Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-03-2011) 12-04-2011, n. 14556 Attenuanti comuni generiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il presente procedimento trae origine da una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali effettuate nel corso del 2003 nei confronti di appartenenti e/o di soggetti vicini al "clan Cappello", tra i quali R.G., persona da tempo confidente delle forze dell’ordine, nonchè dalle successive dichiarazioni accusatorie rese dallo stesso R. e da P.S., entrambi collaboratori di giustizia.

1.) la ricostruzione della vicenda nelle decisioni di merito.

Dopo la richiesta di rinvio a giudizio di 47 imputati (proc. c/ Ba.Si. ed altri 46), accusati di vari delitti in materia di stupefacenti, associazione mafiosa e reati connessi, porto e detenzione illegali di armi, all’udienza preliminare sono state stralciate le posizioni degli odierni imputati, i quali, giudicati nelle forme del rito abbreviato, sono stati ritenuti colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti e condannati, con sentenza 17 dicembre 2007 del G.U.P. del Tribunale di Catania, a pene di varia misura.

La vicenda riguarda due distinte e parallele associazioni criminali, l’una di tipo mafioso (capo sub A), denominata "Pillera Puntina" l’altra dedita al traffico di sostanze stupefacenti (capo sub B) costituita anche da alcuni degli appartenenti alla prima.

Quanto all’organismo mafioso del capo sub A), risulta, da sentenze divenute irrevocabili, che esso risaliva nel tempo e ed era radicato nella città di Catania sin dai primi anni ’80; successivamente, esso confluì nell’associazione "Cappello", dalla quale in tempi più recenti si separò nuovamente. Rilevano i giudici di merito come nessuna questione sia stata prospettata sull’esistenza ed operatività di tale consorteria di tipo mafioso, mentre invece è stata contestata in alcuni casi l’appartenenza di alcuni imputati all’associazione Pillera Di Mauro "Puntina".

Per ciò che attiene alla organizzazione dedita al traffico di stupefacenti, il G.U.P. e la Corte di appello, con la sentenza 30 marzo 2009. hanno dedotto dalle evidenze probatorie in atti, oltre che dagli specifici fatti di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, riconducibili a taluni degli odierni imputati, il "modus operandi" tipico del vincolo associativo del delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, connotato da stabilità e continuità, da particolare frequenza ed intensità di rapporti, interdipendenza delle condotte, predisposizione di mezzi finanziari, distribuzione interna di compiti, presenza di capi, promotori e organizzatori, nonchè conoscenza reciproca tra loro dei partecipanti.

La conclusione delle due conformi decisioni consegue alla sussistenza di un quadro probatorio, rivelatore dell’esistenza ed operatività di tale specializzata consorteria, desunto da una serie consistente di intercettazioni ambientali e telefoniche, di indicativo e rilevante contenuto, spesso riscontrato nell’immediatezza da interventi della Polizia giudiziaria operante e in alcuni casi da sequestri di sostanze stupefacenti e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, imputati nel presente o in procedimento connesso, portatori di conoscenze particolarmente qualificate in quanto già pienamente inseriti anche nella organizzazione criminale in questione (segnatamente P.S., R.G., T. M.).

Per detti collaboratori si è trattato per lo più di dichiarazioni confessorie, oltre che etero accusatorie, rese ad integrazione e conferma dei risultati delle attività di intercettazione ambientale e telefonica, la cui interpretazione in chiave accusatoria ha contribuito secondo i giudici di merito a chiarire e a valicare l’assunto accusatorio.

Quanto alla attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboranti, entrambe le decisioni di merito analizzano e concludono positivamente sulla loro credibilità soggettiva, soffermandosi sulla genesi ed il percorso della loro scelta di collaborazione, nonchè sulla affidabilità ed attendibilità intrinseca delle propalazioni.

1.1) questioni di carattere generale comuni a più imputati e la motivazione della gravata sentenza.

Le questioni comuni, tutte ritenute infondate dai giudici di merito, e sostanzialmente riprese anche nel giudizio di legittimità, hanno riguardato nell’ordine:

1. l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, in ragione delle carenze motivazionali che inficerebbero i relativi decreti autorizzativi;

2. l’utilizzabilità delle dichiarazioni del collaborante R. G., rese oltre il termine fissato dalla legge in giorni 180;

3. la valenza probatoria delle conversazioni registrate sull’autovettura del R. medesimo, considerato che la consapevolezza di quest’ultimo del servizio captativo in corso avrebbe comportato negative refluenze sulla "genuinità" dei risultati, nonchè la necessità di riscontri esterni al contenuto accusatorio dei dialoghi intercettati e l’impossibilità che per essi possano fungere da "riscontro" le successive dichiarazioni del R. stesso.

In proposito la Corte di appello ha evidenziato che il carattere prodromico, sul piano logico, delle questioni di carattere generale attinenti alla utilizzabilità e alla valenza probatoria dei risultati delle intercettazioni ambientali, svolte nell’autovettura di R.G., e delle dichiarazioni rese da quest’ultimo divenuto collaboratore di giustizia.

Tutte le tre eccezioni difensive (sub 1, 2 e 3), come già detto, sono state ritenute infondate.

Innanzitutto non è stata ritenuta accoglibile la prima di esse, attinente alla pretesa inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per vizio di motivazione dei decreti autorizzativi, circa l’inidoneità ovvero l’insufficienza degli impianti in dotazione alla procura, e sulle ragioni d’urgenza del ricorso ad impianti diversi ed esterni.

La Corte di appello, richiamandosi alla decisione di primo grado, sostiene che le intercettazioni sono utilizzabili nel presente processo in ragione dell’esauriente giustificazione data dal P.M. sia sulla inidoneità tecnica degli impianti installati in procura – non dotati di "risponditore" e di "server" – sia sull’inidoneità così detta "investigativa", per l’esigenza di assicurare, dalle stesse sale di ascolto, la possibilità di immediati riscontri e interventi sul territorio.

In effetti – osserva la corte distrettuale – l’obbligo motivazionale, nei decreti autorizzativi di intercettazione contestati, risulta adeguatamente assolto, secondo i criteri tracciati da autorevoli arresti giurisprudenziali (SS.UU. n. 919 del 26/11/03-19/1/04, Gatto;

SS.UU. 31/10/01, Policastro; SS.UU. 21/6/00, Primavera; SS.UU. n. 30347 del 12/07-26/07/2007, Aguneche) con riferimento ai presupposti della necessità e dell’urgenza del ricorso al mezzo di ricerca della prova in parola e alle modalità di svolgimento.

