Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-02-2011) 11-04-2011, n. 14475 Falsità in scrittura privata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

imonte.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione K.M. avverso la sentenza della Corte di appello di Roma in data 24 febbraio 2009 con la quale è stata confermata quella di primo grado affermativa della sua responsabilità in ordine al reato di cui all’art. 485 c.p..

All’imputato era stato addebitato di avere formato e fatto uso di una denuncia di accatastamento relativa a un immobile di proprietà degli eredi C., apponendovi o facendovi apporre la falsa sottoscrizione di C.A., fatto commesso il (OMISSIS). La denuncia era stata consegnata al geom. S. per il deposito all’UTE di Roma, così venendosi a configurare l’uso della scrittura privata.

La Corte aveva ritenuto probanti, a sostegno dell’assunto accusatorio, le dichiarazioni del geom. S. che aveva riferito di avere ricevuto dall’imputato l’incarico di perfezionamento della pratica, ottenendo dal medesimo anche la documentazione che egli stesso aveva predisposto e che il K. gli aveva restituito con le firme degli aventi diritto.

I giudici dell’appello affermavano anche che non era credibile la tesi dell’imputato, secondo cui egli aveva concordato con C. R. (fratello di A.) l’accatastamento dell’immobile per il quale aveva ricevuto- quale titolare di una agenzia- il mandato a ricercare un acquirente, avendo successivamente incaricato lo S. della predisposizione della domanda.

La Corte osservava al riguardo che non solo C.R. e C.A. avevano disconosciuto le rispettive firme, risultate oggettivamente diverse da quelle, loro certamente riferibili, acquisite per comparazione. In più , secondo gli stessi giudici, il K. appariva il solo soggetto rimasto interessato alla vendita dell’immobile, atto rispetto al quale costituiva presupposto necessario la regolarizzazione dell’immobile stesso dal punto di vista catastale: infatti, sin dal 6 settembre 2001 C.R. aveva manifestato formalmente la sua intenzione di non alienare più l’immobile mentre era accaduto che, ciò nonostante, il K., nell’ottobre successivo aveva affidato l’incarico al geometra fornendogli anche un anticipo per le spese.

In conclusione, tenuto anche conto della situazione di conflittualità che si era venuta determinando tra K. e i C. perchè si arrivasse comunque alla stipula del compromesso previo accatastamento dell’immobile e del fatto che il primo aveva anche citato a giudizio i C. per il riconoscimento della provvigione scaturente dal mandato regolarmente eseguito, la Corte territoriale giungeva alla conclusione che ad apporre o a far apporre la falsa firma in calce alla domanda di accatastamento (firma che, peraltro, era stata rifiutata dagli stessi C.) non potesse essere stato se non il prevenuto che era l’unico, a quel punto, ad avere interesse alla vendita dell’immobile.

Deduce:

1) la improcedibilità della azione penale pertardività della querela.

Alla udienza del 12 ottobre 2004 la C., a domanda del PM, aveva affermato di essere venuta a conoscenza dell’accatastamento e della falsificazione della sua firma nel novembre 2001.

Tale affermazione è corroborata dalla logica ove si consideri che la richiesta, tramite lettera di un legale, di rimborso delle spese di accatastamento, avanzata dalla società del K., risaliva al 10 novembre 2001: dunque, la conoscenza della pratica di accatastamento – peraltro avviata il 14 novembre 2001 – non poteva che essere stata immediatamente successiva, dovendo le parti replicare ad una intimazione di pagamento.

Alla richiesta di chiarimenti rivolta immediatamente allo S., dunque, non poteva che avere fatto seguito, a breve, la presa di conoscenza della falsificazione che non poteva pertanto risalire al 15 gennaio 2002 come falsamente dichiarato da C. A..

La querela, proposta il 12 aprile 2002 era dunque tardiva.

2) il vizio di motivazione nella forma del travisamento della prova.

La Corte aveva creduto ai fratelli C. che avevano negato in udienza di avere incaricato il K. di procedere all’accatastamento così come di avere avuto rapporti con il rag. S..

Era invece emerso, dalle dichiarazioni della querelante alla PG in data 20 maggio 2002 – acquisite agli atti del processo – che C.R. aveva affidato verbalmente al ricorrente l’incarico dell’accatastamento.

Oltre a ciò era stato accertato che lo S., pur dopo la disdetta dell’incarico di mediazione, aveva effettuato numerosi sopralluoghi sull’area dell’immobile per procedere ai rilievi necessari all’espletamento dell’incombente, ottenendo anche la collaborazione della querelante.

Derivava dai detti rilievi che la Corte aveva errato nell’individuare, quale decisivo elemento di prova, l’interesse del solo K. alla effettuazione dell’accatastamento per vendere l’immobile.

Infatti il reale interesse del K., che era quello di ottenere il pagamento della provvigione per la mediazione effettuata, non era legato alla vendita dell’immobile ma al contratto di mediazione che certamente produceva effetti indipendentemente dalla disdetta dei mandanti, effettuata dopo la individuazione del compratore e la acquisizione della caparra.

Anche l’accatastamento, nella situazione descritta era posto in essere unicamente nell’interesse del venditore.

