Cass. civ. Sez. III, Sent., 07-07-2010, n. 16024 AGRICOLTURA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

Con atto 2 aprile 1993 L.G. ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Palermo L.B.G..

Premesso che questo ultimo, aveva acquistato da L.B.G. e L.P.O. un fondo rustico in (OMISSIS) in via violazione del diritto di prelazione spettategli quale affittuario coltivatore diretto dello stesso, l’attore ha dichiarato di volere riscattare tale fondo e – per l’effetto – chiesto fosse emessa sentenza costitutiva del trasferimento in suo favore della proprietà di tale fondo, per il prezzo indicato nell’atto pubblico di vendita.

Costituitosi in giudizio il L.B. ha resistito alla domanda avversaria, deducendone la infondatezza e chiedendo di essere autorizzato a chiamare in causa le proprie venditrici, dalle quali chiedeva di essere garantito.

Autorizzata la chiamata in causa di L.B.G. e di L.P.O. queste hanno fatto presente che il L. non aveva mai condotto in affitto il terreno oggetto di vendita chiedendo, pertanto, il rigetto sia della domanda attrice che della domanda di garanzia proposta dal L.B..

Svoltasi la istruttoria del caso nel corso della quale a seguito del decesso di L.B.G. il processo era interrotto e riassunto con la costituzione in giudizio della L.P.O. quale erede della defunta, l’adito tribunale, con sentenza 28 gennaio 2002 ha accolto la domanda attrice, dichiarando il diritto del L. a riscattare il fondo e disponendo, per l’effetto, il trasferimento coattivo del conto stesso in favore del L. a condizione del versamento del prezzo di Euro 9.038,00 oltre Euro 1.291,00 per spese e condanna di L.P.O. a risarcire al L.B. i danni liquidati in Euro 2.349,88, oltre interessi.

Gravata tale pronunzia in via principale dalla soccombente L.P., e in via incidentale dal L.B., la Corte di appello di Palermo nel contraddittorio anche del L. che ha chiesto il rigetto dell’avverso gravame, con sentenza 3-22 giugno 2005 in riforma della sentenza del primo giudice ha rigettato sia le domande del L. sia la domanda di garanzia proposta da L.B. nei confronti della L.P., compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata, ha proposto ricorso, affidato a 4 motivi L.G., con atto 3 maggio 2006 e date successive.

Resistono, con distinti controricorso sia L.B. sia la L.P. che ha presentato, altresì, memoria.

Motivi della decisione

1. I giudici del merito hanno negato che il L. fosse titolare del diritto di prelazione del fondo per cui è controversia atteso che lo stesso il 15 febbraio 1993 (e, pertanto, nel biennio precedente l’esercizio del diritto di riscatto, esercitato con atto 2 aprile 1993) ha venduto le quote di sua proprietà di due fondi rustici per un imponibile fondiario – quanto alle quote di sua pertinenza – pari a L. 8.574 (e, quindi, superiore a L. 1.000).

2. Il ricorrente censura nella parte de qua la pronunzia impugnata con i primi tre motivi.

2.1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione delle norme di cui alla L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia risultante dalle prove acquisite al processo in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Si osserva, infatti:

– poichè dal 1 gennaio 1974 la riforma tributaria ha sostituito al tributo diretto verso lo Stato quello del reddito dominicale, non è dubbio che, pur in mancanza di modifica, il riferimento al reddito dominicale di lire mille è divenuto dopo oltre quaranta anni dalla entrata in vigore della L. n. 590 del 1965 assolutamente inadeguato come sottolineato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, nonchè dalla dottrina che si è interessata al problema;

– come confermato dal certificato del notaio Marsala se il valore di lire mille indicato dal citato art. 8 è rimasto invariato da oltre quaranta anni, i coefficienti catastali sono, invece, aumentati per effetto della rivalutazione in maniera abnorme, fino a 250 volte il valore che essi avevano nel 1965. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, in relazione all’art. 12 disp. gen., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, atteso che l’attività dell’interprete deve mirare a ricercare il senso della norma, e la corte di cassazione non può nè deve essere vincolata a sè stessa nell’attività di interpretazione del diritto, nè tantomeno consolidare interpretazioni già cristallizzatesi perchè il diritto è continuo divenire, e evoluzione costante.