Pertanto, contrariamente all’asserto difensivo sul punto, non è stata ritenuta sussistente nella specie la cd. "inutilizzabilità patologica" dei relativi risultati, avente rilievo, come tale, anche nell’ambito del giudizio "a prova contratta" quale è quello celebrato con rito abbreviato (Cass. pen. Sez. 6^ 30 gennaio 2007 n. 14099).

Del pari non fondata è stata considerata l’altra censura di carattere generale, inerente la pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie del collaborante R.G., rese in epoca successiva allo scadere del 180 giorno dall’inizio della collaborazione e dunque – si sostiene – in violazione del divieto di legge sancito dalla L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16 quater, comma 9, e succ. mod..

Al riguardo la sentenza ha precisato che, ai sensi della norma che prevede il detto termine, il dies a quo "coincide con la redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione e non con quello in cui è stata genericamente manifestata la volontà di collaborazione" (Cass. Pen. 1 29.11.2007 n. 47513) e dunque, nella specie, dal 31 marzo 2004, data del verbale illustrativo in atti, e non già – come preteso dagli appellanti interessati – dalla data (precedente di una ventina di giorni) in cui il R. rese interrogatorio a Roma a margine di arresto, ivi eseguito, per altra vicenda giudiziaria.

La Corte di appello richiama in proposito la sentenza S.U. n. 9/2009, nella parte in cui afferma che la norma di cui all’art. 16 quater, comma 9 introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45 non prevede affatto l’inutilizzabilità assoluta e generalizzata delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di sei mesi dall’inizio della collaborazione e che siffatta inutilizzabilità non rientra tra quelle qualificabili come "patologiche" da cui sono colpiti gli atti probatori assunti "contra legem".

Da ciò deriva – secondo i giudici di merito – che detta inutilizzabilità non è deducibile o rilevabile nel giudizio abbreviato" (Cass Sez. 5 23.4.2008 n. 32960), in quanto "con la richiesta di giudizio abbreviato gli imputati hanno accettato che nell’ambito del materiale probatorio a disposizione del giudice possa essere ricompreso il contenuto di dichiarazioni, non certo assunte in violazione di un divieto di legge, perchè in ogni caso pienamente utilizzabili contro il dichiarante, ed anche nei loro confronti in dibattimento in caso di irripetibilità".

Da ultimo, per ciò che concerne la negata utilizzabilità e/o la valenza probatoria delle conversazioni registrate sull’autovettura del collaborante R. sul rilievo della presunta consapevolezza del servizio captativo da parte di quest’ultimo, in quanto già confidente delle forze dell’ordine, la corte distrettuale rileva che, anche su tale punto, il G.U.P. ha rettamente respinto l’assunto (vds pagg. 7-8 sentenza 1^ grado), sul rilievo che non è affatto equiparabile tale peculiare situazione alla ben distinta ipotesi di captazione dei colloqui intercorsi tra personale della polizia giudiziaria ed i suoi informatori, effettuate all’insaputa di questi ultimi e in assenza di autorizzazione dell’A.G. (giudicate inutilizzabili con la pronunzia delle SS.UU. del 28 maggio 2003, n. 36747 impropriamente richiamata da numerosi appellanti); nè può esservi questione sulla qenuinità della prova, posto che non vi è evidenza probatoria che R. avesse certezza dell’attività captativa in corso a suo carico, di cui al più – come chiaramente afferma nell’interrogatorio reso il 3 dicembre 2004 – egli nutriva semplice sospetto.

Inoltre la gravata sentenza, per rispondere alle ulteriori censure, ha precisato:

a) che non può ritenersi assimilabile la posizione dell’"informatore" o "confidente di polizia" o persino quella di "agente provocatore", congetturalmente attribuita al R., con quella del tutto diversa dell’agente o ufficiale di polizia giudiziaria, considerata nelle norme di rito che ne vietano la testimonianza (art. 195 c.p.p., comma 4), ovvero nelle norme prescrittive di avvisi preventivi e di modalità di acquisizione delle dichiarazioni in fase di indagine (artt. 62 e 63 c.p.p.);

b) che anche ammesso, peraltro in assenza di alcun valido supporto probatorio, che il R. fosse consapevole dell’attività captativa attivata nella sua autovettura e che agisse – di propria iniziativa o meno – in veste di "agente provocatore", è comunque da escludere che i richiamati divieti e/o le prescrizioni di garanzie difensive siano applicabili a quei colloqui e che, dunque, l’inosservanza di prescrizioni e divieti operanti per gli agenti di polizia possa comportare l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni e dei contenuti dei dialoghi in questione;

c) che deve invece ritenersi, in aderenza a pacifico indirizzo giurisprudenziale di legittimità, che persino alle dichiarazioni rese all’agente di polizia giudiziaria, che eventualmente agisca nella veste di "agente provocatore" (in ipotesi come simulato acquirente di sostanze stupefacenti), non si applichi il divieto di testimonianza previsto dall’art. 62 c.p.p., poichè tale divieto concerne soltanto" le dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti e non anche le condotte e le dichiarazioni che accompagnano tali condotte, chiarendone il significato, ovvero le dichiarazioni programmatiche di future condotte. Non può trovare neanche applicazione il limite di utilizzabilità previsto dall’art. 63 c.p.p., comma 2 poichè non si tratta di dichiarazioni rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio, e tali dichiarazioni non costituiscono la rappresentazione di eventi già accaduti o la descrizione di una precedente condotta delittuosa, ma, inserendosi invece in un contesto commissivo, realizzano la stessa condotta materiale del reato" (cfr Cassazione penale sez. 6^ 28 aprile 1997 n. 1732);

d) che la valenza indiziaria dei risultati delle intercettazioni delle conversazioni tra il R. ed i suoi interlocutori non ha alcuna necessità – per essere "piena" – di ulteriori riscontri, che dovrebbero essere diversi dalle dichiarazioni eteroaccusatorie del R., nè queste potrebbero ricevere valida conferma da quei dialoghi;

e) che – infatti – gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano: gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti; precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile;

concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi (Cass. Sez. 4 n. 22391 del 02/04/2003 – 21/05/2003);

f) che il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie, registrate nel corso di conversazioni legittimamente intercettate, ben può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando – come nel caso in esame talvolta accade per il R. – le une e le altre provengano dal medesimo soggetto (Cass. Sez. 1 N. 39330 del 24/09/2003 – 17/10/2003);

g) che, pertanto, non solo i risultati delle intercettazioni ambientali eseguite a bordo dell’autovettura del R. hanno valore di "prova piena" e non necessitano affatto di conferme di fonte eterogenea, ma anche gli elementi di accusa dei dialoghi provenienti dall’interlocutore R. possono avere funzione da valido riscontro (ex art. 192 c.p.p., comma 3) alla chiamata in correità (o in reità) del medesimo;

h) che la portata probatoria dei dialoghi in questione non è intaccata dalla mancata iniziale individuazione degli interlocutori del R.: questa infatti non è requisito di utilizzabilità delle conversazioni intercettate, nè ne esclude la valenza probatoria, imponendo al giudice, di volta in volta, un vaglio più attento del loro contenuto alla stregua della valutazione unitaria del quadro probatorio.

