Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 21-02-2011) 11-04-2011, n. 14485 Pena

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La prima sezione della Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, giudice di rinvio, con la sentenza di cui in epigrafe, confermando la penale responsabilità degli imputati L.R.S. e M.F. in riferimento al tentato omicidio aggravato di C.T., ha rideterminato la pena per entrambi gli imputati, a titolo di aumento per continuazione con i reati di cui alla sentenza emessa dalla medesima Corte in data 8.1.1994 (divenuta definitiva il giorno 1.6.1994), riconosciute come equivalenti le attenuanti generiche, in anni 3 di reclusione per il L.R. e nell’isolamento diurno per la durata di anni due per M.; ha confermato le statuizioni civili.

Come premesso, il L.R. e il M. sono già stati definitivamente condannati (il primo, quale esecutore materiale, alla pena di anni 16 di reclusione, il secondo, quale mandante, all’ergastolo) perchè riconosciuti colpevoli dell’omicidio premeditato di C.A.C., fratello di C. T., reato consumato nel medesimo contesto spazio-temporale rispetto a quello per il quale oggi è processo.

Il giudizio di rinvio deriva dalla decisione della prima sezione di questa Corte, che, con sentenza 6.7.2007, ha annullato – appunto, con rinvio – la sentenza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria, che, riformando la pronunzia di primo grado, riqualificato il delitto di tentato omicidio in danno di C.T. in quello di minaccia aggravata, aveva dichiarato NDP nei confronti degli attuali imputati per intervenuta prescrizione.

I fatti per i quali è processo ebbero luogo in (OMISSIS), intorno alle ore 9,30.

Secondo quanto sostenuto nella sentenza di primo grado e nella sentenza del giudice di appello del rinvio, il L.R., agendo su incarico del M., aveva esploso numerosi colpi di pistola -uccidendolo – all’indirizzo di C.A.C., il quale, alla guida della sua autovettura, stava varcando il passo carraio della sua abitazione.

Subito dopo, l’omicida aveva volto l’arma contro la sorella del C.A.C., che, si trovava, a piedi, sulla sede stradale e che gli si era avventata contro, ma l’arma si era inceppata.

Il L.R., allora, si era dato alla fuga, ma, dopo poco, era stato individuato e bloccato da due Carabinieri.

Nei pressi del luogo della sparatoria, era poi stata recuperata l’arma, all’interno di un sacchetto di colore verde, nel quale erano presenti anche alcuni bossoli; altri furono trovati al suolo.

E’ rimasto accertato che, almeno i colpi che attinsero C. A.C., furono sparati senza che il killer estraesse l’arma dal sacchetto.

La sentenza del giudice di rinvio, rivalutando il materiale probatorio a sua disposizione, è giunta, come premesso, a ribadire la affermazione di responsabilità di entrambi gli imputati in ordine al tentato omicidio di C.T., confermando, quindi, sul punto, la sentenza di primo grado, discostandosi dalla ricostruzione operata dalla prima sentenza di appello e rideterminando, come sopra indicato, il trattamento sanzionatorio.

Ricorrono per cassazione i difensori dei due imputati, articolando censure, in parte, comuni.

Il difensore di L.R., avv. G. Vecchio) deduce violazione dell’art. 192 c.p.p. in relazione al giudizio di attendibilità della PO, atteso che il giudice di rinvio ha ignorato la contraddittorietà e le palesi discrasie che hanno caratterizzato le dichiarazioni di C.T.; ella, ascoltata subito dopo l’omicidio del fratello, rese una dichiarazione nel corso della quale affermò che il killer aveva estratto la pistola da una busta verde.

Solo nelle versioni successive (quelle rese in dibattimento), la C.T. aggiunge ulteriori particolari, ma non parla più dell’estrazione dell’arma dal suo involucro.

Ebbene, alla luce del nuovo dettato dell’art. 606 c.p.p., lett. e) (come novellato dalla L. n. 46 del 2006), la Corte di legittimità deve valutare se la motivazione della sentenza impugnata non risulti logicamente incompatibile con gli atti del procedimento.