D’altra parte il contratto di mediazione prevedeva per il K. il diretto a ricevere una somma a titolo di penale nel caso in cui il venditore avesse rifiutato di sottoscrivere la proposta di acquisto conforme all’incarico.

Aveva errato dunque la Corte nell’affermare che la provvigione sarebbe stata pagata solo alla stipula del compromesso e che l’accatastamento costituiva per l’imputato la condizione necessaria per realizzare il vantaggio economico costituito dalla provvigione.

Il K. aveva già maturato il diritto alla provvigione e di ciò era perfettamente consapevole.

Era dunque da ritenere che la responsabilità esclusiva della falsificazione dovesse ricadere sullo S. il quale aveva reso una versione dei fatti del tutto mendace.

E tanto poteva arguirsi dal fatto che, in calce ad uno dei documenti per l’accatastamento che recavano le firme falsificate (il Tipo mappale), queste erano state apposte nel numero di sei anzichè di quattro, quanti erano gli eredi rimasti in vita, autori anche del mandato a vendere dato al K.. L’apposizione anche delle firme di due aventi diritto, però deceduti, dimostrava che la iniziativa non poteva essere stata presa dal K. (il quale era a conoscenza del numero effettivo dei venditori) ma dallo S. il quale si era evidentemente regolato con una certa superficialità, ignorando i contrasti tra le parti venditrici e il K. e confidando nel fatto che i C. si sarebbero disinteressati delle particolari modalità di preparazione degli atti.

Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno.

Con il primo motivo si reitera il corrispondente motivo di appello, al quale la Corte ha dato esauriente risposta, peraltro del tutto ignorata dalla parte ricorrente, con la conseguenza che la doglianza risulta anche inammissibile perchè non rispettosa dei criteri posti dall’art. 581 c.p.p.. Tale precetto impone infatti che l’impugnante aggredisca un punto della motivazione con la conseguenza che allorchè il ricorso viene predisposto con la mera ripetizione del motivo di appello deve qualificarsi come generico ed inammissibile.

Osserva al riguardo al giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Rv. 243838; Massime precedenti Conformi: N . 8443 del 1986 Rv. 173594, N. 12023 del 1988 Rv. 179874, N. 84 del 1991 Rv. 186143, N. 1561 del 1993 Rv. 193046, N. 12 del 1997 Rv. 206507, N. 11933 del 2005 Rv. 231708). Nella specie la Corte d’appello aveva evidenziato che l’affermazione della C. di avere appreso della falsificazione della propria firma nel novembre 2001, su domanda del PM, era stata il frutto di un evidente errore di percezione della domanda stessa.

Ha riportato al riguardo la descrizione dello sviluppo degli eventi dal quale si evince che la teste ha affermato di avere avuto contezza della esistenza della firma falsa solo quando si era recata all’Ufficio del Catasto e si era fatta mostrare il documento sul quale quella firma era stata apposta. La data del novembre 2001 è riferita, nella domanda posta dal PM, alla conoscenza dell’avvenuto accatastamento che è evenienza del tutto diversa – anche se prodromica – da quella della presa visione della firma in calce all’atto depositato presso l’Ufficio pubblico competente. E, come è noto, il costante orientamento della giurisprudenza in tema di decorrenza del termine per proporre la querela è nel senso che questo decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, conoscenza che deve poter essere acquisita in modo completo in modo che il soggetto passivo possa liberamente determinarsi.

In sostanza il senso delle affermazioni della C. risulta interpretato in maniera del tutto congrua dalla Corte di merito la quale, a fronte dell’equivoco ingenerato dalla formulazione della domanda del PM, ha attribuito credito a quanto riportato dalla donna in querela, atto peraltro alla quale la stessa ha dichiarato di riportarsi, confermandolo, quando ha deposto in udienza.

La Corte d’appello, in conclusione, ha fatto corretto uso dei principi posti in materia dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’onere della prova della intempestività della querela è a carico di chi allega l’inutile decorso del termine, e la decadenza dal diritto di proporla va accertata secondo criteri rigorosi e non può ritenersi verificata in base a semplici supposizioni prive di valore probatorio.

Infondato, ma non manifestamente infondato è invece il secondo motivo di ricorso, con la conseguenza che il gravame in esame, non inammissibile, deve ritenersi idoneo alla instaurazione di un valido rapporto processuale e il termine di prescrizione del reato, medio tempore, ha continuato a decorrere. Esso è scaduto nel 2009, dopo la pronuncia della sentenza di appello, e una simile evenienza è risolutiva della vicenda processuale sotto il profilo penale, non risultando, per quanto si vedrà, evidenti cause di proscioglimento nel merito. La infondatezza del motivo di ricorso, da valutarsi comunque ai sensi e per gli effetti dell’art. 578 c.p. ai fini civili, comporta il rigetto del ricorso sotto tale profilo. Ebbene, la parte formula doglianze che sono da reputarsi prive di fondamento alla luce della motivazione logica e completa, posta a fondamento della sentenza impugnata.

