Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 02-03-2011) 11-04-2011, n. 14512

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 21-1-2010 la Corte d’Appello di Milano, in accoglimento dell’appello del PM avverso la decisione del tribunale in composizione monocratica di Sondrio dell’11-12-2007, elevava la pena inflitta a D.M. a mesi dieci di reclusione, respingendo l’appello proposto dal difensore dell’imputata.

La predetta è imputata di procurato aborto colposo e di lesioni personali colpose gravissime in danno di B.C., di anni 34, in conseguenza di un intervento di amniocentesi eseguito sulla stessa, gravida alla quindicesima settimana, in struttura non autorizzata e senza seguire le linee guida di detta procedura, e, successivamente, per effetto della mancata tempestiva diagnosi – benchè informata telefonicamente di sintomi quali dolori addominali, rialzo termico, diarrea, vomito e infine anche perdite vaginali – dell’instaurarsi di un processo settico quale complicanza dell’amniocentesi, scambiato per un episodio influenzale, in tal modo compromettendo le condizioni della paziente che, dopo l’aborto, dapprima correva pericolo di vita, poi era sottoposta a isterectomia e salpingectomia bilaterale, con malattia di durata superiore a quaranta giorni, perdita della capacità di procreare, indebolimento permanente dell’organo di contenzione dei visceri addominali e dell’udito, ed insufficienza renale, malattia probabilmente insanabile.

La B. era sottoposta ad amniocentesi il 24-4-2004 presso uno studio medico dove operava la dr. D. e, durante la penetrazione dell’ago, avvertiva dolore; il giorno seguente la donna aveva cominciato ad accusare disturbi e dolori al ventre e nella notte successiva erano comparsi vomito, diarrea e febbre alta.

La mattina del 26 la B., in presenza dell’aggravarsi dei sintomi, aveva contattato telefonicamente l’imputata tre volte, venendo dapprima rassicurata, indi le erano stati prescritti farmaci antinfluenzali, poi ulteriormente rassicurata e sconsigliata dal recarsi presso l’ospedale di (OMISSIS).

Nel primo pomeriggio del 26 la madre della B. contattava il proprio medico curante per prospettargli la situazione e questi consigliava di farla visitare da un ginecologo ipotizzando un collegamento con la recente amniocentesi. In una ulteriore telefonata la D. consigliava ecografia presso l’ospedale di (OMISSIS), ma alle ore 18,20 la B. era ricoverata all’ospedale di (OMISSIS), dove veniva sottoposta a raschiamento a causa della morte del feto e riscontrata affetta da setticemia, con trasferimento dapprima in rianimazione, quindi, nella notte, all’ospedale Niguarda di Milano, dove subiva l’asportazione dell’utero.

La pronuncia di responsabilità era basata in particolare sulla CT del PM e su quella della parte civile (il marito della B., P.M.) e sulle dichiarazioni dei sanitari che avevano avuto in cura la paziente, da cui emergeva che, avendo gli esami culturali evidenziato la presenza di enterococchi (durans e faecium) e di stafilococchi, batteri di origine, i primi, intestinali, i secondi della cute, la contaminazione della cavità uterina era attribuibile alla microlesione di un’ansa intestinale da parte dell’ago con cui si esegue l’amniocentesi, oppure all’insufficiente pulizia della cute in sede di penetrazione dell’ago.

Poichè la sintomatologia lamentata dalla p.o., rimandava ad una complicanza dell’amniocentesi, non già a sidrome influenzale, era ritenuta possibile la precoce diagnosi dell’Infezione, che avrebbe evitato, con ottime probabilità, il diffondersi della stessa, e quindi le conseguenze verificatesi.

Quanto al primo reato, la lesione dell’ansa intestinale era ritenuta conseguenza dell’inadeguato controllo ecografico della progressione dell’ago nell’addome, che aveva impedito di visualizzare l’ansa e quindi di evitarla. Tale dinamica del fatto era ritenuta avvalorata da tre elementi: a) il dolore avvertito dalla B., b) il rilievo da parte dei sanitari del Niguarda di un’area d’infiammazione in corrispondenza del sigma della paziente, significativa di lesione idonea a trasferire il batterio dall’intestino all’utero, c) il tempo di insorgenza del quadro settico (tra l’amniocentesi e la manifestazione della sepsi era intercorso un lasso pari al periodo di incubazione nell’utero, terreno particolarmente fertile, dei batteri).