In realtà alla inadeguatezza dei valori monetar cui fa riferimento il dato letterale della norma deve porre rimedio l’interprete – data la inerzia del legislatore – tenuto presente che proprio da un’errata in-terpretazione della norma nasce la maggiore sperequazione, perchè se da un lato si adegua parte del testo normativo ai valori correnti (l’imponibile fondiario dato dalla somma dei due redditi dominicale ed agrario) dall’altro non si ritiene di adeguare la restante parte del testo (lire mille) lasciandolo totalmente immutato.

2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia – infine – omessa ed insufficiente motivazione e violazione e/o falsa applicazione della L. n. 590 del 1965, art. 8, in relazione all’art. 848 c.c., ed alla L. 31 gennaio 1994, n. 91, comma 2, lett. a) con riferimento agli artt. 3 – 44 e 47 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Si osserva – in particolare – che i giudici a quibus hanno omesso di esaminare il certificato rilasciato dal notaio Marsala, nonchè i due atti di vendita dallo stesso stipulati il 15 febbraio 1993, dai quali risultava che comunque nessuna vendita di fonti aveva fatto il L..

Questo ultimo, infatti:

– ha ceduto la quota ideale spettategli (pari a un terzo dell’intero) di due piccoli fondi;

– tali fondi, erano al di sotto della unità culturale minima prevista dall’art. 848 c.c., oltre che dall’art. 44 Cost.;

– è fatto pacifico e notorio che nel 1965 anno della L. 26 maggio 1965, n. 590 per superare l’imponibile fondiario di L. mille occorreva vendere circa tre ettari di terreno, mentre ora, basta vendere giusta l’assunto della sentenza impugnata un decimo di ettaro per superiore detto imponibile e vedersi negato il diritto di prelazione;

– di ciò si è reso puntualmente conto il legislatore con la L. gennaio 1994, n. 97, art. 4, che ha concesso agli eredi considerati affittuari ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49, il diritto di acquisto della proprietà delle porzioni di fondo comprese nelle quote degli altri coeredi, e tra i requisiti è compreso quello di non avere alienato altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire 500 mila ed è indubbio – quindi – che la L. n. 590 del 1965, art. 8, che impone il requisito della mancata vendita di fondi con un imponibile fondiario superiore a lire mille opera una disparità di trattamento tra l’affittuario che esercita il diritto di prelazione e l’affittuario erede che in pratica esercita lo stesso diritto, con conseguente contrasto con gli artt. 44 e 47 Cost., oltre che dell’art. 3 Cost..

3. I riassunti motivi – intimamente connessi e da esaminare congiuntamente – sono infondati.

3.1. Giusta la testuale previsione di cui alla L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 1, in caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondi concessi in affitto a coltivatori diretti, a mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella stagionale, l’affittuario, il mezzadro, il colono o il compartecipante, a parità di condizioni, ha diritto di prelazione purchè;

– coltivi il fondo stesso da almeno due anni;

– non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a L. mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria;

– il fondo per il quale intende esercitare la prelazione in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia.

3.2. Nel tempo salvo che per aspetti che in questa sede non rilevano ai fini del decidere la norma non ha subito modifiche di sorta, da parte del legislatore, specie quanto al punto in cui prevede che il sorgere del diritto di prelazione è subordinato alla circostanza, di fatto, che il conduttore non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria e ciò ancorchè sia intervenuta, dapprima (con decorrenza dal 1 gennaio 1974), una profonda riforma del sistema tributario, poi (con decorrenza dal 1 gennaio 2002) la adozione dell’euro quale moneta di conto al posto della lire (D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213, art. 16).