Tale è, a ben vedere, il caso di specie, atteso che la motivazione della sentenza del giudice di rinvio è afflitta da due fondamentali errori:

1) la confusione tra credibilità della PO e riscontri alle sue dichiarazioni;

2) la assunzione di tale credibilità come dato aprioristico, che, quindi, non è possibile scalfire.

In realtà, la ricostruzione operata dalla C.T. riceve smentita dalla deposizione del perito balistico, dott. V., il quale ha chiarito che, quando un’arma si inceppa, chi la usa, se non ha la visuale dell’arma stessa, non può rendersi conto della ragione per la quale il colpo non viene espulso, in quanto ciò può avvenire, appunto, a seguito dell’inceppamento, ovvero perchè i colpi sono esauriti.

Orbene, poichè è rimasto accertato che L.R. sparò tutti i colpi senza estrarre la pistola dal sacchetto, è evidente che, essendosi inceppata l’arma nel momento in cui egli andava a esplodere uno degli ultimi colpi all’indirizzo di C.A.C., l’imputato dovette credere di avere esaurito i proiettili.

Conseguentemente, quando puntò l’arma contro C.T., egli era consapevole che non avrebbe potuto sparare e, pertanto, non poteva avere volontà omicida, nè concreta possibilità di uccidere.

Se, dunque, L.R. non estrasse l’arma, e non eliminò la causa dell’inceppamento (provocando manualmente lo "scarrellamento" della stessa), non si vede come possa parlarsi di tentato omicidio.

A tutto voler concedere, si sarebbe in presenza di una ipotesi di reato impossibile e il giudice di merito avrebbe, ancora una volta, errato nell’escludere tale ipotesi, atteso che la inidoneità del mezzo (l’arma inceppata) era circostanza verificatasi e verificabile ex ante.

Per quanto specificamente riguarda la aggravante della premeditazione, la Corte dà per certo che l’azione sia stata preceduta da sopralluoghi e appostamenti, ma di tali condotte non vi è traccia in atti; neanche è rimasto accertato che il L.R. fosse al corrente delle abitudini e degli orari dei fratelli C..

I difensori del M. (avv. D. Putrino e prof. G. Aricò) deducono rispettivamente, il primo difensore, illogicità e contraddittorietà della motivazione, il secondo, violazione dell’art. 624 c.p.p., art. 627 c.p.p., commi 2 e 3 in combinato disposto con l’art. 125 c.p.p. e l’art. 546 c.p.p., lett. e) ed erronea motivazione sul punto, violazione dell’art. 49 c.p., violazione dell’art. 72 c.p., comma 2.

Invero, il giudice di rinvio, nella rivalutazione del materiale probatorio, ha agito con assoluta autonomia e non ha giustificato, come viceversa avrebbe dovuto, il proprio convincimento secondo lo schema enunziato – esplicitamente e/o implicitamente – dalla sentenza di annullamento.

La prima Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, invero, quando sostiene che le dichiarazioni di C.T. sono assistite dal requisito della costanza, non ha in realtà operato una ricostruzione dell’evento attinente alle fonti di prova acquisite e non ha, innanzitutto, espresso un giudizio chiaro sulla loro attendibilità.

Dette dichiarazioni non sono state analizzate nella loro interezza al proposito vengono svolte considerazioni analoghe a quelle articolate dal difensore del L.R. con riferimento alle denunziate discrasie tra le varie versioni rese dalla donna.

In realtà, solo nella dichiarazione del 3.12.1999, la C. T. affermò che il L.R. aveva sparato contro di lei, aggiungendo sempre maggiori particolari, come quello della bruciatura alla mano, sulla quale l’imputato avrebbe appoggiato la canna rovente dell’arma.

Poichè, per altro verso, la C.T. non ha mai affermato che il L.R. avesse operato in modo da eliminare la causa dell’inceppamento, non si vede come la condotta di costui possa essere qualificata come tentato omicidio, piuttosto che come minaccia anche a questo proposito, vengono svolte considerazioni analoghe a quelle proposte nel ricorso redatto dall’avv. Vecchio.