D’altro canto l’imputata aveva operato senza guanti, e questo aveva potuto determinare l’ingresso di batteri nella cavità uterina.

La possibilità, prospettata dal CT dell’imputata, della diffusione dei germi, senza alcun collegamento con l’amniocentesi, per via ascendente, cioè risalendo dai genitali all’utero, era esclusa, in considerazione dell’assenza di tracce di una preesistente infezione vaginale della paziente dovuta alla contaminazione dei genitali con materiale fecale, non lamentata dalla stessa ai curanti e non diagnosticata da alcuno dei sanitari che l’avevano visitata. Senza contare che si tratta di batteri non resistenti all’aria.

Quanto alle lesioni gravissime, all’imputata era ascritta imperizia per non aver riconosciuto i sintomi dell’infezione, sia per la loro tipologia, sia perchè a possibile causa era il recente intervento di amniocentesi da lei stessa eseguito.

L’avv. Carlo Gilli, difensore della prevenuta, ha proposto ricorso rilevando con il primo motivo erronea applicazione della legge processuale in materia di notifica, non essendo stato a tutt’oggì notificato in modo rituale alla D. l’estratto contumaciale della sentenza (il domicilio eletto presso l’ospedale (OMISSIS) si era rivelato inidoneo, ma l’ufficiale giudiziario, in luogo di effettuare la notifica al difensore, l’aveva effettuata ex art. 157 c.p.p. presso l’abitazione in Milano della prevenuta, che frattanto l’aveva dichiarata come proprio domicilio). La richiesta è quindi che sia disposta la notifica all’imputata dell’estratto contumaciale della sentenza.

Con il secondo motivo si assumono erronea applicazione delle norme relative al legittimo impedimento del difensore ed omessa motivazione sul punto, avendo il tribunale respinto l’istanza di rinvio per malattia del difensore, unico rimasto dopo la rinuncia del codifensore, in primo luogo perchè trasmessa a mezzo fax, in secondo luogo perchè il legale impedito aveva nominato un sostituto, sia pure al solo fine di insistere per il rinvio, limitazione ritenuta irrilevante. Il difetto di assistenza dell’imputata determinerebbe quindi nullità assoluta, con conseguente necessità di annullamento della sentenza con rinvio al tribunale di Sondrio.

Con il terzo motivo si deduce omessa correlazione tra accusa contestata e sentenza, avendo il tribunale di Sondrio, a fronte della contestazione, nel capo d’imputazione, come causa dell’aborto, della perforazione di un’ansa intestinale con l’ago dell’amniocentesi, introdotto anche altre cause alternative, quali l’insufficiente pulizia in sede di penetrazione dell’ago, in tal modo riducendo le possibilità di difesa dell’imputata.

Di qui la richiesta di annullamento della sentenza.

Sempre nell’ambito di questo motivo, si deduce la carenza di motivazione in ordine al rigetto, da parte della corte d’appello, dell’istanza di perizia intesa ad accertare se è possibile visualizzare mediante ecografo la presenza di anse intestinali.

Se infatti tale possibilità fosse esclusa, il relativo rischio sarebbe stato inevitabile e resterebbe soltanto, come causa dell’infezione, l’insufficiente pulizia in sede di penetrazione dell’ago, peraltro implicitamente esclusa a dall’esito dell’istruttoria dibattimentale, che ha evidenziato come il batterio non sopravviva all’aria.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce illogicità manifesta o mancanza di motivazione in ordine all’affermazione di responsabilità per l’aborto procurato avendo la corte d’appello, da un lato, confermato l’impianto della sentenza di primo grado (che prospetta due ipotesi alternative di causazione del processo settico: quella da perforazione di ansa intestinale e quella da insufficiente pulizia della zona di penetrazione dell’ago), dall’altro contraddittoriamente circoscritto l’eziologia dell’evento ad una sola delle due ipotesi, quella endocorporea.

Il che imporrebbe l’annullamento della sentenza.