1.2) la sentenza 30 marzo 2009 della Corte di appello di Catania.

La Corte di appello con la sentenza oggi impugnata, nel suo dispositivo ha escluso l’aggravante, di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, per gli imputati a cui è stata ascritta; ha riconosciuto l’ipotesi lieve di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 a Tr.Pa. e V.R.; ha concesso la diminuente di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 a R.G.; ha determinato la pena nei confronti di: Bi.Pi. in anni 5 mesi 4 di reclusione ed Euro 20.666,00 di multa; D.S. in anni 5 di reclusione ed Euro 22.000,00 di multa; D.M.A. in anni 8 e mesi 8 di reclusione; F.F. in anni 8 e mesi 2 di reclusione; Gi.Ro. in anni 7 e mesi 8 di reclusione;

L.G.C. in ulteriori anni 1 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa in continuazione con i fatti giudicati con sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catania il 31/10/06, irrevocabile il 16/11/2006; Pu.Ri. in anni 8 e mesi 8 di reclusione;

R.G. in anni 2 e mesi 8 di reclusione; S. V. in anni 7 e mesi 8 di reclusione, Sp.Gi. in anni 7 e mesi 8 di reclusione; St.Gi. in anni 7 e mesi 8 di reclusione; Tr.Pa. in anni 3 di reclusione ed Euro 10.000,00 di multa; V.R. in anni 3 di reclusione ed Euro 10.000,00 di multa; Zi.An. in anni 5 mesi 6 di reclusione ed Euro 21.300,00 di multa; ha assolto: Ga.Ma. dai reato ascrittogli per non aver commesso il fatto e ne ha ordinato l’immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa; ha condannato: al pagamento delle ulteriori spese processuali B. G., Bo.Se.Fi., b.c., C.F., Co.Se., D.P.V., Gi.Gi., Gi.Gi., S.G., Si.Gi., T.M., Va.Ma. e Z.P..
Motivi della decisione

Gli imputati appellanti b.c., C.F., Co.Se., Ga.Ma., Sa.Vi. e Va.Ma. non hanno proposto ricorso per cassazione.

Gli altri imputati hanno tutti proposto impugnazione in sede di legittimità, deducendo vizi della motivazione nella decisione impugnata, nonchè violazione di legge, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati in relazione ai singoli ricorsi.

1.3) L’associazione mafiosa Pillera Puntina e l’associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 contestata.

Il G.U.P. nella parte iniziale della sua decisione (pagg. 13 e seguenti), ripresa e puntualmente richiamata dalla Corte di appello, non si è sottratto all’obbligo di indicare la retrospettiva diacronica dei sodalizi oggi oggetto di giudizio.

Le risultanze processuali hanno infatti consentito l’individuazione di due distinte associazioni criminali, l’una (capo A) di tipo mafioso, denominata "Pillera Puntina" ed operante a Catania e territori limitrofi ( Bi., D.M., F., P., R., Si., T.), l’altra, la seconda (capo B), dedita al traffico di sostanze stupefacenti ( D.M., F., Gi.Ro., L.G.C., P., Pu., R., S., Sp., St., Va. e V.) e costituita in parte anche da alcuni dei soggetti appartenenti alla prima.

Il sodalizio mafioso costituisce una organizzazione "storica", radicata nella città di Catania sin dai primi anni ottanta e successivamente confluita nell’associazione "Cappello", dalla quale in tempi recenti si separava nuovamente.

Sia l’esistenza che la perdurante operatività della consorteria mafiosa risultano entrambe giudizialmente accertate da varie sentenze irrevocabili, acquisite agli atti, ed in particolare: la sentenza 28 maggio 1990 dalla 1^ Sezione della Corte di Assise di Catania (riguardante numerosissimi delitti contestati sulla base, essenzialmente, delle dichiarazioni rese dall’imputato L.P. F.); la sentenza 2 ottobre 1996 della 1^ corte di assise di Catania nei confronti di appartenenti al clan Santapaola, dalla quale consta che nel gruppo cd. "Ferlito" facevano parte Pi.

S. e D.M.G. detto "(OMISSIS)".

Risulta ancora che, dopo l’uccisione del F., la leadership del gruppo, anche in funzione di contrasto in ambito malavitoso con il gruppo Santapaola, fu assunta dal Pi., successivamente accoppiato a Ca.Tu..

Risale poi al 1996 la scissione tra il Pi. ed il Ca..

Per i giudici di merito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nonchè dal contenuto delle sentenze, tutte passate in giudicato, emerge l’esistenza di un clan Pillera, poi divenuto "Pillera Cappello" e, alla fine, la coesistenza, successiva al 1996 di due gruppi, nettamente separati: il clan Cappello ed il Pillera, quest’ultimo unificato ai "Puntina".

Con riguardo al clan Pillera-Cappello, e, successivamente Cappello, ai primi anni novanta sino ad oggi, grazie anche all’attività di collaborazione con la giustizia intrapresa, tra gli altri, da Di.

G., + ALTRI OMESSI sono stati istruiti numerosi procedimenti riguardanti sia l’associazione mafiosa, sia i numerosi omicidi commessi nell’ambito delle sanguinose faide che hanno accompagnato le vicende del sodalizio mafioso.

Quanto al clan Di Mauro-Puntina ( Pu.Pi. viene ucciso nel (OMISSIS)), si è ribadita l’appartenenza del capostipite, D.M. G. alla frangia capeggiata dal F.A. e successivamente da Pi.Sa..

Su tali premesse, sulla evoluzione storica dei due gruppi mafiosi, il G.U.P. ha sottolineato che le ultime risultanze investigative, hanno evidenziato la strettissima alleanza, o meglio, la vera e propria fusione, tra le suddette consorterie.

I risultati dell’attività investigativa e le sentenze sul punto pronunciate hanno consentito infatti l’affermazione della esistenza ed operatività, sul territorio catanese e nei suoi dintorni, di entrambi i gruppi mafiosi, oggi peraltro confluiti in unico gruppo.