In realtà, la versione dei fatti offerta da C.T. subisce una serie di "aggiustamenti", in modo che possa quadrare con le risultanze delle indagini e del processo e in particolare con il fatto che il L.R. abbia sparato tutti i colpi senza estrarre l’arma dal sacchetto (e prova di ciò si deduce anche dalle lesioni superficiali alla mano dello sparatore, dovute al rinculo dell’arma nel suo involucro), nonchè con il fatto che la pistola, a un certo punto, si fosse inceppata.

Per quanto specificamente riguarda la premeditazione (e dunque la conseguente responsabilità del M. come mandante), è da rilevare, non solo che non risulta alcuna attività di sopralluogo, ma che neanche si può parlare di prevedibilità del comportamento abitudinario dei fratelli C., atteso che, se fosse vero che essi, ormai da giorni, uscivano di casa alla stessa ora per partecipare alla c.d. "novena", va considerato che tale tipo di cerimonia si svolge alle ore 7 del mattino e non alle ore 9,30, cioè quando l’agguato ebbe effettivamente luogo.

Inoltre, se il L.R. avesse avuto intenzione ab initio di attentare anche alla vita di C.T., non avrebbe esaurito tutti i colpi indirizzandoli su C.A.C. con riferimento a tale argomento, vengono, anche nel ricorso dell’avv. Putrino, ricordate le conclusioni cui era giunto il perito dott. V..

Per altro, avendo in animo di uccidere due persone, il killer avrebbe certamente utilizzato un’arma bifilare.

A tale rilievo, il giudice di rinvio risponde in maniera incongrua, discettando sulla capacità offensiva dell’arma utilizzata, capacità della quale mai nessuno ha dubitato.

In realtà, non della sua funzionalità avrebbe dovuto parlare ma della sua adeguatezza con riferimento all’ipotizzato proposito di commettere, non uno, ma due omicidi.

Sarebbe poi stato più logico che il L.R. dirigesse i suoi colpi, prima, verso il bersaglio più esposto, C.T., e poi contro il fratello.

A tale rilievo, il giudice di rinvio ancora risponde in maniera incoerente, sostenendo che C.A.C., trovandosi in auto, rappresentava il bersaglio più facile da colpire, ma anche l’avversario più pericoloso da eliminare per primo, perchè avrebbe potuto essere armato o avrebbe potuto tentare di investire il L. R..

Ma, cosi argomentando, la Corte calabrese sostituisce sue fantasiose ipotesi al rigoroso accertamento dei fatti.

Nè si vede perchè l’assassino abbia esaurito quasi tutti i suoi colpi sparando verso l’uomo per poi riservare un colpo solo alla donna.

A tutto voler concedere, poi, se pure il L.R., trovatosi di fronte alla inaspettata ed energica resistenza di C. T., avesse deciso di ucciderla, sarebbe un classico caso di dolo d’impeto, con la conseguenza che, di tale secondo atto criminoso, non potrebbe certo essere chiamato a rispondere il M., nessun rilievo potendo avere i pregressi tesi rapporti tra C. A.C. e i M..

Quanto al trattamento sanzionatorio, va rilevato che il giudice di rinvio non ha determinato la pena da aggiungere in continuazione per il M., limitandosi a stabilire che lo stesso, già condannato all’ergastolo per l’omicidio di C.A. C., fosse sottoposto a isolamento diurno.

Ebbene, ciò è possibile solo se il reato diverso da quello punito con l’ergastolo sia, a sua volta punito, con pena detentiva superiore a cinque anni.

Tale non può essere il caso di specie, atteso che l’esecutore materiale, il L.R., è stato punito con la reclusione di anni tre.

In ogni caso, l’isolamento diurno è stato disposto per un periodo (anni due) superiore a quello previsto dalla legge.

Infine, quanto al risarcimento del danno, la Corte territoriale non chiarisce perchè si debba parlare di una "soglia minima" di 100 milioni di lire, senza alcuna spiegazione in proposito.

