Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-03-2011) 08-04-2011, n. 14053 Frode nell’esercizio del commercio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 4 febbraio 2010, la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza pronunciata il 14 maggio 2008 dal Tribunale di Pisa, Sezione distaccata di Pontedera, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di F.A., C. C., FA.Ma.Gi. e FE.Au. in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 127, comma 1, (ex R.D. n. 1127 del 1939, art. 88) per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione ed ha rideterminato la pena in ordine al residuo reato di ricettazione in mesi dieci di reclusione ed Euro 300,00 di multa ciascuno per il F. e la FA., in mesi sei di reclusione ed Euro 300,00 di multa per il C. ed in mesi cinque di reclusione ed Euro 200,00 di multa per il FE..

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati suddetti. Nel ricorso proposto nell’interesse di F.A. e FE.Au. si lamenta, nel primo motivo, vizio di motivazione in riferimento alla sussistenza dell’elemento psicologico del contestato reato. Gli acquisti del principio attivo assoggettato a marchio erano, infatti, compiuti in modo del tutto trasparente, attraverso i canali bancari e con regolare fatturazione. Inoltre, la Corte territoriale avrebbe trascurato il rilievo della produzione documentale attestante la circostanza che, su varie riviste specialistiche, si affermava la piena operatività della eccezione galenica, confermata da una circolare della Federazione dell’ordine dei farmacisti, quanto all’impiego del principio attivo anche al di fuori dell’approvvigionamento dalla ditta che disponeva del relativo marchio. Anche sui guadagni conseguiti la Corte avrebbe errato, giacchè il prodotto galenico viene venduto dalla farmacia ad un prezzo inferiore a quello praticati per la specialità medicinale, ma esso comporta, per il farmacista, un ricavo assai minore. Nel secondo motivo si denuncia violazione di legge in ordine alla sussistenza del reato presupposto. Si osserva, in proposito,rievocando tematiche già devolute in grado di appello, che la modifica introdotta dal D.Lgs. n. 30 del 2005 relativa alla deroga della preparazione galenica quando si faccia uso di principi attivi realizzati industrialmente, non è stata correttamente interpretata dai giudici del merito, in quanto, anche in precedenza, era comunque necessaria la presentazione della ricetta medica e che la preparazione riguardasse "unità estemporaneamente" preparate: il che – sostiene il ricorso – "impediva ipso facto che il preparato galenico potesse assumere le dimensioni di un’illecita concorrenza su vasta scala". Tale innovazione, comunque, non era presente nella previgente disciplina del R.D. n. 1127 del 1939, art. 88, sicchè la novella non può operare retroattivamente. Si lamenta, poi, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla qualificazione come ricettazione dell’acquisto del principio attivo denominato "Sildenafil citrato".

Si ribadisce, al riguardo, quanto già sostenuto nell’atto di appello, e cioè che l’acquisto del principio attivo da parte degli imputati "era in concorso necessario, anche se improprio, con quello di vendita di cu alla L. n. 1127 del 1939, art. 88", giacchè il legislatore "pur implicando e presupponendo tale condotta concorrente e necessaria, aveva inteso non punirla", con la conseguenza di rendere inoperante il delitto di ricettazione, stante la clausola di riserva enunciata dall’art. 648 c.p.. E’ il caso classico "in cui la condotta tipica, la vendita, si realizza solo grazie all’intervento di una condotta concorrente, l’acquisto, per l’appunto necessaria, ma non punita". La motivazione offerta sul punto dai giudici a quibus – che esemplificano facendo riferimento ai rapporti tra ricettazione e furto (anche il ricettatore collabora con gli autori del furto) – è inconferente, giacchè l’art. 88 prevede nella struttura del fatto "la condotta di acquisto (non punita) quale elemento logico necessario della condotta di vendita (punita)". Dunque, la fattispecie postula due soggetti – il venditore e l’acquirente – il quale ultimo presta proprio quel "contributo materiale" che la sentenza impugnata richiede per la realizzazione del concorso nel reato "presupposto" che, poi, i giudici dell’appello finiscono invece per negare. Nè può valere in senso contrario la giurisprudenza formatasi a margine della possibilità di concorso e non di assorbimento del reato di ricettazione con quello di cui all’art. 474 c.p., trattandosi di condotte cronologicamente opposte a quelle che vengono qui in discorso. Si sottolinea, poi, il risalto che assume la nozione di "spaccio" prevista dalla norma in riferimento (equivalente a quella di far commercio) e la possibilità di richiamare sul punto la giurisprudenza di legittimità in tema di concorso tra i reati di ricettazione e di commercio di sostanze dopanti, ove se ne è esclusa la sussistenza. Nel quarto e ultimo motivo si lamenta mancata assunzione di una prova decisiva in riferimento alla escussione dei medici che avevano prescritto il preparato galenico, denunciando che la richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale, rilevante agli effetti dell’elemento soggettivo del reato, sia stata respinta con motivazione incongrua, considerato che, attraverso quel mezzo di prova, sarebbe anche emerso che le prescrizioni recavano indicazioni che rendevano la preparazione galenica diversa dal farmaco commercializzato.