Per la parte che qui interessa il G.U.P., seguito dalla Corte di appello, ha valorizzato:

a) l’esistenza di frequenti contatti tra i diversi membri del gruppo nonchè tra gli stessi ed altri soggetti, anche al fine di organizzare i vari incontri nell’ambito dei quali trattare gli affari illeciti dell’organizzazione;

b) la presenza di un’organizzazione gerarchica che vede nei tre soggetti citati gli elementi di vertice all’interno del sodalizio;

c) l’esistenza di una cassa comune nella quale confluiscono i proventi delle attività illecite;

d) la disponibilità di armi;

e) la natura delittuosa delle attività comuni ai singoli membri;

f) la violenza quale modalità di manifestazione della propria supremazia, anche nei confronti di appartenenti a clan avversi;

g) la paura costante delle intercettazioni ambientali e telefoniche da parte delle Forze dell’ordine;

h) la conoscenza approfondita e valorizzata delle vicende concernenti gli altri gruppi legati alla criminalità mafiosa.

Elementi tutti validati in termini di riscontro ed ulteriore chiarimento dal tenore delle più importanti conversazioni intercettate, che hanno costituito l’elemento probatorio di forza di tutte le pronunce di responsabilità oggetto di ricorso.

Quanto alla parallela associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, di cui al Capo B la gravata sentenza osserva come la decisione di primo grado abbia dedotto dalle evidenze probatorie in atti, oltre che specifici fatti di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti riconducibili a taluni degli odierni imputati, un modus operandi di costoro tipico del vincolo associativo proprio del delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, connotato da:

stabilità e continuità, particolare frequenza ed intensità di rapporti, interdipendenza delle condotte, predisposizione di mezzi finanziari; nonchè caratterizzato da una certa distribuzione interna di compiti, dalla presenza di capi, di promotori e di organizzatori, nonchè dalla funzionale conoscenza reciproca dei partecipanti.

Il quadro probatorio, rivelatore dell’esistenza ed operatività di tale specializzata consorteria, è stato individuato in una serie cospicua di intercettazioni ambientali e telefoniche, ritenute di volta in volta, nei confronti di ciascun imputato, sufficientemente eloquenti nel contenuto (sovente riscontrato nell’immediatezza da interventi della p.g. operante e in alcuni casi da sequestri di sostanze stupefacenti), nonchè dalle propalazioni dei collaboratori di giustizia, imputati nel presente o in procedimento connesso, latori di conoscenze particolarmente qualificate in quanto già pienamente inseriti anche nella organizzazione criminale in questione (segnatamente P.S., R.G., T. M.).

Si tratta per lo più di dichiarazioni confessorie, oltre che etero accusatorie, rese da costoro ad integrazione e conferma dei risultati delle attività di intercettazione ambientale e telefonica, la cui interpretazione in chiave accusatoria viene chiarita e a confermata.

2.1) i motivi di impugnazione di B.G. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

L’imputato è stato ritenuto colpevole dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ascrittigli al capo C) della rubrica.

La piattaforma accusatoria si fonda sui risultati delle intercettazioni ambientali, riscontrati dalle successive dichiarazioni confermative ed integrative del collaborante R. G., che lo ha indicato come proprio fornitore di marijuana di buona qualità, riconoscendolo in foto e ricordandone il cognome;

l’indicazione nominativa dell’imputato, emersa anche nelle intercettazioni, ne ha reso certa l’identificazione in seno alle conversazioni registrate.

In primo grado il B. è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 di cui al capo di imputazione sub C).

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotto vizio di motivazione in ordine alla statuizione di responsabilità, che sarebbe stata resa sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia R., il quale ha sempre fatto riferimento al cognome B. e, quando gli ha collegato un nome di battesimo, ha indicato il nome " G.", circostanza ritenuta immotivatamente priva di valore, non potendo in proposito bastare la mera coincidenza del cognome.

Con un secondo motivo si lamenta inosservanza della norma di cui all’art. 533 c.p.p., comma 1 sulla necessità che la colpevolezza risulti al di là di ogni ragionevole dubbio. I primi due motivi non superano la soglia dell’ammissibilità. La lettura della chiara ed articolata motivazione della sentenza impugnata consente di affermare che i giudici di merito hanno dato conto, adeguatamente, delle ragioni della loro decisione, la quale risulta criticamente sorretta da giustificazione congrua, esente da illogicità, ragionevolmente sviluppata entro gli ambiti della plausibile opinabilità di apprezzamento e valutazione, e, pertanto, sottratta a ogni sindacato in sede di scrutinio di legittimità.

Infatti questa Corte di legittimità, nella disamina della trama motivazionale del provvedimento impugnato e contrariamente agli assunti difensivi, non rinviene:

– nè il vizio della contraddittorietà della motivazione, inteso come ricorrenza, dialetticamente irrisolta, di proposizioni (testuali contenute in atti del procedimento specificamente indicati, attinenti a punti decisivi e assolutamente inconciliabili tra loro), tali che l’affermazione dell’una implichi necessariamente e univocamente la negazione dell’altra e viceversa;

– nè il vizio della illogicità manifesta che consegue alla violazione residuale di altri canoni della logica formale e/o delle regole normative che presiedono alla valutazione ed al peso delle prove, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., oppure alla invalidità- incoerenza-inadeguatezza dell’argomentazione, in grado di determinare sconnessioni tra le premesse della abduzione o di ogni plausibile nesso di inferenza tra le stesse e la conclusione.

In conclusione, per quanto verificabile nello scrutinio di legittimità, le censure difensive: non invalidano l’impianto del costrutto argomentativo che sorregge in modo armonico la decisione impugnata; non hanno forza sufficiente per disarticolarne, anche parzialmente, la struttura portante, nè, tanto meno, per escludere "funditus" la valenza dimostrativa delle giustificazioni proposte.

Si tratta invero di doglianze finalizzate – più o meno espressamente – alla alternativa ricostruzione e valutazione dei dati probatori, in funzione di una ritenuta più adeguata lettura delle risultanze processuali.

Ne deriva che le deduzioni e le critiche, quali espresse nell’impugnazione del B. e degli altri ricorrenti (escluso il P.) benchè riferite e prospettate come "vizi della motivazione", non possono essere prese in considerazione, in quanto esse si muovono e si sviluppano sul terreno delle censure di merito, ed integrano – sostanzialmente – motivi diversi da quelli consentiti dalla legge a pena di inammissibilità a sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3.

Da ciò l’inammissibilità delle corrispondenti doglianze, qui ulteriormente ribadendo che nella verifica della consistenza dei rilievi, mossi alla sentenza della Corte di appello, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.