La corte, secondo il ricorrente, ha comunque sottovalutato il tema centrale, costituito dalla possibilità di visualizzare le anse intestinali durante l’amniocentesi, possibilità ritenuta soltanto dal dr. Bu., medico legale CT della parte civile, ma ritenuta in termini dubitativi dal dr. A. CT della Difesa, e, in termini ancor più dubitativi, dal CT del PM, dr. N., ginecologo, secondo il quale il rischio di collisione con un’ansa intestinale durante l’amniocentesi è fisiologico e non preventivabile.

Inoltre la corte ha privilegiato l’eziologia endocorporea (i microrganismi isolati dal secreto vaginale e dai tamponi uterini effettuati durante il ricovero della paziente sono di origine intestinale), anche se uno dei due CT del PM, dr. O., l’aveva ritenuta solo molto più suggestiva di quella dell’infezione ascendente dalla vagina, che però non potrebbe escludersi oltre ogni ragionevole dubbio.

Infatti il tampone vaginale eseguito il 30 aprile presso il Niguarda, ha evidenziato la presenza del batterio fecale, non potendo quindi escludersi che fosse presente anche quattro giorni prima.

Quindi contraddittorietà del quadro probatorio che avrebbe dovuto determinare assoluzione dell’imputata.

La richiesta è quindi di annullamento della sentenza con riferimento al capo A).

Con il quinto motivo, si denuncia mancata acquisizione di prova decisiva (piantine relative alle celle agganciate dal cellulare della p.o. in occasione delle telefonate alla prevenuta, CCTT di parte su tale punto, effettuazione di perizia sui tabulati telefonici) e mancanza e/o manifesta illogicità di motivazione in ordine al reato di lesioni colpose, con richiesta di annullamento della sentenza impugnata.

Si sostiene che non v’è prova della corretta rappresentazione da parte della p.o., nelle telefonate all’imputata (che si trovava a Milano presso un altro ambulatorio), della situazione che avrebbe dovuto indurre questa a diagnosticare il processo settico in corso.

La corte avrebbe quindi erroneamente dedotto l’imperizia della D. dal fatto che perfino il medico curante della madre della B., nelle prime ore del pomeriggio del 26 Aprile, interpellato telefonicamente, avesse rilevato una situazione di emergenza, dal momento che, secondo le stesse dichiarazioni delle due donne, questi si era limitato ad affermare che la febbre dipendeva dall’amniocentesi e che sarebbe stata opportuna una visita del ginecologo, aggiungendo che sarebbe stato disponibile lui stesso, verso le ore 18, a visitare la p.o..

Inoltre dalle consulenze non ammesse dalla corte d’appello risulterebbe che la B., a differenza da quanto dalla stessa sostenuto, e a conferma che il suo stato di salute non poteva essere tanto grave, non avrebbe effettuato le telefonate alla D. stando a letto, ma spostandosi in vari luoghi, essendo state agganciate dal suo cellulare celle diverse, il che, secondo il ricorrente, non è giustificato dalla regola di comune esperienza giudiziaria, invocata per contro dalla corte d’appello, secondo cui, in caso di sovraccarico di una cella, si determina automaticamente l’aggancio ad altra vicina. La corte, infine, non avrebbe motivato sul punto del possibile aggravamento dell’infezione per effetto del raschiamento, elemento sopraggiunto idoneo ad interrompere il nesso causale.

I motivi sesto, settimo ed ottavo riguardano rispettivamente la mancata conversione della pena detentiva in pecuniaria (ora, a seguito dell’elevazione della pena, libertà controllata) e mancata concessione del beneficio della non menzione, senza alcuna motivazione; la quantificazione della provvisionale di Euro 10.000 in favore del marito della p.o., costituito parte civile, pur in assenza di prova del quantum debeatur; la confisca dell’attrezzatura medica utilizzata per l’esecuzione dell’amniocentesi, già motivo di appello totalmente dimenticato dalla corte territoriale.

La parte civile ha depositato articolata memoria con la quale ha chiesto la conferma della sentenza impugnata.

MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Il primo motivo del ricorso, inerente alla notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di secondo grado, è infondato.

