del convincimento al riguardo raggiunto con una motivazione che, se corretta logicamente e giuridicamente come deve constatarsi nel caso delle due sentenze di merito nei confronti di C.D., non è scrutinabile in sede di legittimità. Tanto più, conviene aggiungere, che il nucleo del convincimento sul valore dimostrativo dei pareri espressi da consulenti o da periti è costituito da un tipico giudizio di fatto. Un giudizio che sottrae a censure di legittimità la selettiva opzione del giudice di merito per la tesi che valuta più persuasiva e affidabile tra le diverse tesi tecniche prospettate da periti e/o da consulenti di parte, purchè la sentenza dia conto in motivazione delle ragioni di tale scelta valutativa, del contenuto del parere o dei pareri disattesi e delle eventuali deduzioni contrarie delle parti (cfr. Cass. Sez. 4, 6.11.2008 n. 45126, Ghisellini, rv. 241907). Requisiti tutti ravvisabili nella decisione della Corte di Appello minorile di Catania oggetto di ricorso.

Non hanno ragion d’essere, poi, i rilievi sulla mancata assunzione testimoniale del consulente tecnico della difesa. Non senza rimarcare che nel caso di specie l’accertamento tecnico del consulente Be. si è svolto nella forma garantita prevista dall’art. 360 c.p.p. (emergenza che sfugge ai ricorrenti difensori), la Corte di Appello etnea ha correttamente escluso che la mancata audizione del consulente tecnico della difesa del C. si sia tradotta – a fronte della ritenuta esaustività delle indicazioni tecniche fornite dal consulente del p.m. Be. – in una causa di nullità della sentenza di primo grado per asserita violazione del diritto alla controprova. Il Tribunale aveva ammesso inizialmente l’esame del consulente della difesa ai sensi dell’art. 507 c.p.p., revocando poi l’ammissione, sia per l’impossibilità del consulente di intervenire nella prestabilita udienza di differimento, sia soprattutto per la constatata completezza dell’esame del consulente del p.m. (v. sentenza di appello: "…potendo essere presentato il consulente direttamente a dibattimento…tuttavia rimane(va) impregiudicato il diritto per il giudice di diversamente valutare, in base agli sviluppi del materiale probatorio fino ad allora acquisito, la rilevanza della prova ai fini della decisione, senza che la eventuale non ammissione possa comportare la nullità della sentenza impugnata;

nullità previste tassativamente dalla legge, tra le quali non rientra la mancata ammissione di una prova").

3. Difetto di motivazione in ordine alla revoca dell’ordinanza con cui la Corte di Appello (con collegio in precedente diversa composizione rispetto a quello davanti al quale si è svolta la rinnovata istruttoria) aveva disposto una perizia collegiale sui tamponi stub prelevati all’imputato. Tale non comprensibile decisione di revoca di un incombente ritenuto giustificato dalle doglianze dell’appellante C. è priva di qualsiasi giustificazione diretta o indiretta.

Il motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La sentenza di appello chiarisce ampiamente le ragioni per le quali non si è ritenuta più necessaria l’indagine peritale suppletiva in origine disposta. Ragioni coerenti e logiche non scrutinabili in questa sede di legittimità, che sono incentrate sia sugli sviluppi della rinnovazione istruttoria caratterizzata da più "nuove" chiamate in reità del C. di altri collaboranti che avvalorano quella iniziale del Pi., sia sulla valutazione di rilevanza della perizia richiesta dalla difesa, ai cui interrogativi sono state date già esaurienti risposte dal consulente del p.m., non confutate con argomenti scientifici o tecnici (v. sentenza appello: "La richiesta di perizia non è basata su argomentazioni di natura tecnico-scientifica: si sostiene soltanto che l’esame richiesto è finalizzato ad accertare come effettivamente quella particella sia stata trovata e la sua natura per verificare se la forma della particella sia compatibile con l’arma da fuoco usata per l’omicidio e se fosse stata possibile una eventuale contaminazione").

4. Omessa o erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p. in tema di verifica della credibilità "intrinseca" dei vari collaboratori di giustizia del giudizio di appello.

Costoro si sono pentiti dopo la conclusione del processo di primo grado, avendo così piena conoscenza della sentenza del Tribunale minorile e degli sviluppi del dibattimento. La Corte di Appello attribuisce credibilità alle dichiarazioni dei collaboranti laddove riferiscono circostanze apprese direttamente dall’imputato ovvero dal fratello G., escludendo l’esistenza di discordanze narrative.