La prova del reato è stata infatti desunta da una serie di elementi anche indiziari, peraltro seri e gravi, rappresentati, quanto alla prova generica, dal disconoscimento delle firme ad opera degli apparenti sottoscrittori e dall’accertamento della difformità tra i segni grafici che si assumono contraffatti e quelli riferibili alla mano dei C..

Guarito alla prova specifica, poi, i giudici hanno ritenuto decisive le dichiarazioni dello S. – soggetto già indagato nel medesimo processo e poi destinatario di provvedimento di archiviazione – e talune considerazioni di carattere logico essenzialmente rapportabili allo scenario che si era delineato prima degli eventi per i quali è processo: si tratta della affermazione dello S. di avere ricevuto dal K. i documenti recanti già le sottoscrizioni degli apparenti richiedenti e la considerazione che, attesa la situazione di aperta conflittualità insorta tra i C. e l’imputato, costui appariva come soggetto comunque interessato al perfezionamento della vicenda contrattuale al fine di conseguire la provvigione. Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente il ragionamento non è illogico o in violazione di legge poichè non consiste affatto nella affermazione che il conseguimento della provvigione da parte del K. era condizionato giuridicamente dalla stipula del contratto di vendita, evidentemente subordinata a sua volta dalla previa regolarizzazione dell’immobile al catasto. L’affermazione della Corte è invece nel senso che la fisiologia delle relazioni contrattuali prevedeva, come riferito dall’imputato, il materiale versamento della provvigione dopo la stipula del contratto di vendita (pag. 10 sent.) o comunque era da porre in relazione, a termini di contratto, con la accettazione della proposta di acquisto, sicchè vi era stata una sorta di pressing da parte del K. per arrivare alla resa dei conti con i C. ed eventualmente, passare, una volta saltata la stipula del compromesso, alla citazione in giudizio per vedere riconosciuto comunque il diritto al compenso per la mediazione:

citazione che, è implicito, avrebbe comunque reso quantomeno più complicato giungere al completo soddisfacimento delle proprie pretese.

La Corte ha aggiunto, nella stessa ottica, che la stipula del compromesso era di interesse per il K. sotto il profilo meramente pratico poichè avrebbe consentito al promesso acquirente, se l’operazione fosse andata a buon fine, di stipulare il mutuo e di conseguire il capitale col quale versare quanto dovuto al promesso venditore il quale, a sua volta,avrebbe così, di fatto, avuto i mezzi per pagare al ricorrente la provvigione.

Quello prospettato è in altri termini un costrutto di carattere logico , in sè dotato di coerenza e pertanto tale da superare il vaglio della Cassazione che, com’è noto, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (rv 215745).

Non si apprezzano viceversa nè errate interpretazione di istituti giuridici nè travisamenti di prova, deducibili ex art. 606 c.p.p..

Non rileva, infatti, nel quadro delineato dalla Corte, la già avvenuta maturazione del diritto alla provvigione da parte del K. il quale, secondo i giudici, perseguiva evidentemente e con priorità, una soluzione pratica ed immediata. Non rileva neppure quanto eventualmente dichiarato dalla C. alla PG sull’asserito mandato, conferito verbalmente dal fratello al K., riguardo al perfezionamento della pratica di accatastamento.

In primo luogo tali dichiarazioni, rese nella fase delle indagini preliminari, anche se acquisite a seguito di contestazioni ex art. 500 c.p.p., non hanno valore di prova (vedi comma 2 norma citata).

Sicchè è seriamente dubitabile che di esse possa farsi uso per sostenere una eccezione di contraddittorietà della motivazione secondo il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e), eccezione che riguarda la (errata)percezione del contenuto di una prova dichiarativa decisiva e non l’uso di una prova dichiarativa per la valutazione sulla attendibilità del dichiarante, sempre rimessa all’apprezzamento del giudice del merito.

In secondo luogo non risulta che di esse sia stata fatta menzione nei motivi di appello per fondarvi una questione sulla attendibilità della teste (unico utilizzo consentito dal citato comma 2) con la conseguenza che la rappresentazione del relativo contenuto nel ricorso per fondare una eccezione di travisamento della prova cadrebbe anche sotto la falcidia della preclusione.

In terzo luogo non può non rilevarsi che la dichiarazione della teste comunque concerne il tema della esistenza (o meno) di un incarico dato per l’accatastamento dell’immobile ma non è idonea a spiegare alcuna efficacia sul thema probandum che è quello, anche in presenza di un eventuale incarico, della avvenuta falsificazione della firma dei richiedenti l’accatastamento: evenienza in astratto non incompatibile neanche con l’incarico stesso.

Del tutto inammissibili sono infine i rilievi compiuti in conclusione dalla difesa, riguardo alle conoscenze del ricorrente e dello S. sul numero degli eredi, trattandosi di considerazioni in fatto, non apprezzabili in via diretta da questa Corte. Il ricorso, in conclusione, è infondato e va rigettato agli effetti civili mentre, sul piano penale, come detto, ha prodotto l’effetto della decorrenza per intero del termine prescrizionale del reato.
P.Q.M.

Annulla agli effetti penali la sentenza impugnata, senza rinvio, perchè il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *