Cass. civ. Sez. V, Sent., 07-07-2010, n. 16061 IMPOSTA VALORE AGGIUNTO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo e motivi della decisione

La controversia trae origine dall’impugnazione proposta dal contribuente avverso l’avviso di accertamento emesso per la rettifica dell’imponibile ai fini IRPEF per il periodo d’imposta in contestazione. In questa sede rileva, in particolare, la contestazione relativa alla mancata contabilizzazione di ricavi, conseguente alla rilevazione di movimentazioni di conti correnti non adeguatamente giustificate dal contribuente. L’adita C.T.P. accoglieva, sul punto, il ricorso, ritenendo che gli accertatori e l’Ufficio, nella ricostruzioni dei ricavi non contabilizzati, avessero incluso anche quelli dichiarati, considerandoli come importi di cui il contribuente non era riuscito a dimostrare l’estraneità al reddito d’impresa. La C.T.R., con la sentenza indicata in epigrafe, invece, ritenuto erroneo detto assunto, accoglieva l’appello della parte erariale, reputando che gli accertatori e l’Ufficio, nel determinare l’ammontare dei ricavi non contabilizzati sulla scorta dei versamenti risultanti dai conti, si erano riferiti esclusivamente agli importi per i quali il contribuente non aveva dimostrato l’estraneità al reddito d’impresa.

Il contribuente chiede la cassazione della sentenza sopra indicata, in forza di due motivi; l’Agenzia resiste con controricorso, in cui deduce l’inammissibilità del ricorso – per difetto di legittimazione passiva dell’intimato Ufficio periferico dell’Agenzia – e, comunque, l’infondatezza dello stesso, in quanto volto a riproporre una valutazione di merito sull’accertamento.

Preliminarmente rileva la Corte che il ricorso è ammissibile, in quanto, diversamente da quanto sostiene la parte erariale, si deve ribadire che, a seguito dell’istituzione dell’Agenzia delle entrate, divenuta operativa dal 1 gennaio 2001, si è verificata una successione a titolo particolare della stessa nei poteri e nei rapporti giuridici strumentali all’adempimento dell’obbligazione tributaria, per effetto della quale deve ritenersi che la legittimazione "ad causam" e "ad processum" nei procedimenti introdotti – come nella specie il giudizio di appello – successivamente alla predetta data spetti esclusivamente all’Agenzia;

per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11 la nuova realtà ordinamentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, consente di ritenere che la notifica del ricorso possa essere effettuata, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (Cass. n. 22889/06); in tale prospettiva, e segnatamente nel rispetto dell’esigenza di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità in funzione dell’effettività della tutela giurisdizionale (su cui cfr. Cass. S.U. n. 3116 e 3118/06), deve ritenersi ammissibile il ricorso proposto, come nella specie, nei confronti dell’Ufficio locale dell’Agenzia, tenuto anche conto della sostanziale unitarietà del soggetto giuridico "Agenzia".

Con il primo motivo, il contribuente lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 perchè la C.T.R., riformando la sentenza di primo grado, non avrebbe erroneamente tenuto conto degli importi di tutte le fatture emesse e registrate nell’anno in contestazione (e della conseguente "duplicazione" d’imposta), importi che, dato anche il regime di contabilità semplificata, ben avrebbero potuto confluire nei conti, senza la possibilità per il contribuente medesimo di giustificare documentalmente ciascuno di essi, se non attraverso l’indicazione nel quadro G della dichiarazione; nè avrebbe considerato che i conti erano utilizzati anche per la gestione familiare:. Aggiunge che la C.T.R. avrebbe erroneamente affermato che la G.d.F. aveva tenuto conto di tutti i ricavi dichiarati e che non avrebbe considerato minimamente le difese del contribuente.

Con il secondo motivo, il contribuente deduce insufficiente e contraddittoria motivazione, perchè la C.T.R. avrebbe acriticamente fatto proprie le tesi dell’Ufficio, senza prendere visione del p.v.c, nè delle ragioni della parte privata risultanti dallo stesso e dalla sentenza di primo grado.

Le censure – che possono trattarsi congiuntamente data l’intima connessione – si rivelano entrambe infondate. Non sussistono, infatti, la lamentata violazione di norme di diritto, nè i dedotti vizi motivazionali.