Va premesso che, dopo un tentativo di notifica in data 1-7-2010, non andato a buon fine, al domicilio eletto dall’imputata (Ospedale (OMISSIS)), la stessa, il 7-7-2010, aveva dichiarato domicilio presso la propria abitazione, dove l’estratto contumaciale le veniva notificato, ex art. 157 c.p.p., il 23-8-2010.

Non è quindi condivisibile l’assunto del ricorrente che, senza contestare la regolarità procedurale di quest’ultima notifica, si duole della mancata notifica al difensore ex art. 161 c.p.p., comma 4.

Infatti, essendo nel frattempo pervenuta all’autorità giudiziaria la comunicazione della dichiarazione di domicilio presso l’abitazione, ritualmente la notifica veniva effettuata, non essendosi perfezionata quella al domicilio eletto, al domicilio dichiarato, non essendo applicabile l’art. 162 c.p.p., comma 4. 2) A disattendere il secondo motivo, poi, basta osservare che, come esattamente rilevato dalla corte territoriale in conformità all’orientamento di questa corte, il sostituto del difensore, alla stregua del chiaro disposto dell’art. 102 c.p.p., esercita i diritti e assume i doveri del titolare, sicchè non rilevano eventuali limitazioni apposte alla sua designazione (Cass. 7458/2008, con cui è stato ritenuto legittimo il rigetto di richiesta di rinvio del processo formulata dal sostituto per impedimento del titolare a causa di malattia, stante l’irrilevanza del conferimento espresso del solo incarico di formulazione di una tale richiesta).

Senza contare che, come evidenziato nella memoria della parte civile, l’avv. Gilli, già il 9-1-2006, in fase di indagini preliminari, aveva nominato proprio sostituto, senza alcuna limitazione e senza mai revocare la nomina, l’avv. Soliani Andrea, lo stesso nominato sostituto per il dibattimento (v. nomina allegata alla memoria), il quale quindi, anche in base a tale atto, rivestiva il ruolo di sostituto.

3) Non sussiste la dedotta mancanza di correlazione tra accusa contestata e sentenza. In primo luogo è inesatta l’affermazione secondo cui il Tribunale di Sondrio avrebbe introdotto cause alternative dell’aborto, a fronte del l’asserita mente unica contestazione, nel capo d’imputazione, della perforazione di un’ansa intestinale con l’ago dell’amniocentesi, dal momento che quella dell’insufficiente pulizia in sede di penetrazione dell’ago, era ulteriore causa anch’essa già ricompresa nell’ipotesi accusatoria (dove si contesta all’imputata, tra l’altro, di aver operato "senza guanti sterili").

In secondo luogo, e comunque, per costante orientamento di questa corte, la contestazione della colpa generica consente al giudice, senza incorrere nel vizio di mancata correlazione tra accusa contestata e sentenza, di ravvisare anche profili di colpa specifica non espressamente contestati, possibilità preclusa, in quanto lesiva del diritto di difesa, soltanto in caso di contestazione di una singola, specifica, ipotesi colposa, nella specie non ricorrente in quanto sono contestate sia la colpa generica che plurimi profili di colpa specifica.

4) Il quarto motivo, dietro l’apparente denuncia di vizio della motivazione, si risolve nella sollecitazione di un riesame del merito – non consentito in sede di legittimità- attraverso la rinnovata valutazione degli elementi probatori acquisiti (e la richiesta, formulata con il terzo motivo, di perizia). Invero le sentenze di primo e secondo grado hanno indicato, con articolato impianto motivazionale coerente e logico, tutti gli elementi atti a sostenere la conclusione a) che la causa del processo settico all’origine dell’aborto, è da ravvisare nella perforazione di un’ansa intestinale per mancato monitoraggio dell’ago durante l’amniocentesi, da cui era derivato il transito di Datteri intestinali nell’utero della B.; b) che il corretto controllo ecografia) dell’ago avrebbe consentito di localizzare, e quindi di evitare, le anse intestinali, soprattutto se contenenti materia fecale.

A contestare tali motivati approdi, il ricorrente si limita a riproporre, sotto il primo profilo, l’ipotesi prospettata dal CT dell’imputata, secondo cui l’origine del quadro settico potrebbe anche essere individuabile in un’infezione ascendente dalla vagina.

Ipotesi che, non potendo essere esclusa, darebbe luogo a ragionevole dubbio in ordine alla responsabilità. Ma tale prospettazione alternativa è non solo, come rilevato dal primo giudice, "priva di conforto probatorio" in assenza di documentazione di infezione dell’ambiente vaginale (che avrebbe dato inevitabilmente luogo a sintomi importanti di vaginite e leucorrea), non riferita dalla B. nè rilevata da alcuno dei medici che l’ebbero in cura, ma anche smentita, a favore dell’infezione endocorporea ritenuta dai giudici di merito, dagli elementi evidenziati dalla corte territoriale e cioè a) il dolore avvertito dalla B. durante l’esame, plausibilmente dovuto all’impatto dell’ago contro un’ansa intestinale, b) il rilievo da parte dei sanitari del Niguarda di un’area d’infiammazione in corrispondenza del sigma della paziente, compatibile con la perforazione ad opera dell’ago, c) il tempo di insorgenza del quadro settico rispetto all’effettuazione dell’amniocentesi, pari al periodo di incubazione nell’utero, terreno particolarmente fertile, del batteri (dopo ventiquattrore erano comparsi i primi sintomi, dopo quarantotto il quadro settico si era conclamato).

Ad ulteriore conferma dell’origine interna del processo infettivo, va ricordata l’assenza di prova del verificarsi di contrazioni uterine atte a provocare l’ipotetica risalita dei batteri attraverso la vagina, mentre la presenza del batterio fecale nel tampone vaginale eseguito sulla B. presso il Niguarda il 30 aprile, cioè a sei giorni dall’amniocentesi, è pienamente compatibile con l’intervenuta diffusione della sepsi, a quell’epoca, in tutto l’apparato riproduttivo della p.o., non avvalorando quindi in alcun modo la conclusione che il batterio fosse presente in vagina anche in precedenza. Ad accantonare poi definitivamente la possibilità dell’infezione ascendente, va, ricordata la non resistenza all’aria del batterio durans – uno dei due tipi di enterococchi individuati attraverso gli esami culturali cui era stata sottoposta la paziente – con conseguente, necessaria, esclusione dell’accesso di questo dall’esterno attraverso la vagina della p.o..

A fronte di tale chiara eziopatogenesi dell’aborto, collegata ad un preciso e certo dato anamnestico – l’amniocentesi -, idoneo a produrlo, essendo la perforazione di un’ansa intestinale (che nella specie, come ricordato, ha lasciato traccia nell’area d’infiammazione in corrispondenza del sigma della paziente) uno dei rischi propri di tale procedura (che comporta l’introduzione di un ago nella cavità addominale della gestante), l’ipotesi dell’infezione vaginale ascendente resta quindi non solo priva di qualunque conferma, ma smentita dalle risultanze.

Questione del pari di merito, già risolta positivamente con motivazione immune da vizi logici dai giudici di merito, è quella della prevedibili – e della prevenibilità- del rischio appena citato, non essendo quindi necessaria la perizia della cui mancata effettuazione il ricorrente si duole nell’ambito del terzo motivo.

Sul punto il giudice di primo grado ha perspicuamente motivato mediante richiamo all’esame del CT della parte civile, prof. Bu.

F., medico legale, nella parte in cui questi ha affermato che le anse intestinali, ove contenenti materia fecale (come nella specie, essendo uno dei due enterococchi rilevati, di origine intestinale), sono visibili attraverso l’ecografia che deve accompagnare l’esecuzione dell’amniocentesi. Affermazione la cui logicità è tale da essere evidente anche al profano.

Al riguardo il ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, in virtù del quale il vizio di motivazione deve risultare dal provvedimento impugnato oppure da atti specificamente indicati, si limita a citare brevi stralci incompleti di relazioni e di esami di altri consulenti, in apparente contrasto con l’affermazione appena ricordata, senza peraltro indicare in modo circostanziato i passaggi di tali consulenze e le domande poste ai consulenti, precludendo così il controllo dell’asserito contrasto (Cass. 200747499). Con la conseguenza che il relativo motivo è, sotto tale profilo, aspecifico e quindi inammissibile.

