Cass. civ. Sez. III, Sent., 07-07-2010, n. 16026 CONTRATTI AGRARI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

Con sentenza 19 ottobre – 5 dicembre 2005 la Corte di appello di Napoli, sezione specializzata agraria, definitivamente pronunziando sull’appello proposto da M.C. contro R.E. avverso la sentenza 11 ottobre 2004 del tribunale di Napoli, sezione specializzata agraria, ha dichiarato la nullità della sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha pronunziato la risoluzione de il contratto di affitto agrario tra le parti con condanna del M. a rilasciare il fondo oggetto di controversia in favore della R. entro l’11 novembre 2005 nonchè al pagamento dei canoni di affitto relativi agli anni 2002 e 2003, dichiarando, altresì, la incompetenza della sezione specializzata agraria sia in ordine alla domanda riconvenzionale del M. avente a oggetto l’accertamento dell’acquisto da parte sua della proprietà di quel fondo per usucapione, sia in ordine alle domande riconvenzionali proposte dalla R. aventi a oggetto l’avvenuto acquisto della proprietà dello stesso fondo per usucapione abbreviata, per essere competente su tali domande il tribunale di Napoli in composizione ordinaria innanzi al quale ha rimesso atti e parti, dichiarando infine improcedibile la domanda riconvenzionale del M. per ottenere le indennità per i miglioramenti apportati al fondo.

Per la cassazione di tale pronunzia, notificata il 24 marzo 2006, ha proposto ricorso affidato a quattro motivi M.C..

Resiste con controricorso R.E..

Motivi della decisione

1. Come riferito in parte espositiva i giudici di secondo grado, dichiarata la nullità della sentenza del primo giudice (sentenza che aveva accolto la domanda attrice, dichiarando risolto per grave inadempimento del convenuto M. il contratto di affitto in ter partes con condanna del M. al rilascio del fondo e al pagamento dei canoni dovuti, con i relativi interessi legali, e dichiarato – altresì – la propria incompetenza ratione materiae a conoscere delle domande svolte hinc inde per l’accertamento dell’avvenuto acquisto, per usucapione, della proprietà del fondo oggetto di controversia) hanno precisato:

– non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., che avrebbero legittimato la rimessione della causa al primo giudice, questa Corte deve procedere al riesame e alla decisione del merito, tenendo conto della domande e delle eccezioni proposte in primo grado;

– la rinnovazione del giudizio induce a una decisione di merito conforme a quella assunta in primo grado;

– condanna M.C. al pagamento delle spese processuali, sia del giudizio di primo grado che di appello.

2. Con il primo motivo il ricorrente censura nella parte de qua la sentenza gravata denunziando nullità della sentenza. Errores in procedendo. Violazione e falsa applicazione dell’art. 336 c.p.c..

Si assume, infatti, che il giudice di appello, mentre in caso di rigetto del gravame, non può in mancanza di specifico motivo di impugnazione modificare la statuizione delle spese processuali di primo grado, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata detto giudice è tenuto a provvedere anche d’ufficio a un nuovo regolamento di dette spese, quale conseguenza della decisione di merito adottata alla stregua dell’ esito finale della lite, 3. La censura è manifestamente infondata. Come riferito sopra:

– il giudice di appello, nel caso di specie, ha – senza ombra di dubbio – riformato in tutto la pronunzia del primo giudice (e, infatti, ha dichiarato la nullità della sentenza di questo ultimo, sostituendo la statuizione adottata da costui, con altra);

– detto giudice di appello, pertanto, proprio alla luce del principio di diritto invocato dalla difesa del ricorrente era tenuto a provvedere anche d’ufficio a un nuovo regolamento delle spese del giudizio di primo grado;

– detto provvedimento (sulle spese), come puntualmente invoca il ricorrente (e la giurisprudenza richiamata in ricorso) doveva essere adottato tenuto presente l’esito finale della lite;

– poichè nella specie l’attrice ha visto accogliere (in esito al giudizio di secondo grado) tutte le proprie richieste, quanto alla domanda di risoluzione del contratto di affitto, di condanna del convenuto M. al rilascio e al pagamento dei canoni, è palese che è conforme all’art. 91 c.p.c. – e al precetto di cui all’art. 336 c.p.c. – la disposta condanna del soccombente M. al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

Totalmente irrilevante, al fine del decidere, e di ritenere non corretta l’applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 91 e 336 c.p.c., fatta dai giudici di appello – da ultimo – è la circostanza che la sentenza di primo grado sia stata dichiarata nulla in accoglimento di una eccezione formulata dal M. che di conseguenza, non può ritenersi, sul punto, soccombente.

E’ sufficiente al riguardo, infatti, considerare che la soccombenza, ai fini della liquidazione delle spese, deve essere stabilita in base ad un criterio unitario e globale (Cass. 11 giugno 2008, n. 15483).

