Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 23-02-2011) 11-04-2011, n. 14519 Armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il provvedimento impugnato veniva confermata l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli in data 20.10.2010, con la quale veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di S.N. per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., commesso partecipando alle attività del gruppo cosiddetto bidognettiano dell’associazione criminosa nota come Clan dei Casalesi stabilmente procacciando ed occultando le armi da fuoco impiegate nelle azioni intimidatorie, estorsive ed omicidiarie del sodalizio.

Il ricorrente deduce:

1. violazione dell’art. 273 cod. pen. e difetto di motivazione in ordine alla sussistenza di gravi indizi a carico del S.;

2. violazione dell’art. 649 cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla improcedibilità del reato per la sussistenza di un precedente giudicato sugli stessi fatti;

3. violazione dell’art. 274 cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari.
Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza di gravi indizi a carico del S., è infondato.

Il requisito della gravità indiziaria veniva individuato dal Tribunale nelle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Sp.Or. e D.F., avendo in particolare riferito lo Sp. della detenzione da parte del S. di una pistola Beretta 9×19, che L.G. gli diceva aver sottratto nel 2001 insieme a I.M. ad un agente di polizia penitenziaria di nome N. ed essere stata custodita dal S. anche dopo l’arresto del L., e di una pistola cal. 9×21 ed una mitraglietta cal. 7,65 per il possesso delle quali il S. veniva infine tratto in arresto, ed il D. dell’aver il S. custodito per conto del L. sei o sette armi fra pistole e mitragliette che egli vedeva personalmente nella masseria del S., apprendendo nell’occasione dal L. che le stesse erano riferibili al gruppo Bidognetti, e che il S. deteneva fino all’arresto del D., avvenuto nel 2005, venendo infine tratto in arresto per la detenzione di parte di esse. Il Tribunale osservava che tali dichiarazioni erano riscontrate dall’ammissione del furto della pistola in danno dell’agente di polizia penitenziaria da parte di I.M. e dal sequestro delle armi nei confronti del S. nel dicembre del 2006, e che la continuità nel tempo del ruolo di custode svolto dall’indagato evidenziava il legame associativo di quest’ultimo con il gruppo criminoso.

Il ricorrente lamenta che il Tribunale non abbia motivato sull’attendibilità intrinseca dei collaboranti e sui riscontri rispetto alla specifica ipotesi criminosa per la quale la misura veniva applicata, rispetto a dichiarazioni generiche, fra loro non sovrapponigli, relative a fatti appresi de relato dal L. e comunque rappresentative unicamente dell’aver il S. detenuto armi per conto del Letizia e non anche di un’affiliazione dello stesso all’associazione o di retribuzioni o incarichi ricevuti da quest’ultima, circostanze che ove esistenti sarebbero state note allo Sp. in quanto titolare per sua stessa ammissione di un ruolo determinante nell’associazione svolto per anni nel territorio di Castelvolturno.

La motivazione del provvedimento impugnato dava atto tuttavia del convergente contenuto delle dichiarazioni dello Sp. e del Diana non solo sulla detenzione delle armi, del resto confermata dal rinvenimento di parte delle stesse in possesso dell’indagato, ma anche sul l’aver il Sa.cu.st.le.ar.pe.

c.d.L.e.d.a.a.d.d.d.

Di. sull’aver appreso da quest’ultimo che tale attività di custodia era svolta per conto del gruppo Bidognetti. I riscontri evidenziati dal Tribunale, con riferimento fra l’altro alla continuità della disponibilità assicurata in tal senso dall’indagato, vanno a questo punto riferiti anche al legame associativo emergente da queste ultime dichiarazioni; e la relativa motivazione non presenta aspetti di manifesta illogicità, a fronte di argomentazioni del ricorrente che propongono unicamente una diversa valutazione degli stessi elementi o considerazioni, quali quelle riferite alla mancanza di conoscenze dirette palesata dallo Sp. in ordine all’affiliazione del S., implicitamente disattese dai giudici di merito nel complessivo giudizio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie.

2. Infondato è pure il secondo motivo di ricorso, relativo all’improcedibilità del reato per la sussistenza di un precedente giudicato sugli stessi fatti.

Il ricorrente rileva in particolare come il Tribunale abbia omesso di considerare, nel ritenere la diversità del fatto costituente il reato associativo rispetto a quello di detenzione delle armi in ordine al quale il S. veniva condannato con sentenza irrevocabile, che per quest’ultimo era stata contestata l’aggravante del fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, peraltro esclusa con la sentenza, il che darebbe luogo alla denunciata violazione del ne bis in idem.

La circostanza appena menzionata è tuttavia configurabile con riferimento ai reati-fine commessi dagli appartenenti all’associazione di cui all’art. 416 bis cod. pen.; il metodo mafioso che ne costituisce il fondamento sostanziale, se per il reato associativo integra una componente costitutiva, si pone invece nella fattispecie aggravatrice come eventuale caratteristica di un concreto episodio delittuoso, non necessariamente attuato con tali modalità (Sez. U, n. 10 del 28.3.2001, imp. Cinalli, Rv. 218377; Sez. 6, n. 15483 del 26.2.2009, imp. Marsala, Rv. 243576). Ne segue che l’aggravante da luogo a concorso formale con il reato associativo; e tanto esclude la denunciata preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen. rispetto ad una di tali fattispecie, laddove l’altra sia stata irrevocabilmente giudicata (Sez. 3, n. 25141 del 15.4.2009, imp. Ferrarelli, Rv. 243908).

3. infondato è infine il terzo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza delle esigenze cautelari.

Con l’ordinanza impugnata si osservava che la presunzione di esistenza di esigenze di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, non era in concreto superata da elementi tali da escludere che l’indagato continuasse a fornire il contributo associativo, non addotti dalla difesa e comunque insussistenti agli atti.

Il ricorrente rileva l’omesso esame, ai fini di cui sopra, del risalire i fatti oggetto del procedimento ad oltre cinque anni addietro e della condotta irreprensibile tenuta dal S. dopo la scarcerazione avvenuta nel marzo del 2010.

Dalla stessa argomentazione del ricorrente risulta peraltro che nella gran parte del periodo trascorso dalla data dei fatti il S. era detenuto. Tanto consente di ritenere implicitamente disatteso l’elemento difensivo, in quanto reso ininfluente dallo stato di carcerazione, tale da ricondurre a causa non attribuibile alla volontà dell’indagato la mancata commissione di ulteriori fatti indicativi del legame associativo. La motivazione del provvedimento impugnato si muove peraltro correttamente nell’ambito dei principi per i quali la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, può essere superata solo in presenza di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, può essere superata solo in presenza di circostanze che dimostrino come il soggetto abbia rescisso i propri legami con quest’ultima (Sez. 5^, n. 48430 del 19.11.2004, imp. Grillo, rv. 231281; sez. 6, n. 46060 del 14.11.2008, imp. Verolla, rv 242041); inconferente essendo il precedente citato dal ricorrente (Sez. 6, n. 25167 del 9.4.2010, imp. Gargiulo, rv 247595), relativo alla diversa ipotesi della valutazione dei presupposti per la sostituzione di una misura già applicata ed alla inoperatività, limitatamente a questo caso, della presunzione di adeguatezza della misura della custodia in carcere. Nè la restrizione in carcere implica di per sè l’interruzione dei collegamenti con il contesto criminoso (Sez. 1, n. 15189 del 18.3.2009, imp. Carobene rv. 243564).

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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