In buona sostanza ed in altre parole, nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.

In conclusione, l’esito del giudizio di responsabilità – lo si ripete – non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito.

Con un terzo motivo la difesa del B. prospetta violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine alla esclusione del ne bis in idem, giustificata con l’asserzione che i fatti del presente procedimento debbano essere collocati in data anteriore e prossima all’agosto 2003 e che perciò debbano ritenersi autonomi rispetto a quelli giudicati nel procedimento 674/04 richiamato.

Il motivo non ha fondamento.

I giudici di merito, con adeguata argomentazione, hanno spiegato l’impossibile inquadramento dei fatti oggi giudicati con fatti che risultano essere non sovrapponibili, perchè del tutto scollegati e diversi anche per la loro collocazione temporale.

Il ricorso va quindi rigettato.

2.2) i motivi di impugnazione di Bi.Pi. (capi A e C) e St.Gi. (Capo B) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado: il Bi. è stato condannato per i reati di cui all’art. 416 bis cod. pen. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 contestati ai capi sub A) e sub C); lo St. è stato riconosciuto colpevole dei reati D.P.R. n. 309 del 1990, ex artt. 74 e 73 del capo sub B) unificati dal vincolo della continuazione.

Per il Bi. il complesso degli elementi che ha determinato l’affermazione di colpevolezza è costituito da intercettazioni telefoniche ed ambientali (nelle quali l’identificazione dell’imputato con il soprannome " Pi. (OMISSIS)" è confermata da collaterali controlli di polizia effettuati a margine e nell’immediatezza di un appuntamento telefonico) e dalle successive dichiarazioni accusatorie dei collaboranti P.S., T.M. e R.G..

Per lo St., il compendio probatorio è dato da una successione di intercettazioni telefoniche ed ambientali (ove figurano riferimenti certi all’imputato con il nome " Gi.", supportati dai controlli collaterali di polizia e dal riconoscimento vocale del personale in ascolto) e dalle successive chiamate in correità rese dai collaboranti R.G. (che ne evoca l’abituale attività di spaccio svolta in stretto accordo con lui) e di P.S. (portatore di conoscenza diretta circa il ruolo di custode della sostanza in favore della consorteria).

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate per entrambi limitatamente alla esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un primo motivo di impugnazione, la difesa di Bi. e St., deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 268 e segg. c.p.p., nonchè inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per vizio di motivazione dei decreti autorizzativi, circa l’inidoneità ovvero insufficienza degli impianti in dotazione alla procura, e sulle ragioni d’urgenza del ricorso ad impianti diversi ed esterni.

Il motivo è inammissibile perchè le impugnazioni sul punto non sono state corredate dalle allegazioni di copia dei provvedimenti che si pretendono viziati, ed in ogni caso esso non ha fondamento.

Nella specie i provvedimenti hanno tratto giustificazione, non solo dalla inidoneità tecnica degli impianti installati in procura, in quanto non dotati di "risponditore" e di "server"; ma anche sulla ed inidoneità funzionale ed "investigativa", per l’esigenza di assicurare, con tempismo ed urgenza, dalle stesse sale di ascolto, la possibilità di immediati riscontri e interventi sul territorio.

In ogni caso, su tale punto, sono note le questioni che attengono alle tematiche dei limiti all’accesso agli atti e l’autosufficienza del ricorso in sede di giudizio di legittimità.

Innanzitutto, quanto all’accesso agli atti (che devono comunque essere specificamente indicati), il giudice di legittimità non deve essere costretto alla ricerca di quei documenti che confermerebbero la tesi del ricorrente, considerato che è onere di chi impugna indicare quale sia l’atto da cui risulta il vizio (Cass. pen. sez. 4^, 20245/2006, Francia).

Tale onere inoltre non è esaurito dalla specificità dei motivi di ricorso, perchè esso implica anche la necessità di integrale esposizione o di fedele riproduzione dell’atto nel testo del ricorso, ovvero l’allegazione di copia degli atti, ovvero ancora la precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo (Cass., sez. 6^, 22257/2006, 234721; sez. 1^, 20344/2006, rv. 234115; sez. 2^, 19584/2006), oppure l’allegazione dell’atto invalido e viziato al ricorso, od alternativamente la verifica che esso faccia parte del contenuto del fascicolo trasmesso alla Corte (si veda Cass., sez. 4^, 11528/2003, rv. 227787).

Va ancora chiarito che il divieto di accesso agli atti, pur attenuato, risulta indipendente dal "principio di autosufficienza" il quale riguarda infatti le regole per la formazione del ricorso, il cui tenore deve essere tale da consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del ricorso stesso con la trascrizione o la specifica indicazione degli atti, il cui contenuto è da solo sufficiente a "scardinare" l’impianto motivazionale del giudice di merito o con l’allegazione di questi atti al ricorso.

Una volta soddisfatto, ad opera del ricorrente, il canone dell’autosufficienza, sarà compito del giudice di legittimità verificare l’esistenza degli atti nel fascicolo o la loro corrispondenza rispetto a quelli prodotti, oppure verificare comunque la loro esistenza nel caso, per es., si tratti di atti contenuti nel fascicolo del p.m. o del difensore che non sono entrati a far parte del fascicolo per il dibattimento e dalla cui produzione la parte non sia decaduta (si pensi alla produzione di un documento che il giudice del dibattimento abbia ritenuto irrilevante).

Tanto premesso e volendo comunque affrontare, per scrupolo, anche le questioni prospettate – nei limiti di quanto risulta dal materiale nella disponibilità della Corte di cassazione – in punto di inutilizzabilità, occorre subito ribadire che in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e sul tema della motivazione di decreti autorizzativi di attività di intercettazione, è assolutamente necessario che si parta concettualmente dalla considerazione di base che, ciò che rileva e conta è che da essa motivazione possa dedursi l’iter cognitivo e valutativo, seguito dal giudice, e se ne possano conoscere i risultati, i quali debbono profilarsi ed essere conformi alle prescrizioni della legge.

Ciò premesso, va rammentato, quanto alla dedotta inutilizzabilità, per violazione della disposizione di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, che regola la fase operativa delle intercettazioni occorre stabilire se i decreti del P.M. contengano o meno una idonea motivazione sull’insufficienza o inidoneità degli impianti esistenti presso la procura della Repubblica.

