Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 16-02-2011) 11-04-2011, n. 14393

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- All’esito di giudizio ordinario F.P. con sentenza in data 30.3.2001 del Tribunale di Verona è stato condannato, concessegli generiche circostanze attenuanti, alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di calunnia nonchè al risarcimento del danno (da liquidarsi in separata sede civile) in favore della persona offesa T.G. costituitosi parte civile.

Adita dall’impugnazione del F., la Corte di Appello di Venezia con la sentenza resa il 27.11.2008, indicata in epigrafe, ha confermato la decisione di primo grado, valutando infondati i rilievi dell’imputato sulla sussistenza della calunnia contestatagli e -in particolare- del corrispondente elemento soggettivo, inteso quale concreta consapevolezza della innocenza dell’accusato T., resosi a suo giudizio responsabile di comportamenti illeciti o arbitrari in suo pregiudizio.

La vicenda che integra il presupposto dell’accusa mossa al F. è rappresentata dal contratto di affitto di un ramo di azienda commerciale, costituito dalla gestione di un negozio di abbigliamento a (OMISSIS), stipulato nel gennaio 1996 dal T. per conto della società Textil 3 s.n.c. in favore del F., amministratore della Fe.Pa. s.r.l. Contratto che le parti decidono, con scrittura resa davanti a notaio in data 12.11.1997, di risolvere in anticipo a decorrere dal 29.12.1997 e con l’impegno del F. di riconsegnare il locale e i relativi arredi entro tale data. Evenienza che non si verifica per l’inadempimento del F. e la sua irreperibilità, sì che il T., avendo necessità di mostrare l’immobile (negozio) a potenziali nuovi affittuari, nel gennaio del 1998 con l’ausilio di un fabbro cambia la serratura del locale e rientra in possesso dello stesso, riuscendo a contattare in prosieguo il F., la cui società è stata nel frattempo dichiarata fallita (sentenza Tribunale Verona 14.11.1997), perchè ritiri le cose di sua pertinenza ancora giacenti nel negozio. In tale contesto il 21.1.1998 F.P. sporge denuncia-querela ai Carabinieri di San Bonifacio (Verona), accusando il T. dei reati di danneggiamento, arbitraria invasione di edificio e appropriazione indebita (di merce e di valuta straniera rimasta nel negozio) sul presupposto dell’esistenza di un accordo verbale con lo stesso T., raggiunto all’atto della risoluzione del contratto, in virtù del quale egli avrebbe continuato a svolgere l’attività con nuovo contratto biennale da stipulare con la nuova compagine sociale della società Textil. Nel contempo il F. promuove azione possessoria per essere restituito nell’uso e disponibilità del locale.

Il procedimento penale instaurato nei confronti del T. per i comportamenti denunciati dal F. è archiviato dal g.i.p. del Tribunale di Verona il 28.12.1998 in base al rilievo che "i fatti si sono svolti in modo completamente diverso da quanto affermato in querela". Ad analogo conclusione perviene il pretore civile, che con decisione del 10.4.1998 rigetta il ricorso per reintegra nel possesso del F..

Le emergenze istruttorie del procedimento penale conseguentemente promosso nei confronti del F. per il reato di calunnia hanno integralmente confermato, secondo le due conformi decisioni di merito, l’infondatezza degli enunciati accusatori del F. e la loro consapevole falsificazione della dinamica del rapporto contrattuale instaurato con la società del T. e, soprattutto, della sua risoluzione. In guisa che, a fronte dell’inottemperanza del F. nella convenuta riconsegna dell’immobile, alcun profilo di illiceità o illegittimità è configurabile nel contegno di riappropriazione del negozio attuato dal T. dopo la scadenza del contratto di affitto senza che il F. restituisca le chiavi e svuoti il locale delle proprie cose. Nessuna incidenza latamente esimente potendo annettersi, aggiungono i giudici di merito, al presunto accordo verbale intercorso tra il F. e il T. per la prosecuzione del rapporto contrattuale (affitto e gestione del negozio di (OMISSIS)). La testimone V.L., già dipendente dell’imputato F., esaminata in dibattimento, ha – infatti- chiarito -in conformità alla versione del T., al cui incontro con il F. è stata presente- che nell’occasione il T. non ebbe ad assumere alcun particolare impegno per la rinnovazione del contratto di affitto del negozio. Ciò che conferma la volontà del F. di muovere, con la denuncia-querela, mendaci accuse nei confronti del T..

2.- Avverso la sentenza di appello della Corte territoriale giuliana ha proposto ricorso per cassazione il difensore di F.P., articolando i seguenti tre profili di doglianza per violazione di legge e travisamento della prova.

1. La Corte di Appello, disattendendo i motivi di impugnazione contro la sentenza di primo grado, ha in realtà travisato i fatti oggetto di contestazione. La promessa da parte del T. di rinnovare al F. il contratto di affitto del negozio a partire dal gennaio 1998, e – quindi – senza soluzione di continuità con il precedente "risolto" contratto di affitto, aveva carattere di concretezza e affidabilità. Di tal che il T. nel riappropriarsi sua sponte del locale ha compiuto un arbitrario atto di ragion fattasi ed ha errato il pretore civile nel respingere l’azione di reintegra possessoria promossa dall’imputato. Per tanto costui non ha accusato il T., sapendolo innocente, ma legittimamente ritenendolo colpevole; atteggiamento che vanifica la configurabilità dell’elemento soggettivo della contestata calunnia.