Discordanze che invece vi sono e investono in special modo il fondamentale dato costituito dal movente dell’omicidio di R. C. ("il motivo che determinò il giovane C. a dare morte").

La doglianza, meramente assertiva, è manifestamente infondata.

La Corte di Appello (al pari della sentenza di primo grado) ha specificamente affrontato la tematica delle ragioni sottostanti all’uccisione del R., osservando come la pluralità di causali del realizzato progetto omicidiario venute in luce nel corso dei due giudizi di merito non metta in discussione l’oggettiva riferibilità della consumazione dell’omicidio alla concorrente volontaria azione dei due fratelli C., materialmente eseguita dall’allora minorenne ricorrente. Le causali dell’omicidio, per quanto già in precedenza puntualizzato, non sono affatto incompatibili l’una con l’altra, perchè compongono comunque un quadro di forte astio dei fratelli verso la vittima che ha trovato espressione esecutiva nel contesto dei rapporti associativi criminali intessuti dai C. con l’organizzazione mafiosa di Siracusa capeggiata da A. A., che ha autorizzato e poi legittimato in seno all’associazione l’avvenuto omicidio, come si desume dalle rivelazioni dei quattro collaboratori di giustizia che riferiscono della responsabilità di D. e C.G. nella uccisione del R. ( P., D.C., S., Cr.).

Le considerazioni della Corte etnea sulle plurime e convergenti causali del delitto discendono, per altro, dalle omologhe valutazioni compiute da questa stessa Corte di legittimità nell’ambito del parallelo processo conclusosi nei confronti di C.G. con la sentenza resa il 15.6.2007 (n. 29731/07) che, rigettando il ricorso dell’imputato avverso la sentenza di appello, ne ha sancito la definitiva condanna per l’omicidio R.. Nella sentenza di legittimità, espressamente richiamata dalla Corte territoriale, si precisa: "Non costituisce elemento di contrasto rispetto al complessivo e convergente materiale probatorio la pluralità di causale, tutte dimostrate e concludenti, che al contrari riscontrano ulteriormente la prova già acquisita, dimostrando che i fratelli C., facenti parte della stessa famiglia e dello stesso gruppo criminale, avevano più motivi convergenti per uccidere il R., poichè il motivo personale da solo non era sufficiente, dovendo gli appartenenti al gruppo criminale ottenere anche l’autorizzazione da parte dell’organizzazione…In tale ambito non possono ritenersi contraddittorie le dichiarazioni dei tre collaboratori che hanno posto l’accento su uno o sull’altro motivo".

Con riferimento alla addotta violazione del disposto dell’art. 192 c.p.p., comma 3, in rapporto alla verifica della attendibilità intrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e di congruenza e concludenza dei necessari riscontri, l’impugnata decisione di appello si mostra immune da discrasie o lacune, avendo condotto una disamina delle emergenze processuali afferenti alle rivelazioni dei c.d. pentiti corretta e conforme agli indirizzi ermeneutici della giurisprudenza di legittimità, soprattutto per quel che attiene alle categorie concettuali della reciprocità dei riscontri, costituiti da più dichiarazioni di collaboranti su uno stesso fatto criminoso riguardante uno stesso imputato (convergenza del molteplice), nonchè della valutabilità frazionata delle asserzioni collaborative. E’ solo il caso di chiarire, per completezza, che la possibile comparsa di discrepanze o parcellari incertezze nelle dichiarazioni accusatorie dei pentiti, lungi dall’infirmarne il peso probatorio, non vanifica la loro affidabilità, quando il giudice di merito, come nel caso della sentenza impugnata, ne abbia evidenziato con idonea motivazione la complessiva solidità nei rispettivi nuclei fondamentali (v. Cass. Sez. 6, 18.12.2009 n. 6425/10, Caramuscio, rv. 246528).

5.- Con il ricorso a firma dell’avv. Sebastiano Troia si deducono tre motivi di impugnazione.

1. Insufficienza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in relazione alle prove concernenti la consulenza medico-legale e le dichiarazioni del teste Ra.Vi..

Affermano i giudici di appello, in base alle risultanze dell’esame autoptico sulla salma del R. e delle precisazioni rese in dibattimento dal consulente medico Dott. Co., che lo sparatore avrebbe esploso il colpo di fucile mortale in posizione eretta al pari di quella della vittima, persona di bassa statura come il C.. Sennonchè gli esiti degli accertamenti medico-legali non permettono di accreditare l’assunto che anche lo sparatore omicida sia stato di bassa statura. Il medico-legale ha soltanto chiarito che il colpo mortale è stato verosimilmente esploso "lungo un piano parallelo alla base della scatola cranica" del R.. Ora, considerato che il R. era altro mt. 1.65 e che C.D. è ancora più basso, perchè alto circa mt. 1.45, se autore dello sparo fosse davvero stato il C., il medico-legale avrebbe dovuto rilevare un andamento del colpo mortale dal basso verso l’alto in direzione del capo della vittima. Ciò non è stato. Non solo.