Non può invero dimenticarsi che la domanda risarcitoria de qua ha natura aggiuntiva, atteso che a C.T., con la precedente sentenza (quella per l’omicidio del fratello) è già stato riconosciuto danno esistenziale e morale.
Motivi della decisione

La sentenza impugnata non merita – in tema di responsabilità degli imputati – le censure che le sono state rivolte.

La prima sezione di questa Corte, nell’annullare, con rinvio, la pronunzia del primo giudice di appello, ha ritenuto che lo stesso avesse perso di vista "il quadro d’insieme", costituito anche dalle condanne definitive intervenute in relazione all’omicidio di C.A.C..

Per quanto specificamente riguarda M.F., la predetta sentenza di annullamento rileva che è risultato accertato che la sua famiglia si era impossessata, con metodi mafiosi, dei beni terrieri dei C. e che a tale azione violenta avevano tentato di resistere le vittime, C.A.C. e C. T.; in relazione al tentato omicidio di quest’ultima, ha osservato la prima sezione di questa Corte che la prima sentenza di appello si caratterizza per una lettura parziale e incompleta delle dichiarazioni della donna, non tenendo conto che ella aveva costantemente affermato che L.R. aveva rivolto contro di lei l’arma; anzi la prima Corte di Assise di appello aveva del tutto ignorato che la C.T. aveva, sin dalle prime dichiarazioni dibattimentali, affermato che ella era riuscita a evitare di essere colpita, deviando con la mano la pistola del killer, che già le era stata puntata contro, tanto che il colpo si era conficcato nello sportello dell’auto del fratello, dopo di che, il L.R. aveva puntato una seconda volta l’arma contro di lei.

Per tali motivi, al giudice di rinvio veniva "affidato il compito" di riesaminare i fatti, giungendo a una ricostruzione finalmente attinente alle fonti di prova, in modo da esprimere un "giudizio chiaro sulla loro attendibilità", provvedendo, solo in un secondo tempo, a individuare natura e portata dell’elemento psicologico, desumendolo dal concreto comportamento del L.R. e dalla idoneità dell’arma utilizzata.

Solo all’esito (eventualmente positivo) di tali accertamenti, il giudice di rinvio doveva verificare se il tentativo di sopprimere anche C.T. fosse frutto di una decisione estemporanea (dolo d’impeto), ovvero fosse stato programmato, coinvolgendo, in tal modo, anche "il committente", vale a dire il M..

Orbene, il giudice di rinvio sembra aver fatto corretto uso delle vincolanti indicazioni che gli derivavano dalla sopra sintetizzata decisione di annullamento.

Invero, per quel che riguarda "il quadro d’insieme", la Corte di rinvio, da un lato, ricorda la sentenza irrevocabile con la quale L. R. e M. sono stati condannati per l’omicidio di C.A.C., sottolineando che si tratta di omicidio premeditato, dall’altro, ha valorizzato il contesto in cui tale fatto di sangue è maturato, rievocando il fatto che, ormai da anni, M. e i suoi parenti tentavano di usurpare le terre avite dei C.;

la Corte ha anche menzionato le condanne riportate dai primi per condotte estorsive in danno dei C. e, infine, ha valorizzato (cfr. sentenza fol. 62) il fatto che, tanto il L.R., quanto il M.F. hanno riportato condanne definitive per appartenenza ad associazione di ndrangheta (la stessa associazione, si intende, nell’ambito della quale il primo svolgeva lo stabile ruolo di autista della famiglia M.).

Sempre a fol. 62, la sentenza impugnata menziona le dichiarazioni del collaboratore di giustizia S., il quale ebbe ad affermare che il L.R., dopo l’arresto (per l’omicidio di C. A.C.), mandava a chiedere ai M. indicazioni sulla condotta processuale da seguire e, in particolare, chiedeva se fosse opportuno che egli ammettesse la sua responsabilità.

