Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 10-03-2011) 11-04-2011, n. 14238

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 12 gennaio 2010, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa il 23 marzo 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale della medesima città, ha, per quel che qui interessa, rideterminato, in riferimento ai reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73, loro rispettivamente ascritti, la pena inflitta a C.M. nella misura di anni sei e mesi quattro di reclusione ed Euro 25.333,00 di multa; nei confronti di B.D. nella misura di anni due, mesi nove e giorni dieci di reclusione ed Euro 14.000,00 di multa; nei confronti di D.A. nella misura di anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa; ha invece confermato la pena di mesi nove di reclusione inflitta, rispettivamente, a D. P.M., BI.El. e CE.Se. in ordine al reato di partecipazione alla associazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, loro contestato.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati suddetti. Nel ricorso proposto nell’interesse di C.M. si lamenta, nel primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza della fattispecie associativa, in quanto, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, diffusamente riprodotta, nessuno degli elementi denotativi del sodalizio sarebbe stato posto in risalto dalla Corte territoriale. Lo stesso dicasi, sottolinea il ricorso, per ciò che riguarda il ruolo di promotore ascritto all’imputato. Infine, la sentenza sarebbe contraddittoria, perchè, pur avendo riconosciuto per la associazione la attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6, avrebbe escluso, invece, l’attenuante della modesta entità in riferimento all’addebito di spaccio di cui al capo B), episodio n. 821. Nel ricorso proposto nell’interesse di CE. S., BI.El. e D.P.M., si denuncia, nel primo motivo, vizio di motivazione, in quanto i giudici a quibus avrebbero contraddittoriamente ritenuto insufficienti gli elementi a carico di un coimputato nel reato associativo senza operare con gli stessi criteri nei confronti dei ricorrenti. Nel secondo motivo si lamenta che i giudici dell’appello abbiano fatto riferimento alla valutazione degli imputati se chiedere nelle successive fasi la continuazione rispetto agli episodi di spaccio per i quali era intervenuto patteggiamento divenuto definitivo, quando, invece, la continuazione era stata chiesta in udienza. Per B.D. si lamenta, nel primo motivo, vizio di motivazione, in quanto, da un lato, l’associazione è stata ritenuta finalizzata al piccolo spaccio mentre, poi, per i due episodi di spaccio contestati all’imputata non è stata ritenuta la attenuante dei fatti di lieve entità, sulla base della semplice circostanza che, nelle intercettazioni, lo stupefacente veniva definito di buona qualità. Si lamenta, poi, che sia stata ritenuta la partecipazione alla associazione soltanto sulla base di due episodi specifici, uno solo dei quali, per di più, realmente accertato. Nel ricorso proposto, infine, nell’interesse di D.A., si rinnovano questioni già dedotte in appello e, in particolare, la doglianza relativa al fatto che lo stupefacente acquistato era destinato a proprio uso personale, senza che alcuna obiettiva emergenza avesse smentito tale assunto. Le considerazioni svolte sul punto dalla Corte territoriale sarebbero in conferenti, perchè, da un lato, congetturali, e, dall’altro, contraddette dai fatti, posto che l’acquisto dello stupefacente è stato effettuato dall’imputato assieme alla B., la quale ha confermato la versione offerta dall’imputato. Il dato quantitativo della droga, poi, non sarebbe di per sè elemento sufficiente per provare la destinazione della sostanza allo spaccio. Si contesta, poi, la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato l’applicazione della diminuente prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, posto che i giudici non avrebbero tenuto conto di tutte le modalità del fatto e delle circostanze soggettive che invece dimostrano la lieve entità del fatto stesso.

I ricorsi sono tutti palesemente destituiti di fondamento ed in gran parte inficiati dalla circostanza di essere fortemente orientati verso una non consentita rivisitazione del merito, oltre che nella sostanza aspecifici, in quanto reiterativi delle medesime questioni già devolute ai giudici dell’appello e da questi motivatamente disattese, con argomentazioni che i ricorrenti si sono limitati a contestare assertivamente, senza alcun reale ed autonomo apporto critico. Quanto al C., infatti, la sentenza di appello ha puntualmente dissolto le censure proposte dall’imputato, focalizzandone il ruolo di assoluto primo piano dal medesimo stabilmente ricoperto in seno al sodalizio, evocando, a tale riguardo, le stratificate e coese emergenze scaturite dalle intercettazioni telefoniche, dalle osservazioni dirette della polizia giudiziaria, dalla partecipazione dell’imputato ad episodi particolarmente qualificanti tanto in ordine alla sussistenza, alla operatività ed alla diffusione della associazione, che in merito al ruolo organizzativo e promozionale concretamente svolto dall’imputato stesso. Quanto, poi, all’addebito di spaccio relativo all’episodio n. 821 del capo B), i giudici del gravame hanno ritenuto corretta la qualificazione ad esso data in prime cure, sul rilievo che le indicazioni emergenti dalle intercettazioni, relative all’elevato grado di purezza della sostanza stupefacente ed al prezzo unitario sul quale gli interlocutori si stavano accordando, univocamente convergessero nel senso, non soltanto della destinazione della droga a fini di spaccio, ma anche del fatto che si trattava di un acquisto destinato al mercato e quindi che non poteva essere di modesta entità. D’altra parte, si tratta proprio dell’episodio della sottrazione di un chilo di cocaina allo "(OMISSIS)" o " A."; il che, al di là della particolare valenza dell’episodio stesso sul versante associativo, evoca un dato ponderale del tutto incompatibile con le generiche "riserve" che il ricorrente enuncia al riguardo.