A questo ultimo riguardo palesemente non coglie nel segno il rilievo svolto nel primo motivo di ricorso nella parte in cui si assume che i parametri (espressi in lire) contenuti nell’art. 8 sopra trascritto non sono più applicabili, Al riguardo è sufficiente tenere presente il non equivoco disposto del D.Lgs. 24 giugno 1998, n. 213, art. 4, comma 1, in tema – appunto – di importi in lire contenute contenuti in norme vigenti (secondo cui appunto, a decorrere dal 1 gennaio 1999, … un importo in lire contenuto in norme vigenti … non costituisce autonomo importo monetario da pagare o contabilizzare ed occorre convertirlo in Euro …).

3.3. Preso atto di quanto sopra – come puntualmente ricordato nella sentenza impugnata e come riconosce, del resto, la stessa difesa dell’odierno ricorrente – la giurisprudenza di questa Corte regolatrice è fermissime nel ritenere che in tema di prelazione agraria, il richiamo, contenuto nella L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, all’imponibile fondiario dei fondi rustici ceduti dal prelazionante si riferisce sia al reddito fondiario che a quello agrario, che, in egual modo, costituivano, secondo la normativa tributaria vigente al momento dell’entrata in vigore della L. n. 590 citata, la base di calcolo dell’imposta sui terreni.

A questi redditi deve, conseguentemente, farsi riferimento, in sede di applicazione del citato art. 8, anche dopo l’abolizione dell’imposta fondiaria, perchè essi, per quanto rappresentati da espressioni numeriche non più idonee, per difetto di aggiornamento, ad indicare direttamente la redditività complessiva dei fondi cui si riferiscono, costituiscono, pur sempre, in mancanza di nuovi criteri legali di valutazione, gli unici parametri cui la persistente vigenza della legge nel suo testo originario rimanda.

Questa lettura, fedele al dato testuale della norma, non può essere corretta prendendo in considerazione il valore fondiario vigente all’epoca dell’entrata in vigore della L. n. 590 del 1965, perchè nel sistema di tale legge non è istituita una relazione di proporzionalità fra i due indici (valore fondiario e limite di valore) destinata a rimanere costante nel tempo.

Nè, infine, tale interpretazione adeguatrice potrebbe essere giustificata da una lettura della norma del 1965 costituzionalmente conforme agli artt. 3, 44 e 47 Cost., poichè non sussistono profili di contrasto con le citate disposizioni costituzionali derivanti dal mancato adeguamento della L. n. 590 del 1965, art. 8, perdurando le limitazioni funzionali (esclusione delle alienazioni effettuate per motivi di ricomposizione fondiaria) e temporali (applicazione della restrizione al solo biennio precedente) che circoscrivono la condizione ostativa prevista dalla norma in questione e garantiscono ancora il soddisfacimento del favor costituzionale per la formazione e lo sviluppo della proprietà diretto-coltivatrice (In termini, ad esempio, Cass. 25 agosto 2006, n. 18488; Cass. 30 luglio 2002, n. 11271; Cass. 16 agosto 1995, n. 8899, tra le altre).

3.4. Tale – pacifica – giurisprudenza deve essere ulteriormente confermata, atteso che nessuno dei rilievi svolti in ricorso giustifica una diversa conclusione.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

3.4.1. Come osservato sopra questa Corte è fer-missima nell’affermare che la L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, applicabile – della L. 14 agosto 1971, n. 817, ex art. 7 – anche al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti, prevede che il diritto di prelazione è soggetto alla condizione della mancata vendita, nel biennio precedente, di altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a L. mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria.

A causa del mancato aggiornamento di tale valore dal 1965 ad oggi e a seguito del venir meno dell’imposta fondiaria si è posto il problema interpretativo se il limite delle L. mille potesse essere aggiornato con riferimento alla intervenuta svalutazione monetaria e se dovesse ancora farsi riferimento all’imponibile fondiario, inteso come somma del reddito domenicale e di quello agrario.