Il collegamento tra M. e L.R., pertanto, viene affermato nella sentenza di rinvio, non solo con riferimento allo specifico episodio, ma nel suo carattere di stabilità e di organicità, tutte interne alla logica criminale di una cosca di ndrangheta.

Per quanto attiene alla attendibilità della C.T., la seconda Corte di appello (foll. 15-16) ricorda che ella, per ben tre volte (1.2.1993, 22.12.1994, 3.12.1999), ebbe a riferire che il L. R., non si limitò a puntarle contro la pistola, ma esplose e tentò di esplodere colpi (cfr. sentenza fol. 15, dove si dà atto che la PO, all’udienza del giorno 1.2.1993, alla domanda se il L. R. avesse sparato anche contro di lei, rispose affermativamente):

il primo fu deviato dall’attivo intervento della donna e andò a impattare nello sportello della vettura di suo fratello, il secondo non fu espulso perchè l’arma si inceppò; un terzo proiettile è stato trovato nel caricatore della pistola (essendosi inceppata, come appena detto, l’arma).

Al proposito è subito da notare che i difensori dei due imputati sostengono che si ricaverebbe dalla perizia balistica la notizia che l’arma si inceppò quando essa era puntata contro C.A. C. e non contro C.T..

Se così è, non può farsi a meno di rilevare che il perito, evidentemente, è andato oltre il contributo tecnico che gli è stato chiesto di offrire.

Lo stesso invero può spiegare come e perchè l’arma si sia inceppata, ma non si vede come possa indicare a chi fosse diretto il colpo inceppato.

Al proposito – e lo si è premesso – dalle dichiarazioni di C.T. si evince che il colpo inceppato era il secondo diretto alla donna, in quanto era il colpo subito successivo a quello che era andato a conficcarsi nello sportello (proprio per la deviazione che C.T. aveva impresso al braccio del L. R.).

I giudici di rinvio, per altro, rilevano la costanza e precisione delle dichiarazioni della PO, la dovizia di particolari, la coincidenza delle ricostruzioni, di volta in volta, operate.

Al proposito, come premesso, i ricorrenti hanno fatto notare che, nella sua dichiarazione predibattimetale (resa il giorno stesso dell’agguato), la PO ebbe a riferire diversamente i fatti; ella riferì che il L.R. aveva estratto l’arma dal sacchetto e si era limitata a dire che la pistola le era stata puntata contro.

Esisterebbe dunque una discrasia tra tale dichiarazione resa alla pg, da un lato, e le tre successive, rese in dibattimento, dall’altro.

Ebbene, osserva questo Collegio è evidente che la Corte di rinvio ha ritenuto che tali non coincidenze non avessero "forza" tale da incidere sulla complessiva credibilità della donna.

E l’opinione non può certo ritenersi illogica o arbitraria, posto:

a) che, nell’immediatezza del fatto, è certo ipotizzabile che C.T., la quale aveva visto uccidere sotto i suoi occhi il fratello e che si era vista puntare contro la stessa arma che aveva fatto fuoco pochi istanti prima, non fosse completamente compos sui e dunque non fosse precisissima nella esposizione;

b) che, tuttavia, la stessa, sin dal primo momento, ha fatto parola del suo forte atteggiamento reattivo nei confronti del L.R..

Insomma, il fatto che ella abbia, in un primo tempo, erroneamente riferito che il killer aveva estratto l’arma dal sacchetto, prima di far fuoco contro di lei, è stato ritenuto particolare che, al momento (si ripete, lo stesso giorno dell’agguato), non poteva rivestire grande significato, sia perchè poteva esservi stata imprecisione terminologica, sia perchè la C.T. non poteva avere, in quel frangente, stateram in manu, atteso lo shock emotivo al quale era, con ogni probabilità, ancora in preda.

Questo e non altro (a volerla leggere con attenzione) sostiene, sul punto, la sentenza oggi impugnata.

Dunque, la credibilità della PO è stata adeguatamente e correttamente vagliata, in sè e alla luce dei riscontri acquisiti (arma inceppata, colpo nello sportello, reazione immediata di C.T., che determinò l’intervento, prima, di alcuni vigili urbani i quali credettero che fosse stato perpetrato uno "scippo", poi dei carabinieri).