5) Sotto il profilo delle lesioni gravissime, non si ritiene integrato il vizio di mancata acquisizione di prova decisiva. Il ricorrente lamenta la mancata acquisizione di piantine e consulenze di parte (nonchè la mancata effettuazione di perizia sui tabulati), dalle quali risulterebbe che la B., nelle telefonate intercorse con l’imputata il 26 aprile, aveva agganciato celle diverse. Il che, denotando che la p.o. non era immobilizzata a letto, starebbe quindi a significare che le sue condizioni non erano particolarmente gravi, avallando conseguentemente la possibilità che alla D. non fosse stata descritta una sintomatologia tale da rendere diagnosticabile il grave processo settico in corso.

Ma, ad escludere la decisività della prova, basta considerare che l’aggancio di celle diverse, da una parte, come rilevato dalla corte territoriale, non è necessariamente significativo di spostamenti dell’utente (in quanto il sovraccarico di una cella determina notoriamente lo spostamento della chiamata su altra libera), dall’altra, e comunque, non è nella specie decisivo al fine di escludere, o anche solo mettere in dubbio, il grave stato di salute della B. che, oltre ad essere stato affermato dalla stessa, e confermato dal testimoniale assunto (la madre, che si rivolse anche al suo medico curante per un consiglio; il marito; la collaboratrice domestica), è attestato anche dalle notizie anamnestiche fornite al momento, non sospetto, del ricovero presso l’ospedale di (OMISSIS), dove la p.o. fu sottoposta a raschiamento per aborto settico postamniocentesi. Con l’ovvia conseguenza che i quattro certi contatti telefonici di quel giorno con la D. (tre nella mattinata ad opera della stessa B., il quarto nel pomeriggio ad opera della madre, a conferma dell’ingravescenza delle condizioni della p.o.), non poterono che avere ad oggetto, come riferito in sede di ricovero -essendo altrimenti inspiegabili anche in ragione del loro numero-, la grave sintomatologia accusata dalla gestante, propria del processo infettivo in atto e prodromica dell’aborto. Del tutto aspecifica, infine, la censura, formulata nell’ambito del motivo in esame, di omessa motivazione sul punto del possibile aggravamento dell’infezione per effetto del raschiamento, configurabile come elemento sopraggiunto idoneo ad interrompere il nesso causale: ipotesi del tutto generica, priva dell’indicazione di qualunque elemento a sostegno.

6) Il sesto motivo, mentre è inammissibile sotto il profilo della sostituzione della pena detentiva con la libertà controllata (non chiesta con i motivi d’appello), è fondato sotto quella dell’omessa motivazione della mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna, in effetti mancante a fronte di specifica richiesta formulata con i motivi d’appello. Il ricorso va quindi accolto sul punto.

7) L’inammissibilità del settimo motivo, relativo alla quantificazione della provvisionale in favore del marito della p.o., costituito parte civile, discende dal rilevo che, trattandosi di statuizione non definitiva, essa è insuscettibile di riesame in questa sede.

8) E’ fondato l’ottavo motivo di ricorso. Invero la corte territoriale ha ignorato la specifica istanza di dissequestro della restante attrezzatura medica, formulata con i motivi d’appello sul rilievo della mancata motivazione della confisca – facoltativa – disposta dal primo giudice. Per quanto l’attrezzatura ancora in sequestro sembri limitarsi sostanzialmente ad una sonda e ad uno speculum (risultando l’ecografo già dissequestrato) -mentre alla restituzione del restante materiale confiscato (feto e placenta, analisi, referti, vetrini) il ricorrente non ha ovviamente interesse e non ne ha fatto oggetto di doglianza – l’omessa motivazione al riguardo rende il ricorso accoglibile sul punto. Segue l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente ai due aspetti evidenziati (non menzione della condanna e confisca dell’attrezzatura utilizzata per l’esecuzione dell’amniocentesi), con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano per nuovo esame.

Segue altresì la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di parte civile, che si liquidano d’ufficio come in dispositivo – essendone stata chiesta la liquidazione in via equitativa -, tenuto conto anche della deposito della memoria.
P.Q.M.

La Corte annulla l’impugnata sentenza limitatamente all’omessa concessione della non menzione ed alla confisca degli oggetti in sequestro, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano.

Rigetta il ricorso nel resto e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di P.C., che liquida in Euro 3000 complessivi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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