Pacifica la constatazione che il decreto motivato del P.M. costituisce condizione di utilizzabilità anche rispetto alle cd. intercettazioni ambientali (Cass., Sez. Un., 31 ottobre 2001, Policastro), ai fini della legittimità del decreto del pubblico ministero che dispone, a norma dell’art. 268 c.p.p., comma 3, ult. parte, il compimento delle operazioni mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria, è necessario:

a) che la motivazione relativa alla insufficienza o alla inidoneità degli impianti della procura della Repubblica non si limiti a dare mero atto dell’esistenza di tale situazione;

b) che a tale notazione oggettiva debba quindi accompagnarsi la specificazione della ragione della insufficienza o della inidoneità, sia pure mediante una indicazione sintetica, che non si traduca però nella mera riproduzione del testo di legge, ma dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del P.M., che ha dato causa ad essa (Cass., Sez. Un., 919/2004, Rv. 227486, 26 novembre 2003, Gatto);

c) che il requisito della inidoneità od insufficienza degli impianti installati presso la procura della Repubblica debba essere valutato non in astratto, ma con riguardo alle concrete ed obiettive caratteristiche dell’indagine, nel cui contesto si inseriscono le operazioni di intercettazione, sicchè è consentito il ricorso ad impianti della polizia giudiziaria quando l’indagine richieda: 1) il coordinamento immediato di molti investigatori sparsi sul territorio, e dunque l’uso contestuale di numerose linee telefoniche e apparecchiature radio; 2) oppure, il sollecito raffronto tra gli esiti dell’intercettazione e l’oggetto di riprese televisive automatiche trasmesse ad impianti esistenti presso strutture di polizia giudiziaria (Cass., Sez. 1, 19 novembre 2003, Caleca).

Regole tutte ampiamente rispettate dai giudici di merito con conseguente rigetto del corrispondente motivo di doglianza, rigetto che – ovviamente – si estende a tutte le altre identiche censure proposte dagli altri ricorrenti ed in particolare D.M., D. P., Gi., Si., Sp., Tr. e Z..

Con un secondo motivo Bi. e St. si lamentano ancora violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’utilizzabilità e/o valenza probatoria delle conversazioni registrate sull’autovettura del collaborante R..

Il motivo non ha fondamento.

In proposito va integralmente richiamato quanto argomentato per la posizione del B. (cfr. p.: 2.1, motivi 1^ e 2^), attesa la completa ed incensurabile motivazione in termini dei giudici di merito, i quali hanno dato compiutamente conto ed in modo ineccepibile, anche sotto il profilo dello stretto diritto, di tutte le questioni oggi nuovamente riproposte, nel presente e negli altri ricorsi, e con la prospettazione di una diversa e non praticabile soluzione (cfr. p.: 1.1, lettere a.b.c.d.e.f.g.h.).

I giudici di merito infatti, con una esposizione lineare, priva di invalidità apprezzabili a sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., hanno ampiamente e nell’ordine spiegato:

1) l’assente certezza della consapevolezza del R. di essere intercettato: si tratta di un giudizio di merito che, per come motivato, è incensurabile in sede di legittimità;

2) che gli indizi, gravi precisi e concordanti, raccolti nel corso delle intercettazioni ben possono costituire fonte diretta di prova senza necessità di riscontro esterno;

3) che il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie, registrate nel corso di conversazioni legittimamente intercettate, ben può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando – come nel caso in esame talvolta avviene per il R. – le une e le altre provengano dal medesimo soggetto;

4) che, pertanto, non solo i risultati delle intercettazioni ambientali eseguite a bordo dell’autovettura del R. hanno valore di "prova piena" e non necessitano affatto di conferme di fonte eterogenea, ma anche gli elementi di accusa dei dialoghi provenienti dall’interlocutore R. possono avere funzione da valido riscontro (ex art. 192 c.p.p., comma 3) alla chiamata in correità (o in reità) del medesimo.

Orbene siffatte conclusioni risultano in linea con gli orientamenti della Corte di legittimità, considerato che in tema di interpretazione del linguaggio e valutazione della prova, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, vanno ribadite, per la parte che qui interessa, le seguenti regole:

a) il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione;

b) nell’ipotesi in cui la conversazione captata non sia connotata da queste caratteristiche (per l’incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità dell’intercettazione, per l’incomprensibile cripticità del linguaggio usato dagli interlocutori, per la non sicura decifrabilità del contenuto o per altre ragioni) non per questo si ha un’automatica trasformazione da prova a indizio, in quanto è il risultato della prova che diviene meno certo con la conseguente necessità di elementi di conferma e riscontro che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti). (Cass. pen. sez. 6, 29350/2006 Rv. 235088);

c) l’interpretazione del linguaggio usato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (Cass. pen, sez. 6, 17619/2008 Rv.

239724. Massime precedenti Conformi: N. 3643 del 1997 Rv. 209620, N. 117 del 2006 Rv. 232626, N. 15396 del 2007 Rv. 239636);

d) il canone di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applica alle indicazioni di reità, provenienti da conversazioni intercettate, perchè esse non sono assimilabili alle dichiarazioni che il coimputato del medesimo reato o la persona imputata in procedimento connesso rende in sede di interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria e, conseguentemente, per esse vale la regola generale del prudente apprezzamento del giudice (Cass. pen. sez. 1, 36218/2010 Rv. 248290);

e) il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie, registrate nel corso di conversazioni legittimamente intercettate, può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando le une e le altre provengano dal medesimo soggetto (Cass. pen. sez. Sez. 1, 39330/2003 Rv. 225999).

Regole queste, come già detto, rigorosamente rispettate ed applicate dai giudici di merito con conseguente incensurabilità delle conclusioni in punto di responsabilità dei ricorrenti e rigetto delle corrispondenti doglianze.

Con un terzo motivo la difesa dei due ricorrenti prospetta violazione di legge e vizio di motivazione sull’utilizzo delle dichiarazioni eteroaccusatorie del collaboratore R.G. rese in epoca successiva allo scadere del 180 giorno inizio della collaborazione.

Trattasi di questione che i giudici di merito hanno correttamente considerata infondata, non essendosi realizzata alcuna violazione del divieto di legge sancito dalla L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16 quater, comma 9, e succ. mod..

Al riguardo la sentenza ha precisato che, ai sensi della norma che prevede il detto termine, il dies a quo "coincide con la redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione e non con quello in cui è stata genericamente manifestata la volontà di collaborazione" (Cass. Pen. 1 29.11.2007 n. 47513) e dunque, nella specie, dal 31 marzo 2004, data del verbale illustrativo in atti, e non già – come preteso dagli appellanti interessati – dalla data (precedente di una ventina di giorni) in cui il R. rese interrogatorio a Roma a margine di arresto, ivi eseguito, per altra vicenda giudiziaria.