Con due atti di ricorso di identico contenuto, rassegnati rispettivamente nell’interesse di C.C. e F.M. G., si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in riferimento alla qualificazione giuridica della condotta di acquisto del principio attivo denominato "Sildenafil citrato". Si osserva, infatti, che la fattispecie già assoggettata a sanzione a norma del R.D. n. 1127 del 1939, art. 88 – e poi recepita nel D.Lgs. n. 30 del 2005 – punendo la vendita ("spaccio") di oggetti in violazione di un titolo di proprietà industriale, chiaramente esclude la punibilità dell’acquirente di tali oggetti. "La condotta di acquisto – si sottolinea in ricorso – prevista dal legislatore come concorrente con quella di vendita nella normativa per la tutela brevettuale, si presenta come logicamente necessaria ma certamente non punibile, così integrando un’ipotesi i concorso necessario improprio e che, come tale, "per la indiscutibile presenza della clausola di riserva contenuta nell’art. 648 c.p., che esclude tutte le condotte di partecipazione al reato presupposto, non poteva essere punita quale ricettazione". Considerato, poi, che la nozione di "spaccio" è equivalente a quella di fare commercio, si richiama anche qui la giurisprudenza formatasi in tema di rapporto tra la ricettazione ed il reato di commercio di sostanze dopanti. Si lamenta, poi, vizio di motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato di ricettazione, tenuto conto del travisamento dei fatti in ordine al margine di guadagno dei farmacisti nella vendita della preparazione galenica rispetto alla commercializzazione del prodotto industriale denominato "Viagra".

Inoltre, le modalità di acquisto e di pagamento del principio attivo, la pubblicazione di riviste di settore e le indicazioni offerte dalla Federazione dell’ordine dei farmacisti, orientavano verso la applicabilità della deroga per le preparazioni galeniche, con evidente insussistenza dell’elemento soggettivo del contestato reato. Si deduce, ancora, violazione di legge, in quanto sino alla entrata in vigore del D.M. 18 novembre 2003 – successivo ai fatti di causa – non vi era alcuna norma che imponesse ai farmacisti la preliminare verifica della copertura brevettuale dei medicinali commercializzati dalle varie società autorizzate alla vendita dei farmaci, operando in materia la eccezione dei preparati galenici, peraltro di irrisoria incidenza sul piano concorrenziale rispetto alla produzione industriale. Si lamenta, infine, la mancata rinnovazione della istruzione dibattimentale per l’esame dei medici che avevano effettuato la prescrizione del "Sildenafil citrato", in forza di rilievi del tutto simili a quelli che hanno formato oggetto del corrispondente motivo di ricorso rassegnato nell’interesse del F. e del FE..

I ricorsi sono fondati, in quanto la condotta ascritta agli imputati non integra il delitto di ricettazione ritenuto a loro carico. Il delitto presupposto sulla cui base è stata ravvisata la punibilità a norma dell’art. 648 c.p., infatti, era, all’epoca dei fatti, quello previsto dal R.D. 29 giugno 1939, art. 88 (Testo delle disposizioni legislative in materia di brevetti per invenzioni industriali), il quale, nel testo da ultimo vigente, così disponeva: "Chiunque, senza commettere falsità in segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento, fabbrica, spaccia, espone, adopera industrialmente, introduce nello Stato oggetti in frode ad un valido brevetto d’invenzione industriale, è punito, a querela di parte, con la multa fino a l. 2.000.000". Tale norma è stata poi sostituita dal D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 127 (Codice della proprietà industriale, a norma della L. 12 dicembre 2002, n. 273, art. 15), il cui comma 1, anch’esso nel testo da ultimo vigente, disponeva: "Salva l’applicazione degli artt. 473, 474 e 517 c.p., chiunque fabbrica, vende, espone, adopera industrialmente, introduce nello Stato oggetti in violazione di un titolo di proprietà industriale valido ai sensi delle norme del presente codice, è punito, a querela di parte, con la multa fino a Euro 1.032,91".

