Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-03-2011) 11-04-2011, n. 14240

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma, con sentenza in data 4/11/2009, dichiarava S.C. e il figlio B.S. colpevoli dei delitti di abusiva attività finanziaria, usura e tentata estorsione e il B. anche di usura limitatamente agli episodi in danno dei fratelli P.F. e A. (capi c) e d), e condannati, la prima, alla pena di anni tre, mesi quattro di reclusione e Euro 20.000 di multa e il secondo alla pena di anni due, mesi due di reclusione e Euro 8000 di multa.

La S. era altresì condannata al risarcimento dei danni nei confronti delle costituite parti civili.

La Corte di appello di Roma, con sentenza in data 4/5/2010, riduceva la pena al B. a anni uno, mesi otto di reclusione e Euro 4000 di multa, pena sospesa, confermando, nel resto, la sentenza impugnata dagli imputati. Proponevano ricorso per cassazione i difensori di entrambi gli imputati; il difensore di S. C. deduceva i seguenti motivi:

a) carenza e illogicità della motivazione in punto responsabilità dell’imputata in ordine ai delitti di concorso in usura aggravata ed estorsione, fondati solo sulle deposizioni testimoniali, senza alcun riscontro oggettivo con le dichiarazioni dei testi;

b) erronea applicazione della legge penale con riferimento alla sussistenza della circostanza aggravante ex art. 644 c.p., comma 1 e comma 5, n. 4 con riferimento all’art. 59 c.p., comma 2 e art. 118 c.p., avendo erroneamente la Corte ritenuto la sussistenza dell’aggravante di essere stato commesso il reato ai danni di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale, senza alcuna verifica dell’attività svita dalle persone offese;

c) erronea applicazione della legge penale per non essere stata riconosciuta la sussistenza del meno grave reato contravvenzionale di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 132, comma 1, con conseguente declaratoria di prescrizione del reato.

Nell’interesse di B.S. venivano dedotti i seguenti motivi:

a) erronea applicazione della legge penale nella parte in cui si afferma la colpevolezza del ricorrente in ordine ai reati contestati, frutto di una non corretta ed equilibrata valutazione degli elementi probatori, non avendo nessuno dei fratelli P. accusato esplicitamente il prevenuto della presunta attività usuraia;

b) erronea applicazione di legge e insufficienza, illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui si afferma la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 644 c.p., comma 5, n. 4, non essendo mai stato effettuato alcuna verifica sulle dichiarazioni rese dalle persone offese che si qualificavano quali esercenti attività commerciale, non essendo comunque tale qualifica conosciuta dal presunto colpevole;

c) insufficienza della motivazione in ordine al mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla contestata aggravante e mancata applicazione del minimo edittale della pena.
Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi sono manifestamente infondati e vanno ritenuti inammissibili perchè propongono censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verifica re se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4A sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5A sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2A sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

La Corte di Appello di Roma, invero, con motivazione esaustiva, logica e non contraddittoria, evidenzia, con riferimento al primo motivo di ricorso di entrambi gli imputati, come l’esito delle indagini abbia evidenziato una serie di condotte usurarie indicative di un vero e proprio sistema, organizzato stabilmente, svolto con modalità professionali in diversi anni, come risulta dalle dichiarazioni delle persone offese, analiticamente esaminate dalla Corte territoriale (pag. 2-6 sentenza), ritenuti attendibile in mancanza di valide ragioni in relazione alle quali avrebbero dovuto mentire circa i prestiti ricevuti e gli interessi corrisposti, trovando conferma tali dichiarazioni nella documentazione sequestrata alla S. dalla quale emerge una attività continuativa svolta nei confronti di un rilevante numero di soggetti tra cui risultano le persone sentite dalla polizia giudiziaria.

Anche la responsabilità del B. emerge dalla documentazione sequestrata da cui risulta come nella disponibilità dell’imputato siano stati trovati diversi assegni riconducibili e prestiti effettuati ai fratelli P. e ad altri soggetti, di cui non è stata fornita alcuna giustificazione che non può essere individuata nell’attività svolta dall’imputato che ha sostenuto di operare nel campo dell’edilizia e, quindi, non aveva ragione di intrattenere rapporti economici con i fratelli P., entrambi commercianti ambulanti di abbigliamento.

Anche la circostanza che il prevenuto fosse intervenuto presso lo zio S.R. per ottenere una dilazione dell’incasso di un assegno in favore di P.A. costituisce elemento che, lungi dall’escludere il suo coinvolgimento nell’attività usuraia, anzi lo rafforza in quanto, in base alla valutazione coerente e logica della Corte, non censurabile in questa sede di legittimità, la dilazione degli incassi non era certo un evento raro in tema di usura e non vi è alcuna stranezza nel fatto che il P., valendosi della pregressa amicizia, abbia fatto pressioni sul B. per convincere lo zio a posticipare di un mese l’incasso di un assegno.

Il B., inoltre, come ben evidenziato dalla Corte territoriale, interveniva personalmente quando qualcuno "non si comportava come si deve", a riprova del suo coinvolgimento nell’attività usuraia svolta dai familiari, concorrendo con la madre e lo zio in tale attività illecita, facendo da tramite per la redazione e negoziazione di titoli, intervenendo quando era necessario con i debitori, fornendo, quindi, sostegno a un’attività familiare che conosceva bene e che con la sua collaborazione ha rafforzato. Con riferimento al secondo motivo di ricorso, comune ad entrambi gli imputati, relativo alla mancanza di prova dell’attività commerciale o professionale esercitata dai presunti usurati e, comunque, sulla conoscenza di tale attività da parte dei prevenuti, la Corte territoriale ha fornito una esaustiva motivazione, rilevando come dal punto di vista logico sia impensabile che chi effettua prestiti, come nella fattispecie in esame, in modo continuativo e per importi anche consistenti non si informi sull’attività svolta, sulle condizioni economiche, sulle fonti di reddito e sulle ragioni delle richieste; inoltre gli usurati non hanno escluso, nelle loro dichiarazioni, che i S. fossero a conoscenza delle attività economiche svolte da ciascuno, ma, anzi, in alcuni casi hanno dato per scontato che ne fossero a conoscenza; peraltro in diversi casi le parti si conoscevano già da prima, come nel caso dei P. e degli Sc., circostanza che ha indotto la Corte di merito a ritenere la conoscenza da parte degli imputati della situazione personale e dell’attività svolta da chi richiedeva il prestito.