2. La sentenza impugnata ha valutato in modo illogico e sommario il movente dell’azione di denuncia del ricorrente, che – a tutto voler concedere – ha agito in forza di una propria personale impressione (convinto di poter proseguire la gestione del negozio di abbigliamento), in ipotesi errata in via di mero fatto. Situazione che profila almeno fondati dubbi sulla volontà calunniosa dell’imputato e avrebbe dovuto condurre alla sua assoluzione per difetto di sufficienti prove dell’effettiva consapevolezza della innocenza del T..

3. In via subordinata il reato attribuito al ricorrente deve considerarsi attinto da prescrizione per decorso del relativo termine di sette anni e mezzo, il fatto reato risalendo all’anno (OMISSIS).

3.- Il ricorso di F.P. deve essere dichiarato inammissibile per genericità e manifesta infondatezza delle illustrate censure.

Va subito premesso che erroneamente con il ricorso si ipotizza l’avvenuta prescrizione del reato di calunnia per cui è stato condannato il ricorrente. In vero nel processo per cui è ricorso non trovano applicazione le più favorevoli disposizioni in tema di prescrizione (riduzione dei termini necessari per dar luogo alla causa estintiva) introdotte dalla L. n. 251 del 2005 per l’espresso dettato della norma transitoria di cui alla citata legge, art. 10 (come "modificata" dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 393/2006), che esclude l’applicabilità dei più brevi termini prescrizionali nei processi già pendenti in grado di appello alla data di entrata in vigore della legge, cioè alla data dell’8.12.2005. Situazione ricorrente nel caso del F., per il quale la sentenza di primo grado è stata emessa il 30.3.2001.

Pronuncia determinante la pendenza del processo nel grado di appello e impediente l’applicazione retroattiva delle più favorevoli norme sui termini di prescrizione (Cass. S.U., 29.10.2009 n. 47008, D’Amato, rv. 244810). Secondo la anteriore disciplina ( artt. 157 e 161 c.p. nei rispettivi previgenti testi) il reato di calunnia, punito con pena edittale massima pari a sei anni di reclusione, si prescrive, pur essendo state concesse all’imputato le attenuanti generiche, nel termine massimo di quindici anni, che è destinato a spirare per il F. soltanto il 21.1.2013 (senza tener conto di eventuali periodi incrementali per sospensioni ex lege).

I due motivi di ricorso afferenti al merito valutativo della regiudicanda, integranti in realtà un unitario motivo di censura concernente la confermata sussistenza nel contegno accusatorio dell’imputato del dolo del reato di calunnia, sono caratterizzati da patente genericità perchè non specifici e da palese infondatezza.

I motivi sono costituiti, infatti, da una acritica replica dei medesimi motivi di appello contro la sentenza di primo grado, che i giudici della Corte giuliana hanno adeguatamente vagliato e motivatamente disatteso con argomenti logici e corretti sul piano delle inferenze valutative e giuridiche, in piena aderenza alle oggettive emergenze processuali.

La sentenza impugnata, focalizzando la propria attenzione sugli effetti dell’atto di risoluzione del contratto di affitto di ramo di azienda intervenuto nel novembre 1997 tra il F. e il poi accusato T., effetti di agevole e immediata percezione da parte del F., sì da escludere in radice la sua addotta convinzione di impliciti esiti dilatori del rapporto contrattuale, ha con ogni ragionevolezza rimarcato l’insussistenza di margini di dubbio sul contegno accusatorio dell’imputato, idonei a rappresentare una sua credibile ed incolpevole falsa rappresentazione dei fatti e comportamenti descritti nella sua incriminata denuncia-querela.

Considerazione probatoria vieppiù avvalorata, come detto, dalla testimonianza (non certo sospettabile di parzialità) della dipendente dello stesso F., V.L., sui contenuti del dialogo avuto dal F. e dal T. e dell’assenza di qualsiasi impegno del secondo a consentire fin dal novembre 1997 la possibile "rinnovazione" del contratto dal gennaio 1998. Eventualità in via logica non compatibile, del resto, con l’anticipata risoluzione del contratto di affitto del locale di Trieste (ramo di azienda), che non avrebbe avuto sera ragion d’essere nel caso in cui il T. (amministratore della Textil s.n.c.) fosse stato davvero intenzionato alla rinnovazione o prosecuzione del rapporto contrattuale con il F. (senza sottacere la sopravvenuta novità, se non causa impediente, del fallimento della società del F.).

Se non è revocabile in dubbio che per integrare il dolo del reato di calunnia occorre che l’accusatore nutra la certezza dell’innocenza dell’incolpato, è non meno vero che, avuto riguardo alla sostanziale natura di reato di pericolo della calunnia (scongiurare il pericolo, anche indiretto o remoto, che si proceda penalmente nei confronti di taluno per un reato che non ha commesso), la consapevolezza della innocenza dell’accusato può e deve escludersi – come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice – soltanto quando risulti accertato che il denunciante ha esposto i suoi enunciati, facendo riferimento a circostanze di fatto non soltanto veritiere ma altresì dotate di una efficacia rappresentativa idonea a indurre una persona di normale esperienza e capacità di discernimento a ritenere (id est convincersi) della colpevolezza dell’accusato (cfr. Cass. Sez. 6, 6.11.2009 n. 3964/10, De Bono, rv. 245849). Nessuna di tali due congiunte condizioni potenzialmente esimenti, come argomenta la sentenza impugnata, è ravvisabile nella condotta accusatoria del F..

Alla inammissibilità del ricorso segue per legge la condanna del F. al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, che si reputa equo determinare in Euro 1.000,00 (mille).
P.Q.M.

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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