Per quanto qui interessa, dunque, è rimasta immutata la struttura essenziale della condotta punibile, nella parte in cui, nel testo delle norme della cui successione si tratta, vengono evocate le nozioni di "spaccio" o di "vendita" di oggetti – o, per stare alla vicenda di specie, di sostanze farmaceutiche – assoggettate a proprietà industriale, posto che i due termini appaiono descrittivi di una identica condotta di trasferimento a terzi. Come quindi è stato correttamente posto in luce da tutti i ricorrenti, si versa in una ipotesi di struttura normativa a connotazioni plurisoggettive.

Viene dunque qui in discorso la nota distinzione tra fattispecie plurisoggettive proprie (o in senso stretto), nelle quali la norma incriminatrice prevede la punibilità di tutti i concorrenti necessari, a prescindere dalla "convergenza" o "divergenza" delle relative condotte (come nel caso della associazione per delinquere o nel duello o nella rissa), rispetto a quella – che qui rileva – delle fattispecie plurisoggettive improprie (o in senso ampio), nelle quali soltanto alcune delle condotte necessarie per l’esistenza del reato sono sottoposte a pena (si citano, come esempi, l’usura, l’estorsione o la concussione, in cui la punibilità è ovviamente esclusa per il soggetto passivo dei reati, la cui condotta, peraltro, è necessaria per la sua esistenza; ovvero la rivelazione di segreti di ufficio, la quale, a differenza della rivelazione di segreti di Stato, non prevede la punibilità di chi riceve la notizia segreta).

Ebbene, è noto che, a proposito delle fattispecie plurisoggettive necessarie improprie – quale è quella di cui qui si tratta, giacchè è del tutto evidente che la punibilità della condotta di chi "spaccia" o "vende" un determinato oggetto, presuppone, strutturalmente, il contributo causale di chi acquista o riceve quello stesso oggetto – è controverso, tanto in dottrina che in giurisprudenza, se possa essere assoggettato a pena, per la condotta descritta nella fattispecie incriminatrice, il concorrente necessario la cui punibilità non sia esplicitamente stabilita. Il caso paradigmatico in cui la giurisprudenza si è imbattuta e misurata è stato offerto, come è noto, dal reato di collusione tra il finanziere e l’extraneus, previsto dalla L. n. 1383 del 1941, art. 3.

Si è infatti affermato, al riguardo, che il criterio secondo il quale non è punibile, per il principio nullum crimen sine lege, il soggetto la cui condotta è richiesta, per la configurazione di un reato plurisoggettivo improprio, non può applicarsi in modo assoluto; deve infatti stabilirsi – si è detto – caso per caso, in base alla volontà del legislatore, se debba o meno applicarsi il principio generale per cui chi concorre nel reato ne risponde: in particolare, occorre indagare se l’esenzione da pena del concorrente necessario non indicato nella norma corrisponda allo scopo della norma stessa ed alle direttive generali dell’ordinamento giuridico.

Traendosi da ciò spunto per affermare che – per quel che riguarda l’ipotesi della collusione tra limitare della Guardia di finanza e l’estraneo, di cui alla L. 9 dicembre 1941, n. 1383, art. 3 – poichè lo scopo di tale disposizione è quello di evitare, mediante la anticipazione della soglia della punibilità alla semplice collusione, la messa in pericolo dell’interesse dello Stato alla regolare riscossione dei tributi, non vi è motivo per ritenere che il legislatore abbia logicamente voluto mandare esente da pena il privato che è parte necessaria dell’accordo finalizzato, peraltro, al raggiungimento di un suo concreto interesse economico (Cass., Sez. 1, 18 novembre 1996, Sassi; Cass., Sez. 1, 13 novembre 2002, Rimoldi.