Tale questione è stata costantemente risolta dalla giurisprudenza nel senso che in sede di. applicazione della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8 citato, anche dopo l’abolizione dell’imposta fondiaria, deve farsi riferimento al reddito fondiario inteso come somma dei due citati redditi perchè essi, per quanto rappresentati da espressioni numeriche non più idonee, per difetto di aggiornamento, ad indicare direttamente la redditività complessiva dei fondi cui si riferiscono, costituiscono, pur sempre, in mancanza di nuovi criteri legali di valutazione, gli unici parametri cui la persistente vigenza della legge nel suo testo originario, impone, all’interpretazione, di fare ricorso per determinare il valore dei terreni, ai limitati effetti della prelazione e del riscatto in materia di fondi rustici (cfr. Cass. 25 agosto 2006, n. 18488; Cass. 30 luglio 2002, n. 11271; Cass. 26 febbraio 1994 n. 1946; Cass. 16 agosto 1995, n. 8899).

Questa lettura fedele al dato testuale della norma non può essere corretta prendendo in considerazione il valore fondiario esistente all’epoca della entrata in vigore della L. n. 590 del 1965, perchè nel sistema di valutazione previsto dall’articolo 8 di tale legge il riferimento al valore fondiario è un riferimento mobile che presuppone, in caso di successivo aggiornamento dei valori reddituali domenicale e agrario, il confronto con i valori aggiornati, vigenti al momento del trasferimento del terreno, rispetto al parametro fisso delle L. mille.

In altri termini si può dire che, nel sistema della L. n. 590 del 1965, non è istituita una relazione di proporzionalità fra i due indici destinata a rimanere costante nel tempo mentre, ovviamente, resta salva per il legislatore successivo la possibilità di aumentare il limite delle mille lire o di modificare il sistema di raffronto.

Nè d’altra parte, l’interpretazione contraria invocata dall’odierno ricorrente può essere giustificata in relazione alla necessità di una lettura costituzionalmente orientata della norma tale da impedire irrazionali disparità di trattamento e tale da salvaguardare la finalità della legge di favorire la formazione della proprietà contadina diretto-coltivatrice.

E’ vero infatti che il legislatore del 1965 (e quello del 1971) ha previsto una limitazione dei poteri di autonomia contrattuale dei proprietari di fondi agricoli (poteri che corrispondono a una posizione costituzionalmente garantita nel nostro ordinamento) in considerazione del perseguimento dell’obiettivo, costituzionalmente rilevante, del favore verso la formazione della proprietà contadina diretto-coltivatrice, peraltro, al fine di evitare che l’attribuzione del diritto di prelazione al confinante determinasse effetti, non voluti, di favore verso esercizi della prelazione con intento speculativo ha posto la condizione negativa della mancata vendita di altri fondi rustici da parte dell’avente diritto alla prelazione.

Questa condizione a sua volta è stata mitigata da tre limitazioni: la prima di carattere temporale (applicazione della restrizione al solo biennio precedente), la seconda di carattere funzionale (esclusione delle vendite effettuate per motivi di ricomposizione fondiaria), la terza di valore (esclusione delle vendite di terreni di limitato valore, sulla base del parametro delle L. mille lire).

La circostanza – come in pratica si deduce da parte del ricorrente – che confrontare i valori aggiornati delle rendite agrarie e dominicali con il limite delle mille lire significa ormai escludere di fatto completamente la terza limitazione.

Tale argomento – peraltro – non legittima però alcuna interpretazione correttiva della disposizione contenuta nella L. n. 590 del 1965, art. 8, perchè tale disposizione non perde affatto la sua funzionalità e coerenza per effetto dell’intervenuta svalutazione monetaria.

Rimane infatti il dato normativo di un correttivo, pienamente efficace, diretto a impedire acquisti speculativi e a favorire, al contrario, la formazione di proprietà contadine diretto-coltivatrici.

Non si vede per quali ragioni la vanificazione della limitazione attinente al valore della vendita debba o possa condurre a irragionevoli disparità di trattamento.

Nè può affermarsi che in tal modo si compromette l’obiettivo sotteso alle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 44 e 47 Cost..