La forza persuasiva di tale apparato argomentativo, che, per la sua decisività, assorbe in sè qualunque altro rilievo avanzato in appello dall’imputato, ritenuto implicitamente non qualificante per confortare una diversa conclusione, non può essere posta in discussione in questa sede, perchè ciò comporterebbe una inammissibile valutazione del fatto, che deve, invece, rimanere prerogativa esclusiva del Giudice di merito. Conseguentemente, i motivo di ricorso con i quali si è dedotto, sotto vari profili, il vizio di motivazione della sentenza impugnata vanno disattesi, perchè inidonei a contrastare e, quindi, a porre in crisi l’adeguatezza e la logica interna dell’iter motivazionale della stessa sentenza.

Gli argomenti proposti dal ricorrente costituiscono, in realtà, solo un diverso modo di valutazione dei fatti, ma il controllo demandato alla Corte di cassazione, è solo di legittimità e non può certo estendersi ad una valutazione di merito.

Con riferimento al terzo motivo dedotto dalla S., va rilevato che il reato di esercizio abusivo dell’attività finanziaria ( D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 132) è un reato di pericolo, eventualmente abituale ed è commesso sia da chiunque, all’interno di una struttura di carattere professionale, realizzi una o più delle attività previste dall’art. 106 TUB senza essere iscritto nell’elenco previsto dal medesimo art., sia da chiunque compia le predette operazioni protratte nel tempo, collegate da un nesso di abitualità, pur senza essere esponente di un’organizzazione professionalmente strutturata; ipotesi, quest’ultima, in cui il reato abituale deve considerarsi strutturato in una condotta unica della quale la ripetizione di una o più delle attività previste dal R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, art. 106 – TUB costituisce requisito essenziale (Sez. 5, Sentenza n. 7986 del 12/11/2009 Ud. (dep. 26/02/2010) Rv. 246148).

Correttamente la Corte territoriale ha escluso che la condotta della prevenuta potesse essere ricondotta all’ipotesi contravvenzionale cui all’art. 132 cit., comma 2, con riferimento alla giurisprudenza di questa Corte che ritiene che l’attività di erogazione di prestiti e finanziamenti sia svolta nei confronti del pubblico, da intendersi, in senso non quantitativo, ma qualitativo come rivolta ad un numero non determinato di soggetti (Sez. 5, Sentenza n. 2404 del 16/09/2009 Cc. (dep. 19/01/2010) Rv. 245832), non rilevando la destinazione data dai richiedenti al denaro ricevuto.

La Corte di merito ha ritenuto, con valutazione coerente e logica, la sussistenza di prestiti nei confronti del pubblico, così come inteso dalla giurisprudenza di legittimità, e tale valutazione va condivisa considerando il numero "impressionante" di rapporti di dare e avere indicati nell’agenda sequestrata all’imputata che, non risultando iscritta nell’albo degli intermediatore finanziari, non era legittimata a concedere finanziamenti a terzi, realizzando, quindi, un’attività professionalmente organizzata con modalità e strumenti tali da prevedere e consentire la concessione sistematica di un numero indeterminato di mutui e finanziamenti, rivolgendosi ad un numero di persone potenzialmente vasto.

Anche l’ultimo motivo dedotto dal B. è manifestamente infondato.

Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, "per il corretto adempimento dell’obbligo della motivazione in tema di bilanciamento di circostanze eterogenee è sufficiente che il giudice dimostri di avere considerato e sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art. 133 cod. pen. e gli altri dati significativi, apprezzati come assorbenti o prevalenti su quelli di segno opposto, essendo sottratto al sindacato di legittimità, in quanto espressione del potere discrezionale nella valutazione dei fatti e nella concreta determinazione della pena demandato al detto giudice, il supporto motivazionale sul punto quando sia aderente ad elementi tratti obiettivamente dalle risultanze processuali e sia, altresì, logicamente corretto". (Cass. Sez. 1A sent. n. 3163 del 28.11.1988 dep. 25.2.1989 rv 180654).

Anche la successiva di giurisprudenza questa Corte ha confermato che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la soluzione della equivalenza aver ritenuto, come nella fattispecie, detta soluzione la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto. (Sez. 4, Sentenza n. 25532 del 23/05/2007 Ud. (dep. 04/07/2007) Rv. 236992, Sez. 3, Sentenza n. 26908 del 22/04/2004 Ud. (dep. 16/06/2004) Rv.

229298).

La Corte territoriale ha ritenuto, con motivazione logica, adeguata la concessione delle attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti in relazione alla gravità e pluralità degli addebiti, avendo già ridotto la pena, nei confronti del B., nei limiti della concedibilità del beneficio della sospensione condizionale della stessa, avendo già valutato lo stato di incensuratezza e il diverso ruolo, di minore spessore criminale, svolto dal prevenuto.

Lo stesso discorso vale, naturalmente, per l’individuazione, da parte del Giudice, della pena da irrogare (fatto del quale si duole il ricorrente). La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra, infatti, nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p.. (Sez 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278).

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibili i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro ciascuno, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille, ciascuno, alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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