In senso contrario v., però, Cass., Sez. 5, 30 marzo 1999, Pavan, nonchè Cass., Sez. 6, 10 giugno 1998, Ferrauto, ove si è affermato che il reato militare di collusione è reato di pura condotta e ha natura plurisoggettiva impropria, nel senso che, per la sua verificazione, è necessario sotto il profilo naturalistico il concorso dell’estraneo, il quale però, se non esorbita dalla condotta tipica prevista – consenso o mera adesione alla proposta collusiva del militare – non è a tale titolo punibile. La punibilità è invece configurarle – si è ritenuto – qualora l’estraneo ponga in essere una condotta ulteriore rispetto a quella descritta dalla norma, come ad esempio quella di istigazione, determinazione, agevolazione, venendo in tal modo ad incidere causalmente sulla realizzazione della fattispecie incriminatrice di parte speciale, restando soggetto, solo in tale eventualità, alla portata applicativa dell’art. 110 c.p.). In dottrina, peraltro, non si è mancato di sottolineare che le disposizioni sul concorso eventuale, hanno la funzione di attrarre nella sfera della punibilità condotte che, in quanto atipiche rispetto a quelle descritte nelle fattispecie incriminatrici, non sarebbero assoggettabili a sanzione, sicchè le norme generali sul concorso di persone nel reato non possono essere richiamate in relazione a condotte che, proprio in quanto descritte dalla norma, debbono essere considerate tipiche, anche se non ne è prevista la sottoposizione a pena. D’altra parte, si è pure sottolineato, la circostanza che alcune condotte, pur se descritte come necessarie per l’esistenza del reato, non siano espressamente punite, rappresenta un indice inequivoco della volontà del legislatore di escludere una loro punibilità, come può desumersi – per stare all’esempio già fatto – dal raffronto tra la rivelazione di segreti di Stato e la rivelazione di segreti di ufficio in relazione alla punibilità di chi riceve la notizia segreta, prevista solo per la prima ipotesi. Da qui la tesi secondo la quale deve escludersi in linea di principio la punibilità del concorrente necessario, in relazione alla condotta esplicitamente o implicitamente descritta nella fattispecie e non dichiarata punibile, avuto riguardo al principio di stretta legalità che deve orientare la materia.

Al lume di tali principi, dunque, non essendo prevista come punibile, dalla fattispecie incriminatrice che viene qui in discorso, la condotta di chi acquista oggetti assoggettati ad un titolo di proprietà industriale, pur essendo tale condotta "strutturalmente" indispensabile per integrare il reato di chi invece "spaccia" o "vende" tali oggetti, se ne deve dedurre che, il semplice acquisto di tale merce, non può essere punito quale concorso nel reato "proprio". In tal senso, d’altra parte, univocamente orienta la stessa evoluzione subita dalla normativa che viene qui in risalto.

La L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 15 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonchè in materia di energia), ha infatti introdotto, come è noto, al libro secondo, titolo 7^, capo 2^, del codice penale, l’art. 517 ter, il quale, sotto la eloquente rubrica di "Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale", punisce, con pena detentiva e pecuniaria, chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso, ovvero chi, al fine di profitto, introduce nel territorio dello Stato, "detiene per la vendita, pone in vendita con offerta diretta ai consumatori o mette comunque in circolazione" i beni in questione.

Con l’entrata in vigore di tale disciplina, ha stabilito la L. n. 99 del 2009, art. 15, comma 2, è stato abrogato il già citato D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 127.

Ancora una volta, dunque, la condotta di chi si limita ad acquistare beni assoggettati a privativa – pur se presupposta dalla fattispecie incriminatrice – non è punita in base alla stessa disposizione. Ma in questo caso v’è di più, proprio al lume delle novelle intervenute nel settore, per rafforzare, evidentemente, la tutela dei diritti industriali. La D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 7, (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80 (e da ultimo novellato proprio ad opera della richiamata L. n. 99 del 2009), punisce, infatti, ma con una semplice sanzione amministrativa, la condotta di chi "acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale". Dunque, stabilendosi una sanzione amministrativa per l’acquisto di beni assoggettati a privativa industriale, è di per sè categoricamente da escludersi che il fatto possa essere punito come reato, ostandovi all’evidenza il principio di specialità sancito dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9.

Ma anche a voler prescindere da tali rilievi, e dal problema della punibilità, a titolo di concorso, di chi "partecipa" al reato già previsto dal R.D. n. 1127 del 1939, art. 88 acquistando i beni "spacciati" dal venditore, è comunque certo che l’acquirente non può essere per ciò solo chiamato a rispondere, come pretenderebbe la Corte fiorentina, di ricettazione di quegli stessi beni, proprio perchè la sua condotta deve ritenersi ontologicamente "assorbita" (e penalmente consumata) all’interno di quella struttura incriminatrice:

punibile o meno che sia, giova ribadirlo, a quel titolo di reato.

D’altra parte, postulando il delitto di ricettazione la provenienza del bene da un delitto in sè perfetto ed a quale l’autore della ricettazione, per definizione legale, non deve aver contribuito, è "strutturalmente" non configurarle la ricettazione in capo a chi acquisti l’oggetto dello "spaccio," rendendo possibile e quindi "concorrendo" in tale fatto, previsto dalla legge come reato. Delitto di ricettazione e delitto presupposto sono, dunque, fattispecie che presuppongono una perfetta autonomia, tanto sul piano dei soggetti cui le due fattispecie devono essere riferite,che su quello della anteriorità logica e cronologica che il reato presupposto deve presentare rispetto a quello di cui all’art. 648 c.p..

Postulati, questi, che palesemente non ricorrono nella vicenda in esame.

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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