Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 22-03-2011) 07-04-2011, n. 13990 Trattamento penitenziario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con sentenza in data 05.05.2010 la Corte d’appello di Palermo integralmente confermava la pronuncia di primo grado (resa dal Tribunale di Marsala il 04.06.2009) con la quale T.S. e suo figlio T.M. erano stati ritenuti colpevoli del reato di cui all’art. 416 bis c.p., con le riconosciute aggravanti previste dai commi 4 e 6 di detta norma, ed erano stati così condannati il primo dei predetti imputati alla pena di anni 3 di reclusione a titolo di continuazione con precedente giudicato, ed il secondo a quella di anni 9 e mesi 4 di reclusione, nonchè entrambi alle pene accessorie di legge ed alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anni 1 per T.S. e di anni 2 per T.M..- In particolare dette conformi pronunce riconoscevano per T. S., già reggente della famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, la permanenza della sua attiva partecipazione associativa anche dopo il limite fissato dalla precedente condanna e perdurante anche in sua condizione carceraria, e per T.M. la condotta associativa mafiosa consistita in tre principali attività: – avere fornito assistenza ed appoggio all’allora latitante M. A., già reggente della famiglia mafiosa in questione; – avere provveduto ai versamenti periodici alle famiglie di alcuni uomini d’onore detenuti; – essersi attivamente interessato alla spartizione di lavori pubblici eseguiti nel territorio di riferimento.

La Corte territoriale – per quel che ancora riveste interesse in questa sede – esaminando l’appello proposto da T.M. respingeva dapprima le questioni sollevate in ordine alle effettuate intercettazioni, proposte sotto i seguenti profili: a) assenza di motivazione dei decreti autorizzativi di captazioni da eseguirsi con impianti esterni alla Procura; b) assenza di provvedimenti legittimanti l’intrusione degli strumenti captativi in luoghi di privata dimora; c) mancanza di esplicitati criteri per la selezione, lettura ed interpretazione del vastissimo materiale intercettativo;

d) insufficienza, nel merito, dei risultati ottenuti con le poche conversazioni ritenute di interesse.- Orbene, su tali temi, centrali per la decisione, la Corte territoriale riteneva: a) che, trattandosi di decreti rilasciati per le ricerche di latitanti, i risultati erano ben utilizzabili a fini probatori a prescindere dai predetti profili motivazionali dei decreti autorizzativi; che, comunque, detti decreti non soffrivano in concreto del denunciato vizio; b) che l’interno delle autovetture ed i locali di un istituto carcerario non potessero essere definiti luoghi di privata dimora; c) che per il materiale refluente dalle intercettazioni non si imponevano criteri legali di valutazione, e che, nel concreto, non vi erano ragioni per dubitare della provenienza, della genuinità e dell’affidabilità delle conversazioni intercettate.- Quanto, poi, al merito dei risultati emergenti dalle captazioni, entrambi i giudici del merito ritenevano provato l’assunto accusatorio sui vari profili del complessivo addebito: a) T.M. aveva distribuito proventi delittuosi della associazione criminosa a vari appartenenti alla stessa; non si trattava, come aveva sostenuto la difesa, di dazioni sporadiche dettate da ragioni umanitarie, ma di versamenti usuali, consistenti, eseguiti pure in favore di persone neppure conosciute direttamente, anche su disposizione di boss del calibro di A. M., tramite il figlio di costui; b) lo stesso imputato aveva avuto stretti e diretti rapporti con l’allora latitante M. A., più volte incontrato in modo riservatissimo, come si evidenziava da alcune captate conversazioni; c) varie intercettazioni dimostravano altresì gli interventi del predetto imputato per governare la gestione dei lavori pubblici nella zona.- La Corte palermitana confermava infine la ricorrenza delle contestate aggravanti della disponibilità di armi in capo all’associazione mafiosa e del reimpiego di capitali illeciti, elementi da ricondurre in modo certo all’esperienza storico-giudiziaria in proposito.

2. IL RICORSO – Avverso tale sentenza non proponeva ricorso T.S. nei cui confronti la decisione diveniva pertanto irrevocabile.- Proponeva invece ricorso per cassazione T.M. che motivava l’impugnazione svolgendo le seguenti deduzioni: a) violazione di legge e vizio di motivazione: i decreti autorizzativi, in punto utilizzo impianti esterni, se emessi per la cattura di latitanti, ove però utilizzati per fini probatori, dovevano comunque sottostare ai requisiti previsti dall’art. 268 c.p.p., comma 3, il che nella presente vicenda processuale non era;

peraltro nei decreti in questione non vi era traccia della finalità di ricercare catturandi; vi era stato uso di formule di stile; non era stata data sostanziale risposta alle deduzioni proposte, su tali punti, con i motivi dell’appello, b) errata esclusione dell’abitacolo di un’autovettura dalla qualificazione di luogo di privata dimora, in contrasto – si sostiene – con l’indirizzo giurisprudenziale della CEDU; c) vizio di motivazione in ordine ai criteri adottati per la corretta interpretazione delle poche conversazioni ritenute rilevanti, d) vizio di motivazione in ordine alle ritenute aggravanti che non potevano essere sostenute con il ricorso a massime di esperienza.