Le due limitazioni temporale e funzionale sono infatti in grado di garantire una ampia agibilità del di ritto di prelazione a tutti i coltivatori diretti che siano nelle condizioni previste dalla legge e non abbiano venduto nel biennio precedente terreni agricoli, se non di modestissimo valore, o per ragioni di ricomposizione fondiaria ipotesi che la giurisprudenza definisce in termini che consentono di non escludere dal diritto di prelazione tutti coloro che abbiano perseguito, attraverso la vendita, l’obiettivo dell’accorpamento delle unità poderali (cfr. in termini, Cass. 25 agosto 2006, n. 18488; Cass. 26 febbraio 1994 n. 1946).

In altri termini il legislatore nel non aggiornare la disposizione di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8, ha implicitamente compiuto una scelta discrezionale e assistita da una sua piena razionalità, consistita nel sottrarre importanza alla limitazione relativa al valore della vendita.

Ed è – quindi – sicuramente da escludere che tale mancato aggiornamento imponga, per garantire la coerenza della disposizione al dato costituzionale degli artt. 3, 44 e 47 Cost., interpretazioni adeguatrici che ripristinino il rapporto esistente nel 1965 fra limite di valore della vendita e reddito fondiario del terreno.

3.4.2. Palesemente irrilevante – e non pertinente al fine di pervenire a una interpretazione della non equivoca norma positiva diversa rispetto alla anteriore, costante, giurisprudenza di questa Corte regolatrice – è la circostanza che il diritto è continuo divenire, è evoluzione costante.

In assenza – infatti – di un intervento del legislatore che sostituisca – con diversa formula – l’art. 8 più volte ricordato nella parte de qua è precluso all’interprete attribuire alla disposizione un nuovo significato, anzichè quello che è il significato proprio delle parole ivi presenti secondo la connessione di esse cfr. art. 12 preleggi, comma 1.

In una tale eventualità – infatti – l’interprete "creando" una nuova norma sì sostituirebbe al legislatore, usurpandone le prerogative.

Una siffatta operazione – non consentita in generale dall’attuale ordinamento costituzionale – è, nel caso di specie, particolarmente arbitraria, tenuto presente l’illimitato ventaglio rimesse palesemente alla esclusiva discrezionalità del legislatore delle soluzioni in tesi possibili per adeguare la norma positiva alle nuove realtà fattuali.

3.4.3. In alcun modo pertinente al fine del decidere appare la giurisprudenza di questa Corte regolatrice in margine all’art. 15 c.p.c., a seguito della entrata in vigore della riforma tributaria.

Giusta l’art. 15 c.p.c., comma 1, in particolare valore delle cause relative a beni immobili è determinato moltiplicando il reddito dominicale del terreno e la rendita catastale del fabbricato alla data della proposizione della domanda.

Contemporaneamente l’ultimo comma della stessa disposizione dispone che se per l’immobile all’atto della proposizione della domanda non risulta il reddito dominicale o la rendita catastale, il giudice determina il valore della causa secondo quanto emerge dagli atti.

E’ palese – quindi – che del tutto coerentemente, una volta divenuto non più applicabile – a seguito della abolizione dell’imposta fondiaria – il criterio di determinazione del valore dell’immobile fissato nel comma 1, la giurisprudenza di questa Corte ha fatto riferimento esclusivamente a quello di cui all’ultimo comma che, da sussidiario è divenuto l’unico applicabile.

Certo quanto sopra, certo che l’art. 8 non prevede un criterio "sussidiario" per la determinazione del valore dei fondi alienati nel biennio da colui che invoca di esercitare la prelazione, è di palmare evidenza, la irrilevanza della ricordata giurisprudenza al fine del problema specifica che ora interessa.