L’ipotesi è smentita dalla testimonianza di Ra.Vi., unica persona presente nella sala giochi del R. al momento dell’agguato omicida. Nel giudizio di primo grado il Ra. ha affermato che a sparare sarebbe stato un individuo, travisato da un casco da motociclista, abbastanza alto (circa mt. 1.70/1.80) e di corporatura robusta. Il C. è senz’altro magro e, come detto, molto basso. Le indicazioni offerte dal testimone, giudicate sbrigativamente inattendibili dalle due sentenze di merito, sono state travisate, pur essendo del tutto conciliabili con la reale dinamica dell’episodio criminoso, non emergendo in alcun modo che il Ra. sia stato subornato o minacciato da qualcuno per rendere dichiarazioni non veritiere.

Il motivo di ricorso è privo di specificità (riproduce l’omologo motivo esposto con l’appello, preso in esame e confutato dalla Corte etnea), è indeducibile (perchè delinea una rivisitazione meramente fattuale, non proponibile in questa sede, di una fonte di prova razionalmente vagliata dalle due sentenze di merito) ed è – infine – destituito di ogni serio fondamento.

La sentenza di primo grado, proprio per l’ovvia rilevanza della deposizione dell’unico apparente testimone oculare dell’omicidio, ha dedicato molta attenzione (pp. 4-7) alla testimonianza del Ra., assunto due volte a sommarie informazioni dalla polizia giudiziaria nell’immediatezza del fatto e intervenuto in dibattimento solo perchè coattivamente accompagnatovi. Nel rimarcare la lacunosità e larvata reticenza già connotanti le sue dichiarazioni alla p.g., contraddette da oggettive emergenze di prova generica (ad esempio sull’orario dell’omicidio), il Tribunale ha passato in rassegna i singoli assunti dichiarativi del Ra., evidenziando con stringente logica argomentativa le molteplici discrasie e la totale inattendibilità delle sue affermazioni, determinate dal palese timore di possibili ritorsioni ("…il Ra. si contraddice da solo laddove prima descrive la sua posizione rispetto allo sparatore, tale da giustificare il non averlo visto dal davanti ed in faccia, e poi afferma di aver potuto vedere la corporatura robusta", particolare mai riferito alla p.g.; "…la tesi della paura, uscita spontanea dalla sua voce…pare segnare anche le dichiarazioni iniziali davanti alla polizia, poichè è difficile accettare che un testimone oculare abbia potuto vedere così poco…"). Dinanzi al descritto inaffidabile quadro testimoniale offerto dalla deposizione del Ra. il Tribunale ha chiarito come la sua testimonianza -alla luce degli altri elementi probatori acquisiti (esito del tampone per rilevamento delle tracce dello sparo; accuse provenienti dal c.d.g.

P.)- sia priva di ogni incidenza nella individuazione del C. come autore del reato e nella stessa ricostruzione della dinamica del fatto.

A tale conclusiva valutazione sugli incongrui e inutilizzabili apporti conoscitivi del testimone Ra. si sovrappone il coincidente giudizio della sentenza di secondo grado sulla inconsistenza dei rilievi censori espressi con l’atto di appello e oggi pedissequamente riproposti, nonostante la vieppiù conclamata inconferenza delle dichiarazioni del Ra. fatta palese dagli elementi accusatori sopravvenuti nei confronti del C. nel giudizio di secondo grado (sentenza: "…di nessun pregio sono le argomentazioni difensive in ordine alla deposizione del teste Ra., da ritenere inattendibile in quanto, come dichiarato dallo stesso, ha fornito indicazioni non veritiere per paura…").

2. Contraddittorietà e illogicità della motivazione con riferimento alla prova riguardante i residui di polveri dello sparo sulle mani dell’imputato.