Per quanto si è detto, tale credibilità risulta non scalfita in base ai ricordati (dai ricorrenti) esiti della perizia balistica.

Invero, oltre ai colpi che raggiunsero C.A.C., lo si ripete, uno fu trovato conficcato nello sportello dell’auto, un altro nel caricatore, il terzo determinò l’inceppamento dell’arma (fot. 14).

C.T. sostiene che tali ultimi tre colpi erano destinati a lei.

Di talchè, se anche fosse vero che, quando un colpo si inceppa, chi spara ha la stessa sensazione che avrebbe se i colpi nel caricatore fossero esauriti (ma deve pur sempre tentare di far scattare il grilletto, perchè possa rendersi conto che l’arma risponde negativamente), resta sempre il fatto che il colpo finito nello sportello era destinato, secondo il giudice di rinvio, a C. T..

Alla stessa era destinato il colpo inceppatosi, che, necessariamente è successivo a quelli espulsi e, in particolare, a quello che raggiunse lo sportello.

Che dunque, sulla base di tale ricostruzione dei fatti, debba parlarsi di tentato omicidio non può esser dubbio.

L’operato del L.R. era riconoscibilmente diretto a far fuoco contro la C.T. e il mezzo adoperato era astrattamente idoneo.

Certo non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 49 c.p., sia perchè, come correttamente osserva la Corte di rinvio, la idoneità va valutata ex ante e non ex post (altrimenti il tentativo, per il solo fatto che l’evento non si è verificato, non ci sarebbe mai), ma anche perchè, come premesso, oltre al colpo non espulso (per l’inceppamento dell’arma), vi fu un colpo espulso e deviato dalla pronta azione della C.T..

La prima sezione della Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, come premesso, ha ritenuto, confermando, anche su tale punto, la sentenza di primo grado, che il L.R. si fosse portato sul posto dell’agguato per uccidere entrambi i fratelli C. e che, dunque, il tentativo di sopprimere C.T. non fosse il frutto di una decisione estemporanea, dovuta alla sua casuale presenza in loco e/o alla sua inaspettata reazione agli spari diretti contro il fratello (per altro, in tal caso, avrebbe comunque dovuto trovare applicazione il disposto dell’art. 116 c.p.).

A tale conclusione i giudicanti giungono a seguito di una serie di passaggi logici, ancorati a precisi dati fattuali e rispettando "il mandato" ricevuto con la sentenza di annullamento.

Innanzitutto, fanno rilevare come, non solo C.A. C., ma anche C.T., si opponesse strenuamente alla usurpazione delle proprietà terriere dei C., usurpazione che i M. stavano ponendo in essere; conseguentemente, si sostiene in sentenza, le ragioni per le quali il primo doveva essere eliminato valgono anche per la seconda.

In secondo luogo, l’episodio del (OMISSIS), era stato preceduto da altro, del tutto analogo per modalità esecutive, verificatosi meno di un anno prima (20.10.1990).

Anche in quella occasione, C.A.C. stava uscendo in auto da casa e C.T. era "a terra", in piedi, in attesa di chiudere il garage.

In terzo luogo, l’azione criminosa era stata preceduta da una sorta di sopralluogo che proprio il L.R. aveva effettuato nel negozio di antiquariato gestito dai fratelli C. (come riportato da C.T. e confermato da tale R., fol. 56).

In quanto luogo, i movimenti dei fratelli C. erano prevedibili in quanto essi stavano seguendo i riti della c.d. novena e, dunque, già da alcuni giorni, si recavamo a messa alla stessa ora.

In uno dei ricorsi si sostiene che, in realtà, i riti della novena si svolgono alle ore 7, di talchè non è credibile che i C. uscissero di casa alle 9,30 per recarsi a messa.

A conforto di tale assunto, tuttavia, non vengono citati nè dati processuali, nè fatti notori, nè massime di esperienza.