Del pari inconferenti sono le doglianze espresse nel ricorso proposto nell’interesse del CE., della BI. e del D.P., considerato che la sentenza impugnata, saldandosi ai rilievi già sviluppati sul conto degli imputati nella sentenza di primo grado, ha più che adeguatamente focalizzato le singole emergenze alla stregua delle quali si è ritenuta probatoriamente asseverata la loro posizione di partecipi del sodalizio, mettendo in luce lo specifico ruolo dagli stessi rispettivamente ricoperto, la stabilità del vincolo, ed il contributo consapevolmente offerto alla prosecuzione della attività di spaccio, alla acquisizione di nuovi clienti e alla diffusione sul territorio della associazione, assecondata, anche, dalla attività svolta dal D.P., che gli permetteva di viaggiare in varie province della Lombardia. Quanto alla richiesta di continuazione con i vari reati di spaccio per il quali era intervenuta condanna, le doglianze relative alla mancanza di motivazione sul punto si rivelano del tutto inconsistenti, giacchè la richiesta formulata a tal proposito nelle conclusioni rassegnate in udienza è stata enunciata in termini del tutto generici, senza neppure fare puntuale riferimento alla sentenza cui si riferiva la richiesta di applicazione della disciplina del reato continuato e senza che sul punto venisse offerta la benchè minima argomentazione circa la sussistenza dei presupposti dell’istituto di cui veniva domandata la applicazione.

Il ricorso proposto nell’interesse della B. si limita ad una sterile contestazione delle risultanze probatorie evidenziate a carico della imputata, tanto in ordine alla fattispecie associativa che in riferimento agli episodi specifici di acquisizione della droga per il successivo smercio. La sentenza impugnata è al contrario più che esauriente nel porre in luce, ancorchè nel limitato numero di fatti specifici ascritti all’imputata, il ruolo da quest’ultima svolto per il sodalizio, evidenziando come lo stesso fosse stato portato ad emersione non soltanto dalle intercettazioni, ma anche dalle operazioni di ritardato arresto, mentre il quantitativo di droga "trattato" dalla imputata, impediva la sollecitata applicazione della diminuente del fatto di lieve entità. I rilievi della ricorrente, dunque, non soltanto si limitano ad introdurre tematiche di merito estranee all’odierno sindacato di legittimità, ma si rivelano pure generici, in quanto reiterativi di corrispondenti doglianze già enunciate in occasione del gravame di merito ed ora rinnovate, senza assegnare uno specifico risalto alle argomentate repliche offerte dai giudici dell’appello su ciascuno dei profili attinti dai motivi di impugnazione. La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai da tempo consolidata nell’affermare che deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), alla inammissibilità della impugnazione (Cass., Sez. 1^, 30 settembre 2004, Burzotta; Cass., Sez. 6^, 8 ottobre 2002, Notaristefano; Cass., Sez. 4^, 11 aprile 2001 Cass., Sez. 4^, 29 marzo 2000, Barone; Cass., Sez. 4^, 18 settembre 1997, Ahmetovic).

Ugualmente inammissibile, e per le stesse ragioni, è anche il ricorso del D., dal momento che la sentenza di appello ha puntualmente dedotto, dalle modalità secondo le quali è avvenuto l’acquisto dello stupefacente da parte della B., dalle contraddittorie versioni offerte dai protagonisti della vicenda su tale illecita transazione, e dal quantitativo di cocaina cui si è riferito 1 affare un adeguato e convergente quadro di riferimento per dedurre la destinazione della cocaina stessa a fini di spaccio. Il che valeva anche a giustificare, alla luce pure del contesto in cui la vicenda si è iscritta e del dato ponderale la mancata applicazione della diminuente di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi segue pertanto la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè di ciascuno di essi al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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