In altri termini il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse e il suddetto criterio non può essere frazionato secondo l’esito delle varie fasi del giudizio ma va riferito unitariamente all’esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi soccombente abbia conseguito un esito a lei favorevole (Cass. 11 gennaio 2008, n. 406).

Certo quanto precede, non controversa – come evidenziato sopra – la totale soccombenza del M. in esito al giudizio di secondo grado, è palese che correttamente sono state poste a suo carico anche le spese del giudizio di primo grado, ancorchè la sentenza del primo giudice sia stata dichiarata nulla in accoglimento di un motivo di appello prospettato da esso M..

2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando omessa ammissione di mezzi istruttori richiesti.

Violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 5.

Mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Si osserva, infatti, che la contraddittoria pronuncia circa l’omessa ammissione dei mezzi istruttori è stata sicuramente dettata da un rifiuto di una loro valutazione, perchè, in maniera aprioristica, ritenuti inverosimili e/o scarsamente attendibili. Sta di fatto tuttavia che nel caso de quo doveva ritenersi ammissibile la prova per testi, anche perchè non vi erano ragioni per disattenderla.

3. Il motivo è inammissibile.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

3.1. In primis, e in via assorbente, si osserva che il ricorrente che in sede di legittimità denunci la mancata ammissione nei gradi di merito di una prova testimoniale ha l’onere di indicare specificamente, trascrivendole, le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, della prova stessa che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (tra le tantissime, in tale senso, ad esempio, Cass. 5 giugno 2007, n. 13085; Cass. 19 marzo 2007, n. 6440).

Nè – al riguardo – può, per ipotesi, invocarsi la – decisamente – minoritaria giurisprudenza di questa Corte secondo cui il ricorso per cassazione che denunci la mancata ammissione nel giudizio di merito di una prova orale, pur non contenendo la trascrizione dei capitoli di prova non ammessi, è autosufficiente quando il contenuto di essi, di estrema semplicità, è riprodotto nei suoi elementi essenziali, in modo da consentire il necessario controllo della decisività della prova (cfr., ad esempio, Cass. 15 marzo 2006, n. 5674), certo essendo che il ricorrente pur denunziando la omessa ammissione di mezzi istruttori richiesti non ha indicato neppure in sintesi, a cosa mirassero detti mezzi istruttori.

3.2. Anche a prescindere da quanto precede, comunque, si osserva che qualora, con il ricorso per cassazione, venga censurata la mancata ammissione, da parte del giudice di merito, di un’istanza probatoria senza adeguata motivazione, la parte non può limitarsi ad indicare di aver fatto una tempestiva richiesta poi respinta, ma deve dimostrare – in virtù del principio di autosufficienza del ricorso – che detta istanza avrebbe potuto avere rilievo decisivo ai fini della soluzione di un punto parimenti decisivo della controversia (Cass. 17 novembre 2009, n. 24221), mentre nella specie il motivo è assolutamente carente (e – inoltre – in ispregio della regola di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, non contiene alcuna critica alle argomentazioni svolte f dalla sentenza impugnata nella parte in cui questa ha escluso la rilevanza della prova testimoniale dedotta dal ricorrente).

4. Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c..

Errores in iudicando.

Difetto di motivazione, per avere i giudici di secondo grado – in contrasto con una giurisprudenza pacifica – affermato inammissibile la produzione di nuovi documenti in appello.

5. La deduzione è manifestamente infondata.

Premesso, in limine, che il giudizio di merito si è svolto – nella specie – secondo il rito di cui all’art. 409 c.p.c., e segg., sì che malamente è invocata, in ricorso, a disciplina di cui all’art. 345 c.p.c., essendo applicabile quella di cui all’art. 437 c.p.c., si osserva che risolvendo un contrasto manifestatosi nell’ambito delle sezioni semplici, Cass., sez. un., 20 aprile 2005,n. 8202 (da cui totalmente e senza alcuna motivazione prescinde la difesa del ricorrente) ha enunciato i seguenti principi:

– nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e art. 437 c.p.c., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo);

– la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello;

– tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della "verità materiale", cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.

Tali principi sono stati ribaditi dalla giurisprudenza successiva e costituiscono, al momento, diritto vivente (tra le tantissime, ad esempio, Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577; Cass. 10 luglio 2008, n. 16884; Cass. 26 giugno 2007, n. 14766; Cass. 21 giugno 2007, n. 14486; Cass. 8 febbraio 2006, n. 2664; Cass. 22 maggio 2006, n. 11922).

Essendosi i giudici del merito puntualmente attenuti ai ricordati principi è palese, come anticipato la manifesta infondatezza della deduzione.

6. Con il quarto – e ultimo – motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1387 c.c., e segg.. Errores in procedendo.

Mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, censura la sentenza impugnata nella parte in cui questa ha affermato essere irrilevante, la qualità di proprietario in capo al locatore, atteso che il contratto di locazione bene può essere posto in atto da un mandatario del proprietario, quale era il dante causa della R..