E allora la affermazione rappresenta niente altro che una mera enunciazione di scienza privata del difensore che, come tale, non può essere presa in considerazione dal giudice.

Quanto al rilievo, in base al quale, per uccidere due persone, sia assolutamente necessario adoperare una pistola bifilare (perchè sono disponibili più colpi), va detto che trattasi di considerazione assolutamente inconferente.

L’idoneità va valutata in concreto, non in astratto (altrimenti, per assurdo, potrebbe dirsi che neanche una bifilare sia sufficiente, ma meglio sarebbe una mitraglietta ecc.).

Ebbene, per le modalità con le quali si svolse l’agguato (sfruttamento dell’elemento sorpresa, distanza di sparo di poco superiore al bruciapelo) e per le caratteristiche delle vittime designate (persone certamente non più giovani), è evidente che un’arma potente, munita di silenziatore e con sette colpi a disposizione non poteva certamente ritenersi inadeguata.

La censura va dunque qualificata assolutamente aspecifica.

Non diversa valutazione merita l’altra censura, con la quale si mira a rendere non credibile l’ipotesi che L.R. abbia, sin dal primo momento, voluto uccidere entrambi i C..

L’ordine secondo il quale i due fratelli furono aggrediti risponde, secondo la Corte di rinvio, a una scelta logica: prima l’arma fu diretta contro l’uomo, poi contro la donna, soggetto – presumibilmente – più debole dal punto di vista fisico; prima fu soppresso chi era alla guida dell’auto (e che dunque avrebbe potuto reagire fuggendo col suo mezzo o tentando di investire l’aggressore), poi il L.R. diresse le sue attenzioni contro C. T..

Nè è il caso di ironizzare sul fatto che l’aggressore possa aver ipotizzato che C.C.A. fosse armato, considerato che, come si è detto, pochi mesi prima, lo stesso era stato vittima di un episodio del tutto analogo e che, da anni, subiva le pressioni intimidatorie dei M..

La considerazione espressa dalla Corte non ha, ovviamente, natura decisiva, ma, certamente non rimane indebolita dalla circostanza obiettiva che il C.C.A. di fatto non era armato.

Invero, non si tratta di stabilire ex posi se C.A. C. avesse una pistola, ma di valutare se L.R. potesse ragionevolmente supporto (così come se potesse supporre che il predetto potesse mettere in atto altre azioni reattive); e ciò al fine di valutare se la ricostruzione operata da C.T. (con particolare riferimento all’ordine in cui avvennero le due aggressioni) sia assistita dal carattere della plausibilità.

Anche in tal caso, dunque, la presunta illogicità della motivazione non si ravvisa.

Nè va infine dimenticato che, come sopra anticipato, C. T. aveva già avuto un primo contatto visivo con L.R., quando costui si era recato nel suo negozio di oggetti di antiquariato.

La possibilità quindi che la sorella di C.A.C. potesse riconoscere chi aveva fatto fuoco erano certamente alte.

E da qui la Corte di merito trae ulteriore argomento per ritenere che anche C.T. dovesse essere soppressa.

Stabilito, in tal modo, che l’omicidio di C.T. rientrava ab origine nei piani del L.R., la Corte di rinvio giunge inevitabilmente alla conclusione che di tale ulteriore atto criminoso deve essere chiamato a rispondere, quale mandante, anche M.F..

Così come per la soppressione di C.A.C. (omicidio definitivamente qualificato come premeditato), il L.R. non aveva agito nel suo interesse, ma nell’interesse della cosca e dunque di M. (cfr. la sua ricordata associazione alla cosca e il suo comportamento post delictum in carcere).

La Corte di merito sottolinea ad abundantiam che, nelle tasche del L.R., fu trovata una annotazione recante il numero di telefono di M.F. e che, in quello stesso giorno, dal telefono di M.F., risultano partite, in breve arco temporale, ben sei chiamate per il numero SIP 190, per attivare un servizio che da informazioni sugli ultimi accadimenti.