La Corte di Appello ha considerato pienamente condivisibile l’assunto del consulente tecnico del p.m. sulla riconducibilità dell’unica particella "univoca" reperita sul tampone di una mano del C. all’avvenuto uso di un’arma da fuoco da parte dell’imputato. I giudici di secondo grado non si sono posti il problema, pur sollevato dalla difesa che non a caso aveva sollecitato l’espletamento di una perizia dopo aver prima vanamente chiesto l’esame del proprio consulente tecnico, delle lacune del giudizio espresso dal consulente Be. in rapporto al fattore del tempo intercorso tra lo sparo e l’avvenuta esecuzione del tampon-kit (quasi sei ore, un tempo che la letteratura scientifica esclude possa giudicarsi compatibile con un efficace accertamento dei residui dello sparo), in rapporto alla dimensione della particella individuata dal consulente (più grande dell’usuale, laddove le particelle di tali dimensioni sono le prime a svanire dalla cute dello sparatore, sì da non far escludere eventi di contaminazione accidentale) nonchè in rapporto alla composizione e alla forma della particella rilevata sul C..

I descritti rilievi sono infondati.

Le due sentenze di merito e in particolare la sentenza di appello, nei termini già indicati nella trattazione del ricorso dell’avv. Rizza (antea p. 4, punti 2-3), hanno affrontato tutti i profili di critica riproposti dal ricorrente (e già enunciati con i motivi di gravame contro la sentenza del Tribunale), fornendo una risposta ai quesiti tecnici appagante e coerente, che va esente da scrutinio di legittimità.

Improprio e gratuito è l’assunto del ricorrente nel considerare "fantasiosa" l’ipotesi dei giudici di merito secondo cui dalle ore 19.00/19.30 alle ore 23.40 (prelievo del tampone adesivo) il C. sarebbe rimasto in Questura sotto il controllo costante degli agenti di polizia, non avendo alcuna possibilità (anche quando è stato scortato in bagno) di lavare le mani e di dissolvere le tracce delle polveri di sparo. L’evenienza è stata attestata nel giudizio di primo grado dagli esaminati funzionari di polizia autori delle indagini, cui la difesa dell’imputato non ha contrapposto alcun serio dato antinomico o di smentita dell’assunto. Non solo. Il controllo e l’impossibilità di lavarsi le mani è stato riconosciuto dallo stesso imputato C.. Di tal che il fattore tempo, certamente rilevante ai fini dell’attendibilità del successivo accertamento spettrografico sui prelievi cutanei delle polveri, non può essere generalizzato in una sua precisa definizione temporale, che valichi le ore subito successive all’evento dello sparo, sol che si osservi che il fattore tempo (giudicato dal consulente Be. comunque compatibile con la possibilità di rilevare utili tracce di sparo) è direttamente correlato al tipo dell’attività svolta dall’agente nel periodo preso in considerazione. Attività ovviamente suscettibile, a prescindere da eventuali abluzioni manuali, di condizionare la caduta o la permanenza delle particelle di polveri residue delle sparo. Nel caso di specie, proprio per le condizioni per cui si è trovato durante la sua permanenza in Questura, l’attività del C. è stata praticamente nulla. E del resto il reperimento delle tre particelle residue sulle sue mani, una delle quali pacificamente "univoca" per tracce di sparo nella sua triplice composizione di bario, antimonio e piombo, costituisce la più evidente conferma del corretto giudizio del consulente Be., condiviso dai giudici di merito dei due gradi di giudizio. Analogamente pletorica è l’insistita possibilità di contaminazione o inquinamento per transfert delle mani dell’imputato desunta dalla sua permanenza in ambienti (i locali della Questura e lo stesso veicolo con cui vi è stato portato), nei quali vi è stabile presenza di armi e di uomini armati che possono aver fatto uso di armi da sparo. L’eventualità, già in sè remota per le circostanze di fatto rimarcate dai giudici di merito (gli agenti di polizia non fanno certo quotidiano uso delle armi da sparo loro assegnate, nè un tale uso si è verificato in concomitanza con le prime indagini sull’uccisione del R.), deve radicalmente escludersi – come, ancora con il supporto del consulente Be., rimarcano i giudici di merito- per l’accertata presenza nella particella univoca trovata sulla mano sinistra del C. (non destra, come si afferma in ricorso) di residui polverosi di stagno, elemento assente da ogni tipo di munizioni per le armi da sparo in dotazione della Polizia di Stato e ben presente, invece, in cartucce di vecchia fabbricazione e in cartucce per fucili di caccia, arma con cui è stato ucciso il R..