La Corte di appello richiama in proposito la sentenza S.U. n. 9/2009, nella parte in cui afferma che la norma di cui all’art. 16 quater, comma 9 introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45 non prevede affatto l’inutilizzabilità assoluta e generalizzata delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di sei mesi dall’inizio della collaborazione e che siffatta inutilizzabilità non rientra tra quelle qualificabili come "patologiche" da cui sono colpiti gli atti probatori assunti "contra legem".

Da ciò deriva che detta inutilizzabilità non è deducibile o rilevabile nel giudizio abbreviato" (Cass Sez. 5 23.4.2008 n. 32960), in quanto con la richiesta di giudizio abbreviato gli imputati hanno accettato che, nell’ambito del materiale probatorio a disposizione del giudice, possa essere ricompreso il contenuto di dichiarazioni non certo assunte in violazione di un divieto di legge, perchè in ogni caso pienamente utilizzabili contro il dichiarante, ed anche nei loro confronti in dibattimento in caso di irripetibilità. In conclusione, ritiene il Collegio, ribadendo l’argomentare in diritto della corte distrettuale, che, agli effetti dell’utilizzabilità delle dichiarazioni rese dai cd. collaboratori di giustizia, la valutazione della loro tempestività, debba essere eseguita tenendo conto che il momento, dal quale comincia a decorrere il termine di centottanta giorni entro cui (a norma del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16-quater, comma 1, convertito nella L. 15 marzo 1991, n. 82, introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45, art. 14), la persona – che abbia manifestato la volontà di collaborare – deve rendere note al Procuratore della Repubblica tutte le notizie di cui è in possesso, coincide con la redazione del verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione e non con quello in cui è stata genericamente manifestata la volontà di collaborazione (Cass. pen. sez. 1, 47513/2007 Rv. 238375 Massime precedenti Conformi: N. 41028 del 2002 Rv. 222712).

Inoltre, per quanto qui interessa ed in ogni caso, va del pari confermato che l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai "collaboratori di giustizia", oltre il termine di 180 giorni dall’inizio della collaborazione, non rientra fra le categorie delle ed "inutilizzabilità patologiche", da cui sono colpiti gli atti probatori assunti "contra legem", e non è pertanto deducibile o rilevabile nel giudizio abbreviato (Cass. pen. sez. 5, 32960/2008 Rv.

240492).

In definitiva: le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare sono utilizzabili nella fase delle indagini preliminari, in particolare ai fini della emissione delle misure cautelari personali e reali, oltre che nell’udienza preliminare e nel giudizio abbreviato (Sez. U, 1149/009 Rv. 241882 Conf. S.U., 25 settembre 2008, dep. 13 gennaio 2009, n. 150, Correnti; S.U., 25 settembre 2008, dep. 13 gennaio 2009, n. 1151, Petito ed altri; S.U., 25 settembre 2008, dep. 13 gennaio 2009, n. 1152, Petito ed altri, tutte non massimate sul punto).

Da ciò il rigetto del motivo di ricorso, comune in particolare anche ai ricorrenti D., D.M.; Pu., S. e Sp..

Con un quarto motivo e con riferimento alla posizione dello St. e del Bi., il difensore, dopo aver premesso che lo St. è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, commi 1, 2, 3 e 4, aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7, e che il Bi. è stato condannato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. nonchè per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, individua le fonti di prova a sostegno dell’accusa: nelle dichiarazioni di Ru.Ga. del 12/03/2004 e del 21/04/2004, dovendosi considerare, quelle rese invece in data 21/09/2004; 4/11/2004 e 12/12/2004, del tutto inutilizzabili; nelle dichiarazioni di P.S.; nelle intercettazioni di conversazioni.

In particolare il difensore contesta il valore delle conversazioni del 18 maggio, essendo state identificate le persone (uomini) con le quali parla il sig. R., solo mediante soprannomi, considerato che la preventiva identificazione degli interlocutori in un’intercettazione, sovrintende all’utilizzabilità delle stesse.

Sul punto i giudici di merito, con una affermazione corretta sul piano della logica e della comune esperienza, hanno stabilito che la portata probatoria dei dialoghi in questione non può essere "intaccata" dalla mancata iniziale individuazione anagrafica degli interlocutori del R., quando dall’appellativo usato è possibile risalire ad una certa e determinata persona fisica.

Ritiene infatti questa Corte che l’identificazione, con i corrispondenti esatti nomi anagrafici, dei partecipi ad una conversazione ambientale registrata, salvo casi singolari, non può valutarsi di per sè, come un necessario ed indispensabile requisito di utilizzabilità, nel processo, del tenore e del significato desumibile dalle conversazioni intercettate, nè l’assente identificazione (di tipo anagrafico appunto) dei parlanti ha forza di escludere la valenza probatoria delle espressioni intercettate, e la loro attribuibilità, imponendo essa, semplicemente, e come esattamente operato dai giudici di merito, di volta in volta, un vaglio più attento del contenuto interpretabile della comunicazione verbale e del suo tenore, alla stregua della valutazione complessiva e d’insieme dell’intero quadro probatorio che ha raggiunto quella persona, poi imputata e condannata, che all’inizio sia stata identificata con il solo soprannome od appellativo.

Nella specie, sia il G.U.P. che la corte distrettuale, rispondendo alle censure degli imputati, non si sono sottratti a tale scrupolo ed onere di disamina aggiuntiva, ricercando di volta in volta gli elementi di conforto e di sostegno che hanno così consentito – per le persone condannate – una individuazione certa al di là di ogni ragionevole dubbio e secondo massime di comune esperienza.

Il motivo quindi, comune anche ai ricorrenti B., Bi., Bo., D., D.M., D.P., Gi., St. e Z., va rigettato.

Da ultimo, per ciò che concerne la negata utilizzabilità e/o la valenza probatoria delle conversazioni registrate sull’autovettura del collaborante R. sul rilievo della presunta consapevolezza del servizio captativo da parte di quest’ultimo, in quanto già confidente delle forze dell’ordine, la corte distrettuale ha ribadito la condivisibilità della conclusione del G.U.P. il quale ha respinto l’assunto (vds pagg. 7-8 sentenza 1^ grado), sul rilievo che non è affatto equiparabile tale peculiare situazione alla ben distinta ipotesi di captazione dei colloqui intercorsi tra personale della polizia giudiziaria ed i suoi informatori, effettuate all’insaputa di questi ultimi e in assenza di autorizzazione dell’A.G.; nè può esservi questione sulla genuinità della prova, posto che non vi è evidenza probatoria che R. avesse certezza dell’attività captativa in corso a suo carico, di cui al più – come chiaramente afferma nell’interrogatorio reso il 3 dicembre 2004 – egli nutriva semplice sospetto.