Da ciò i giudicanti deducono che i due ( L.R. e M.) avessero l’intenzione di tenersi in continuo contatto e che il secondo, non avendo notizie del primo, preoccupato, avesse più volte, attraverso detto servizio per il pubblico, tentato di raccogliere informazioni sull’accaduto.

Detti elementi sintomatici, valutati correttamente e coordinati tra loro non illogicamente, hanno convinto il giudice del rinvio del coinvolgimento del M. anche nel tentativo di omicidio della C. T..

Tutte le censure in tema di responsabilità, quindi, per quanto si è sopra esposto, risultano infondate o inammissibili.

Quanto al trattamento sanzionatorio va rilevato che l’inasprimento dell’ergastolo con l’applicazione dell’isolamento diurno deve essere disposto quando il soggetto sia condannato (oltre che per il delitto per il quale è prevista la detta pena perpetua) per uno o più delitti che "importano" (così si esprime l’art. 72 c.p.) una pena detentiva temporanea per un tempo superiore ad anni cinque.

Dunque è la pena in astratto che il legislatore considera, non quella applicata in concreto.

Ne consegue che il riferimento alla pena di fatto applicata in continuazione al L.R. (anni tre di reclusione in continuazione) non può essere presa come parametro per stabilire se al M. vada, oppure no, applicato l’isolamento diurno.

Ciò che il giudice di rinvio doveva fare, ed ha fatto, era valutare se, per il delitto di tentato omicidio aggravato, sia prevista una pena superiore ad anni cinque. Ed è noto che così è.

Fondata è viceversa la censura relativa alla durata dell’isolamento diurno, disposto dalla prima Corte di Assise di appello di Reggio Calabria per la durata di anni due a fronte di una previsione normativa da mesi due a mesi diciotto.

Limitatamente a tale statuizione (che riguarda il solo M.), la sentenza impugnata va annullata.

L’annullamento deve disporsi senza rinvio, potendo questa Corte provvedere a rideterminare la durata dell’isolamento che, ovviamente, va quantificato nella misura massima (mesi diciotto), atteso che tale era evidentemente l’intenzione del giudice del merito.

In ultimo, per quanto attiene alle statuizioni civili, davvero non può sostenersi che, sul punto, la sentenza impugnata (foll. 72-74) non abbia dato conto e ragione della decisione assunta.

Premesso che trattasi di danni morali, in relazione ai quali, ovviamente, non è possibile ancorare il parametro risarcitorio a elementi obiettivi, è da ricordare che la Corte calabrese ha fatto riferimento allo shock emotivo, al danno nella vita di relazione, al segno profondo che il drammatico episodio (che si somma a quello dell’omicidio del fratello, ma che non ne rimane, naturalmente, assorbito) deve necessariamente aver lasciato nella memoria della vittima.

Si tratta, insomma, di cicatrici non visibili, ma pur sempre di cicatrici profonde.

La somma di L. 100 milioni (corrispondenti attualmente ad Euro 50.000,00) è stata ritenuta congrua e adeguata dal giudice del merito e, in presenza di una sufficiente giustificazione motivazionale, questa Corte non può certo incidere su tale quantificazione.

Conclusivamente: il ricorso del L.R. va rigettato e lo stesso va condannato alle spese del grado; il ricorso del M. va accolto, limitatamente al trattamento sanzionarono, come sopra specificato (con conseguente statuizione di annullamento senza rinvio e rideterminazione della pena); nel resto va, anche esso, rigettato.

Entrambi gli imputati vanno condannati, infine, al ristoro delle spese sostenute, in questo grado di giudizio dalla PC, spese che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.F., limitatamente al trattamento sanzionatorio con riferimento all’isolamento diurno, che ridetermina in mesi diciotto, rigetta nel resto il ricorso del M.; rigetta il ricorso di L.R.S., che condanna al pagamento delle spese del procedimento; condanna entrambi i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di parte civile, che liquida in complessivi Euro tremilacinquecento (3.500,00), comprensivi di spese e onorari, oltre accessori, come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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