Nel proprio ricorso, la parte contribuente, deducendo violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 lamenta che la C.T.R. illegittimamente non avrebbe tenuto conto di tutte le fatture registrate, sostenendo, in sostanza che non fosso influente che egli non avesse fornito la specifica prova che gli importi delle stesse fossero confluite sui conti – intestati a se steso o al proprio coniuge – oggetto della verifica bancaria. Dalla stessa articolazione del motivo, emerge che, nella fase del contraddittorio in sede amministrativa, il contribuente, rispetto alle movimentazioni diverse da quelle escluse dalla ripresa ad opera degli stessi accertatori (ed aventi ad oggetto anche rilevanti importi attribuiti alla gestione e ad investimenti di tipo familiare), si era limitato a dedurre che i versamenti erano in gran parte relativi agli incassi delle fatture emesse per le varie forniture effettuate ai clienti e che gli scostamenti di date erano dovuti a pagamenti differiti.

Orbene, rileva la Corte che la decisione impugnata non ha violato le regole sul riparto dell’onere probatorio, desumibile dalla disposizione normativa sopra indicata, e sul valore da attribuire ai dati desunti dalla movimentazione di conti correnti bancari.

Va infatti ribadito che, nel processo tributario, nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina uria inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti (Cass. 26 febbraio 2009 n. 4589). Invero, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 come il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 32 impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti siano registrati in contabilità e che i prelevamenti siano serviti per pagare determinati beneficiari, anzichè costituire acquisizione di utili;

posto che, in materia, sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge: (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale (Cass. 5 dicembre 2007 n. 25365; 5 ottobre 2007 n. 20858; 27 luglio 2007 n. 16720; 13 giugno 2007 n. 13819; 21 marzo 2007 n. 6743; 8 settembre 2006 n. 19330; 23 giungo 2006 n. 14675; 9 settembre 2005 n. 18016; 7267/02; 9103/01). Ne deriva che il contribuente non può fondatamente sostenere che si sarebbe dovuto tener conto di tutte le fatture registrate nel periodo, anche se non ne fosse stata indicata nè documentata la specifica riferibilità ai movimenti bancari rilevati, perchè ciò avrebbe significato, appunto, che la presunzione di cui all’indicata norma, avrebbe dovuto essere considerata "vinta" attraverso il ricorso, non già ad un fatto, ma ad un’altra presunzione, consistente nel normale afflusso (ad quod plerunque accidit) degli incassi sul conto corrente dell’imprenditore.

Quanto all’ambito del rispettivo onere probatorio gravante sulle parti, la presunzione: legale relativa opera con forza tale da vincolare l’ufficio tributario ad assumere per certo che la movimentazione bancaria dei conti correnti intestati (e di quelli riferibili) al contribuente sia ad esso imputabile, senza che l’Ufficio medesimo debba procedere all’analisi delle singole operazioni, che, dato il connesso effetto dell’inversione dell’onere della prova, spetta invece al contribuente di effettuare (Cass. 21 marzo 2008 n. 7766 24 agosto 2007 n. 18013; 27 luglio 2007 n. 16720;

13 giugno 2007 n. 13819).

Rileva la Corte che, nella specie, non risulta che l’aver disatteso le generiche deduzioni del contribuente in ordine alla riconducibilità di tutte le fatture registrate ai versamenti risultanti sui conti, senza puntualmente indicarli, abbia violato le regole sul riparto dell’onere probatorio, nè l’assetto dello stesso nascente dalle disposizioni fiscali in merito agli accertamenti sulla base dei dati delle movimentazioni dei conti correnti bancari, non avendo il contribuente assolto l’onere d’indicare specificamente le operazioni che assumeva non celate al reddito d’impresa dichiarato.

Nè sussistono i vizi motivazionali dedotti, peraltro solo genericamente, considerato che la decisione impugnata risulta aver adeguatamente considerato le deduzioni del contribuente sia in sede amministrativa che giudiziaria. Infine, destituito di fondamento è anche il rimprovero, rivolto alla C.T.R., di aver confermato l’avviso di accertamento impugnato facendo integralmente proprie le osservazioni della Guardia di finanza e dell’Ufficio. Infatti, esso contrasta con il principio secondo cui la decisione è legittimamente adottata quando, munita di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali (argomento desumibile da Cass. 23 gennaio 2006 n. 1236, secondo cui già nella fase amministrativa il titolare del potere provvedimentale d’imposizione tributaria può, con adeguata motivazione, far propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi del procedimento).

Ne deriva il rigetto del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.800,00, di cui Euro 1.600,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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