Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 18-05-2010) 01-07-2010, n. 24794 ASSOCIAZIONI DI TIPO MAFIOSO

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Il difensore di L.S. ricorre avverso l’ordinanza sopraindicata che ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip del Tribunale di Potenza in data 18.12.09 per i delitti di associazione per delinquere, riciclaggio ed altro.

Il ricorrente deduce l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche per mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi emessi il 5, 18 settembre e 2 ottobre 2009, provvedimenti che hanno contenuto di mero rinvio alle richieste del P.M., che a loro volta richiamano le informative di Polizia Giudiziaria in assenza di autonoma valutazione della fattispecie omettendo di indicare il collegamento tra l’indagine e l’intercettando. Lamenta anche che dette intercettazioni sono state autorizzate con violazione di legge sulla base di un semplice sospetto. Con altro motivo deduce mancanza di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo ex D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies dei beni immobiliari di proprietà del L., provvedimento contenuto nella stessa ordinanza, avendo l’indiziato prodotto i titoli dimostranti la provenienza lecita dei terreni acquistati con denaro messo a disposizione dal padre N., come da dichiarazione di costui.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Con riferimento al primo motivo vale ricordare la giurisprudenza di legittimità relativa alla motivazione dei decreti di intercettazione telefonica o ambientale, decreti che possono essere motivati non soltanto in maniera particolarmente stringata, ma anche con motivazione "per relationem" che si riferisca alla richiesta del pubblico ministero, in quanto in tal modo risulta che il giudice ha consapevolmente esaminato gli atti sottoposti alla sua cognizione, purchè al momento del deposito di cui all’art. 268 c.p.p., commi 4 e 6, la parte privata sia posta in grado di prendere effettiva visione degli atti di riferimento. Ne consegue che l’obbligo motivazionale è soddisfatto dal g.i.p. con qualsivoglia espressione sintomatica dell’avvenuta conoscenza dei motivi della richiesta del pubblico ministero (Cass. 1, 27.7.99 n. 4561, c.c. 30.6.99, rv. 214035).

Detti principi non sono superati dalla decisione di questa Corte citata dal ricorrente (Cass. 6, 12.2.09 n. 12722, depositata 23.3.09, rv. 243241) sentenza che ha ribadito la necessità che nel provvedimento si dia conto della sussistenza dei gravi indizi di reato previsti dall’art. 267 c.p.p. e della necessità di disporre l’intercettazione ai fini della prosecuzione delle indagini. Nel caso concreto i decreti autorizzativi sono stati emessi non in base di semplici sospetti, ma essendo emersi gravi indizi della esistenza dell’organizzazione delinquenziale per l’arresto in flagranza dei due M. e del S. e per le successive indagini relative a questi prevenuti. Tutti gli atti di indagine sono stati posti a conoscenza del giudice con la richiesta con la conseguenza che nella fattispecie il magistrato ha valutato la rilevanza del materiale investigativo e la sussistenza dei gravi indizi di reato nonchè la indispensabilità delle intercettazioni nelle quali era successivamente coinvolto il L..

Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Le Sezioni Unite della Corte con sentenza 17.12.03, Montella hanno statuito che "il legislatore, nell’individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei beni, non ha presupposto la derivazione di tali beni dall’episodio criminoso singolo per cui la condanna è intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla sola condanna del soggetto che di quei beni dispone". Il giudice "non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il reato per cui ha pronunciato condanna e nemmeno tra questi stessi beni e l’attività criminosa del condannato". Deve sempre essere ordinata la confisca "quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità ed il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose". La confisca non è esclusa "per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna". Si è cioè in presenza di una misura di sicurezza atipica con funzione dissuasiva parallela alla affine misura di prevenzione antimafia di cui alla L. 31 maggio 1965, n. 575. Le Sezioni Unite hanno anche chiarito che la norma non è manifestamente in contrasto con la Costituzione. Non si può parlare di violazione di diritto di difesa in quanto l’onere imposto all’imputato di esporre fatti e circostanze con specifici riferimenti cronologici in ordine a specifici acquisti, non costituisce la richiesta di prova di impossibile attuazione bensì un onere "di agevole assolvimento". Nè la norma collide con la presunzione di non colpevolezza, considerando che nella specie non si tratta di presumere la colpevolezza di un soggetto, ma la provenienza di un patrimonio.

La stessa sentenza ha anche statuito (ciò con riferimento allo specifico gravame sul punto) che la prova di positiva liceità della provenienza di acquisti in forza di titolo negoziale non consiste nella esibizione di titoli di acquisto giuridicamente e formalmente validi, ma nel fornire una esauriente spiegazione in termini economici di una derivazione dei beni da attività consentite dall’ordinamento. Il giudice deve quindi in forza del suo libero convincimento accertare la proporzione dei singoli beni al reddito ed alle attività del prevenuto, libero convincimento di cui deve fornire motivazione non manifestamente illogica. Il ricorso sul punto deve essere dichiarato inammissibile dal momento che non possono essere rivolte censure di illogicità al giudice di merito che ha accertato che l’indagato è risultato proprietario di immobili non confacenti con le proprie lecite disponibilità finanziarie.

L’impugnazione è pertanto inammissibile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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