3. MOTIVI DELLA DECISIONE. Il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve essere rigettato con le conseguenze tutte di legge.- Non sono fondate, e devono dunque essere rigettate, le questioni proposte dal ricorrente imputato in ordine alle intercettazioni (di cui sopra sub 2.a e 2.b), Quanto all’uso a fini probatori di decreti di intercettazione rilasciati in funzione della cattura di latitanti, vale osservare dapprima, quale fatto processuale, che gli stessi risultano in effetti in tal senso finalizzati, come emerge anche dalla pur sintetica classificazione rilevabile negli stessi, in atti, ed anche nelle copie prodotte dalla difesa. L’assunto di piena utilizzabilità a fini probatori, a prescindere dalle formalità di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, discende poi dall’univoca giurisprudenza di questa Corte in proposito (cfr., ex pluribus, Cass. Pen. Sez. 6, n. 44522 in data 15.10.2009, Rv. 245166, Gargiulo; Cass. Pen. Sez. 1, n. 298 in data 19.11.2009, Rv. 246034, Della Corte; Cass. Pen. Sez. 2, n. 39380 in data 07.10.2010, Rv. 248691, Preiti; ecc). Deve inoltre essere rilevato come il ricorrente denunci in modo quanto mai generico la specifica incidenza dei decreti contestati, senza neppure proporre l’insufficienza del materiale residuo, e come – di contro – quello recante il n. 82/03 sia accompagnato dalla relativa attestazione della segreteria dell’ufficio di Procura, in ordine all’inidoneità degli apparati interni, evidentemente fatta propria dal P.M.- Risulta infondata anche la questione, qui riproposta, in ordine all’inserimento di apparecchiatura captativa nell’abitacolo di un’auto (per la sala colloqui di un carcere la questione, avanzata in sede di merito, viene abbandonata), questione correttamente risolta dalla Corte territoriale secondo giurisprudenza di legittimità, pacifica sul punto (cfr., tra le tante, Cass. Pen. Sez. 6, n. 4125 in data 17.10.2006, Rv. 235601, Cimino; Cass. Pen. Sez. 1, n. 32851 in data 06.05.2008, Rv. 241229, Sapone; Cass. Pen. Sez. 1, n. 13979 in data 24.02.2009, Rv. 243556 Morabito; ecc.) alle cui motivazioni si fa rimando, non proponendo il ricorrente questioni diverse.- Tanto ritenuto, passando all’ulteriore questione proposta in ordine al materiale intercettato, e cioè i criteri di valutazione delle conversazioni (v. sopra sub 2.c), parimenti deve rilevarsene l’infondatezza. Va premesso che il ricorso, sul punto, è quanto mai generico, svolgendo considerazioni del tutto aspecifiche, e mancando di indicare quali sarebbero i risultati della captazioni di dubbio significato. Deve essere comunque rilevato come i colloqui in questione si siano svolti senza cautele linguistiche ed in un contesto di ben comprensibile chiarezza, come osserva la Corte territoriale, senza smentita sul punto.- E’ corretto infine il ricorso alle massime di esperienza in tema di aggravanti, dovendosi così disattendere anche l’ultimo motivo del ricorso (v. al p. 2.d).

Nessuno può seriamente porre in dubbio che "Cosa Nostra" sia associazione armata, e che tale era anche negli anni di cui all’imputazione, in relazione agli esiti di innumerevoli accertamenti giudiziali ben noti a tutti, attribuzione di cui l’odierno imputato (figlio di capo-mandamento, prossimo a boss di prima grandezza e frequentatore di latitanti) certamente era a conoscenza. Altrettanto è a dire in ordine all’aggravante del reimpiego di capitali illeciti, attività quanto mai tipica, non ignota a chi, come l’odierno ricorrente, gestiva lavori ed appalti facenti capo ala consorteria.

Il ricorso, infondato in ogni sua deduzione, deve dunque essere rigettato.- Alla completa reiezione dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente imputato al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente T.M. al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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