3.4.4. Irrilevante, ancora, al fine del decidere è quanto esposto nel terzo motivo.

Infatti:

– il notaio poteva – doveva rappresentare i fatti accaduti sotto la sua diretta percezione ma non era certamente legittimato a sostituirsi al legislatore (e al giudice investito della controversia) nell’indicare quello che sarebbe stato l’imponibile fondiario ove detto legislatore (o il giudice adito) avesse adottato i suoi (cioè del notaio) criteri di valutazione degli immobili per adeguarli alla nuova realtà;

– correttamente, pertanto, i giudici a quibus hanno ritenuto la assoluta irrilevanza, al fine del decidere del c.d. certificato proveniente dal notaio, nella parte in cui detto pubblico ufficiale palesemente esorbitando dalle proprie attribuzioni istituzionali ha dichiarato che il L. non ha venduto fondi rustici nel periodo … per un imponibile superiore a lire 1000 calcolato a norma della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 1, così interpretando tale norma secondo una sua soggettiva e personalissima opinione, in contrasto con quella che è una giurisprudenza che non poteva non essergli nota di questa Corte regolatrice, cui il R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 65, demanda quale organo supremo di giustizia l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge;

– la norma positiva preclude il sorgere del diritto di prelazione (e, quindi, di riscatto) in capo a colui che ha venduto, nel biennio precedente, fondi aventi un determinato imponibile, senza operare alcuna distinzione a seconda che terreni eccedenti un tale imponibile fossero di sua proprietà esclusiva o costituissero – come nella specie – la quota ideale di un complesso in comproprietà tra più soggetti e senza che rilevi – ove è superato il limite su cui si è ampiamente discusso in precedenza – che questi terreni non costituiscano minima unità culturale (il tutto a prescindere dalla avvenuta abrogazione dell’art. 846 c.c., e segg., per effetto del D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, art. 7, da cui totalmente prescinde la difesa di parte ricorrente);

– la circostanza che la L. 31 gennaio 1994, n. 97, art. 4 comma 2, lett. a), recante nuove disposizioni per le zone montane prevede che gli eredi considerati affittuari ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 49 delle porzioni di fondi rustici ricomprese nelle quote degli altri coeredi hanno diritto, alla scadenza del rapporto di affitto instauratosi per legge, all’acquisto della proprietà delle porzioni medesime, purchè dimostrino di non avere alienato nel triennio precedente altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a L. 500.000, salvo il caso di permuta o cessione a fini di ricomposizione fondiaria è irrilevante al fine del decidere;

– non solo la norma, infatti, riguarda – palesemente – esclusivamente lo speciale diritto ivi contemplato (cfr. art. 14 preleggi) e non può essere – certamente – applicato fuori dalle ipotesi previste, ma la circostanza che il legislatore nel 1994 abbia ritenuto, solo per questa fattispecie e non anche per quella di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8, elevare il valore dell’imponibile fondiario dimostra in modo non equivoco la correttezza della interpretazione di quest’ultima disposizione data dalla sentenza impugnata e dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice;

– manifestamente infondata, poi, è la sollevata questione di legittimità costituzionale, certo essendo totalmente diversi i presupposti dei diritto di cui alla L. n. 97 del 1994, art. 4 e quello di cui alla L. n. 590 del 1965, art. 8;

– non solo, infatti, solo nella ipotesi prevista dall’art. 4 il soggetto "preferito" viene a acquistare un fondo di cui è già proprietario pro quota e in forza di successione (mentre nella ipotesi di cui alla L. n. 590, art. 8 il soggetto "preferito" si sostituisce totalmente nella proprietà a un "estraneo" e non a un "coerede"), ma l’art. 4 non prevede neppure una "relazione" ma una sorta di "vendita" coattiva della quota dei coeredi non coltivatori diretti.

4. Risultati totalmente infondati i primi tre motivi deve rigettarsi anche il quarto, con il quale si denunzia violazione della norma di cui all’art. 91 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, atteso che in conseguenza dei superiori errori i giudici di appello avrebbero dovuto condannare le controparti alle spese del relativo grado di giudizio.

Certa, infatti, la totale infondatezza degli assunti di parte L. sussistevano gli estremi per condannare questo ultimo al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio e la circostanza che i giudici del merito abbiano, invece, compensato tali spese non può -palesemente – essere censurata dalla parte soccombente.

5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 200,00 per spese, Euro 1.000,00 per onorari, e oltre spese generali e accessori come per legge, in favore di L.P.O. e in Euro 200,00 per spese, Euro 800,00 per onorari, e oltre spese generali e accessori come per legge in favore di L.B.G..

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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