Si assume, infatti, che la qualità di mandatario non si trasferisce mortis causa e che vi è stato nella specie, pertanto, violazione del principio fondamentale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, atteso che detta sentenza ha proceduto a un mutamento della domanda sostituendo la causa petendi dedotta in giudizio con una differente basata su fatti diversi.

7. Il motivo è manifestamente infondato.

Giusta quanto pacifico in causa con il ricorso introduttivo (in primo grado) R.E., ha esposto:

– che il proprio genitore R.A. aveva concesso in affitto un fondo rustico a M.N. con contratto 1 novembre 1965;

– che essa R.E. era succeduta al proprio genitore nella qualità di locatore mentre il convenuto M.C. era succeduto all’originario conduttore nella detta qualità;

– che il M. si era reso gravemente inadempiente alle obbligazioni derivanti dal rapporto di affitto inter partes.

Tutto ciò premesso l’attrice ha chiesto che fosse pronunziata la risoluzione, per inadempimento del conduttore, del contratto in questione, con condanna del convenuto al rilascio del fondo, nonchè al pagamento dei canoni dovuti.

I giudici del merito – come ampiamente riferito sopra – hanno ritenuto la fondatezza delle pretese fatte valere dalla R. e, di conseguenza, pronunziato la risoluzione del contratto, con condanna del M. al rilascio del fondo e al pagamento dei canoni non corrisposti oltre accessori.

Tali essendo – da un lato – il petitum e la causa petendi azionati dall’attrice in primo grado (e ribaditi in grado di appello), e, dall’altro, le statuizioni adottate dai giudici di merito è palese come non vi è – neppure in tesi – spazio per ritenere che la sentenza impugnata sia stata resa in violazione della regola fondamentale di cui all’art. 112 c.p.c., circa la necessità della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

In realtà opponendo la difesa del M. che il contratto era invalido perchè stipulato da soggetto che al momento della sua sottoscrizione non era titolare della proprietà del bene concesso in affitto, i giudici del merito hanno affermato che la circostanza era irrilevante, al fine del decidere, atteso che il dante causa della R., in quanto mandatario del proprietario era legittimato a tanto, e la di lei figlia, pertanto, a agire per la risoluzione.

Certo quanto sopra malamente sono invocati – dalla difesa del ricorrente peraltro inammissibilmente per la prima volta in questa sede di legittimità – le regole in tema di mandato e di suo scioglimento a seguito della morte del mandatario.

Come non controverso tra le parti il contratto inter partes non è stato stipulato dall’originario concedente R.A. in nome e per conto dei proprietari all’epoca del fondo per cui è controversa nella quale eventualità le difese del ricorrente, anche se non sotto il profilo denunciato della violazione della regola di cui all’art. 112 c.p.c., avrebbero avuto un qualche spessore, ma in nome proprio.

Certo quanto sopra è palese che, a seguito della morte dell’originario concedente, è succeduto nella detta qualità di concedente non il proprietario, all’epoca, del terreno, ma l’avente causa dell’originario concedente, cioè la odierna controricorrente a prescindere dalla validità o meno dell’atto con cui questa ultima ha acquistato, per donazione dal padre, la proprietà del fondo.

A tale riguardo – del resto – la sentenza impugnata ha fatto applicazione del principio, assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, secondo cui il rapporto che nasce dal contratto di locazione (non diversamente che da quello di affitto di fondi rustici) e che si instaura tra locatore e conduttore ha natura personale.

Chiunque, pertanto, abbia la disponibilità di fatto del bene, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederlo in locazione (Cass. 20 aprile 2007, n. 9493), onde la relativa legittimazione è riconoscibile anche in capo al detentore di fatto, a meno che la detenzione non sia stata acquistata illecitamente e, a maggiore ragione, deve considerarsi valido e vincolante anche il contratto stipulato tra chi, acquistato il possesso (o la detenzione) sulla scorta di un valido ed efficace titolo giuridico, abbia conservato tale possesso, non opponendosi il proprietario, dopo la scadenza dell’efficacia di tale titolo (Cass. 11 aprile 2006, n. 8411).

Ovviamente colui che ha la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme d’ordine pubblico, come può validamente concederla in locazione, comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio, è anche legittimato a richiederne la risoluzione, nell’ipotesi in cui sussista l’inadempimento del conduttore (Cass. 4 marzo 2005, n. 4764; Cass. 14 dicembre 2004, n. 23292; Cass. 13 luglio 1999, n. 7422).

Certo quanto sopra – pacifico che nella specie R.A. aveva la disponibilità del fondo in discussione in quanto mandatario del proprietario, pacifico, ancora, come riferito, il contratto di affitto venne stipulato dal mandatario in proprio (e non in rappresentanza del proprietario), pacifico che al concedente è succeduto la odierna controricorrente, è di palmare evidenza la legittimazione di questa ultima a agire nei confronti del M. per farne valere le inadempienze al contratto inter partes e per ottenere la restituzione del fondo.

8. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 1.600,00 per spese, e oltre spese generali e accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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