Sostenere, infine, come si sostiene con il motivo di ricorso, la carenza e l’illogicità della motivazione della impugnata sentenza della Corte di Appello minorile sulla problematica in discussione è un fuor d’opera e un espediente retorico, quando si osservi che la sentenza non solo valuta gli indicati profili di censura, ma correttamente richiama per relationem le considerazioni sviluppate dalla sentenza di primo grado e soprattutto quelle esposte nella sentenza della Corte di Assise di Appello di Catania del 21.12.2006 (acquisita in atti), che ha condannato per concorso nell’omicidio R. il fratello dell’attuale ricorrente, a sua volta approfondendo i temi connessi alle tracce di polveri da sparo sulle mani di C.D. e sottolineando l’attendibilità delle conclusioni rassegnate dal consulente Be., in particolare per l’esclusione di possibili fenomeni accidentali di contaminazione ambientale delle mani dell’imputato.

Giudizio divenuto definitivo (apprezzabile per gli effetti di cui all’art. 238 bis c.p.p.) e ratificato, anche per quel che attiene a tale aspetto della regiudicanda, dalla sentenza di legittimità di questa Corte in data 17.6.2007 nei confronti di C.G. (cfr. p. 7: "…è stata già accertata la responsabilità del fratello minore D., per cui l’esito delle prove degli stubs ha dimostrato che aveva impugnato il fucile al momento dello sparo…").

3. Omessa assunzione di prova decisiva costituita dall’esame del consulente tecnico della difesa, invocato ex art. 507 c.p.p. nel giudizio di primo grado, e dall’espletamento di perizia tecnica, invocato nel giudizio di appello ex art. 603 c.p.p., comma 1, ammesso dalla Corte territoriale, ma non disposto con successiva ordinanza revocatoria dell’incombente processuale priva di motivazione.

La doglianza, che muove dall’interpretazione del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) come novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, è infondata.

Innanzitutto la sentenza del Tribunale ha legittimamente revocato l’ammissione, ordinata su richiesta della difesa del C. ( art. 507 c.p.p.), del consulente tecnico balistico dell’imputato, non potuto presentarsi in udienza per impedimento, offrendo una motivazione congrua e aderente ad un giudizio di raggiunta completezza istruttoria non sindacabile in questa sede (Cass. Sez. 3, 27.5.2010 n. 24259, rv. 247290: "La mancata ammissione di prove sollecitate al giudice ai sensi dell’art. 507 c.p.p. non costituisce un vizio deducibile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d)").

In secondo luogo, se può ritenersi consentito al giudice di appello, che proceda di ufficio alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ammettere un mezzo di prova sollecitato da una parte (e già inefficacemente richiesto al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 507 c.p.p.), non è discutibile che la decisione dello stesso giudice di secondo grado che in prosieguo revochi o sostanzialmente respinga la richiesta della parte (formulata ex art. 606 c.p.p., comma 1) -avuto riguardo alla ritenuta esaustività del "rinnovato" quadro probatorio, non richiedente approfondimenti conoscitivi ulteriori o indispensabili- non impone al giudice di appello una specifica motivazione, potendo trovare anche implicita giustificazione nelle stesse già rinnovate acquisizioni probatorie.

Ciò è quel che si verificato nel giudizio davanti alla Corte di Appello minorile di Catania, che nondimeno ha fornito, come si è già chiarito (antea p. 4/2), adeguata e logica spiegazione della ritenuta superfluità dell’incombente peritale.

In terzo luogo, infine, la perizia non è, in sè, una prova ma un mezzo di prova o, meglio, un mezzo di conoscenza tecnica per il giudice, che presuppone l’esistenza di una prova. Più esattamente è una dichiarazione valutativa, dotata di valenze tecniche o specialistiche, su un elemento di prova già acquisito al processo, di natura storica (il tampon-kit eseguito sulle mani dell’imputato;

la cartuccia calibro 12 trovata in suo possesso; i segni e gli effetti del colpo morale sul corpo del R. e così via) od anche documentale o dichiarativa. Ne discende che, come affermato dalla giurisprudenza di questa S.C. anche in tempi recenti (cioè dopo la modifica apportata al testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), il mancato o respinto espletamento di una indagine peritale è insuscettibile di costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), perchè la perizia non può ascriversi al concetto di prova decisiva, in ragione del suo connotato di mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove la citata disposizione codicistica, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce soltanto alle prove a discarico che assumano concreto carattere di decisività (cfr. Cass. Sez. 4, 22.1.2007 n. 14130, Pastorelli, rv. 236191).

La condizione di minorenne del ricorrente al momento dei fatti osta alla condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali (Cass. S.U., 31.5.2000 n. 15, Radulovic, rv. 216704).
P.Q.M.

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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