Pertanto anche quest’ultima doglianza va rigettata, non rilevandosi, nell’argomentare conforme dei giudici di merito, alcuna invalidità apprezzabile ex art. 606 cod. proc. pen., attesa l’assenza di incoerenze logico giuridiche od omissioni rilevanti nella struttura espositiva, l’insussistenza di errori di diritto e, tanto meno, la violazione delle regole che nel nostro sistema presiedono alla ragionevole valutazione e peso dei dati probatori legittimamente acquisiti.

Quanto allo St.Gi., sostiene il ricorso, come nessuna rilevanza possa essere attribuita ai risultati delle intercettazioni ambientali effettuate a bordo dell’autovettura di R., e come nessun valido elemento probatorio sia effettivamente emerso in punto di colpevolezza del ricorrente. Con riferimento alla posizione di Bi.Pi., relativamente al reato di cui all’art. 416 bis c.p. si censura poi la violazione dell’art. 192 c.p.p..

In particolare si contesta che la prova del coinvolgimento del Bi. nel sodalizio mafioso, possa validamente trarsi dagli esiti delle intercettazioni ambientali e telefoniche, nonchè dalle concordi dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia, R. G., P.S. e T.M., persone prive di attendibilità intrinseca ed estrinseca.

Si prospetta ancora vizio di motivazione sul ritenuto dolo specifico e sulla disponibilità di armi.

Da ultimo si contesta il carente profilo psicologico dell’aggravante L. n. 152 del 1991, ex art. 7 dovendo il giudice giustificare la sussistenza della coscienza della idoneità del delitto commesso ad agevolare l’attività dell’associazione.

Premesso che la tematica della credibilità soggettiva ed oggettiva dei collaboratori di giustizia è priva di fondamento, nei termini che questa Corte preciserà più avanti (al p. 2.6 nell’esame della posizione di D.P.V. e qui da richiamarsi "in toto"), tutte le altre residue doglianze integrano questioni che propongono critiche, in parte inammissibili, anche per la loro genericità, ed in parte infondate a fronte della completa, adeguata e corretta motivazione dei giudici di merito.

Come argomentato per il ricorrente B. (cfr. p.:2.1. motivi 1^ e 2^), le doglianze proposte per le accuse dei capi sub A, B e C non meritano accoglimento: l’esame della decisione impugnata – che si completa e si salda con la conforme decisione di primo grado – al di là delle contestazioni, anche al limite dell’inammissibilità, svolte nel ricorso, evidenzia un lineare ed unitario filo argomentativo che da esaustiva contezza dell’iter logico giuridico che ha sotteso e giustificato la pronuncia di responsabilità, ed ha portato ragionevolmente ad escludere le ipotesi alternative, inefficacemente delineate e sviluppate nei due giudizi di merito, a fronte di un struttura ed un tessuto argomentato della motivazione della sentenza impugnata che si sottrae a censure in sede di legittimità.

A tal fine è sufficiente la disamina integrata delle motivazioni del G.U.P. e di quella della corte distrettuale, di cui è stata data ampia sintesi al p.:1.3, quanto ai delitti dei capi sub A e sub B, per evidenziare la linearità del procedere argomentato dei giudici di merito in punto di ricostruzione dei fatti e di valutazione della prova, qui ancora una volta sottolineato che non è consentita in sede di legittimità diversa lettura dei dati processuali, oppure una diversa interpretazione delle prove le quali si risolverebbero in una inaccettabile rivisitazione degli elementi di fatto, posti a base della ragionevole decisione della Corte distrettuale, che, proprio perchè logicamente sostenuta e adeguatamente correlata ai dati probatori, non può essere censurata sotto il profilo della possibile prospettazione di una diversa e, per il ricorrente, più favorevole valutazione delle emergenze processuali (cfr. in termini: Cass. Penale sez. 2^, 15077/2007, Toffolo e precedenti conformi).

2.3) i motivi di impugnazione di Bo.Se.Fi. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ascrittigli al capo C), unificati dal vincolo della continuazione. Il quadro a suo carico è costituito essenzialmente dai risultati delle intercettazioni ambientali (nelle quali è certa la identificazione dell’imputato con il soprannome " Se. (OMISSIS)", identità confermata da collaterali controlli mirati dei Carabinieri inquirenti) indicativi della continuativa attività di spaccio di sostanza stupefacente condotta in via autonoma dall’imputato.

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene lamentato vizio di motivazione sotto il profilo della presenza di una motivazione per relationem che si sarebbe limitata ad argomentare sinteticamente su un solo punto della tesi difensiva, tralasciando tutti gli altri.

Il motivo è privo di specificità in quanto esso non spiega puntualmente "in cosa e in che" sono consistite le mancate risposte, nonchè la loro rilevanza e decisività in termini di giudizio di colpevolezza.

Con un secondo motivo si lamenta l’erronea interpretazione data al tenore delle intercettazioni ambientali captate all’interno della vettura del collaboratore di giustizia R.G. ed attribuite a certo Se., indicazione troppo limitata per poter da essa risalire al Bo.Se., persona nota peraltro al R. solo per aver fatto qualche rapina, ed esclusa dal collaboratore di giustizia P. che ne ha negato la qualità di soggetto inserito in qualche consorteria criminale.

Il motivo per come formulato non può che essere rigettato, attesa la corretta e coerente risposta data dalla gravata sentenza in punto di giudizio di colpevolezza, che il ricorrente tenta di invalidare ricorrendo a non consentite letture del dato probatorio.

2.4) i motivi di impugnazione di D.S.G. (capo B) e le ragioni della decisione della Corte.

D.S.G., detto " L.", è stato ritenuto colpevole dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ascrittigli al capo B) della rubrica ed è stato assolto ex art. 530 c.p.p., comma 2 dalle fattispecie delittuose associative contestategli sub A e B della rubrica.

Il giudizio di responsabilità reso in prime cure risulta emesso sulla base di una serie di elementi costituiti da intercettazioni telefoniche ed ambientali – nelle quali viene identificato con il nome di " L." – e dalle successive convergenti dichiarazioni accusatorie rese dai collaboranti P.S. e R. G. circa l’attività di spaccio di stupefacenti stabilmente svolta dal D., sebbene in apparente autonomia rispetto ai contigui contesti associativi specializzati e/o mafiosi.

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate limitatamente alla esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo degli artt. 192 e 546 c.p.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 con riferimento alla condanna D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 del capo sub B).

Rileva il ricorrente che con la sentenza di primo grado, il G.U.P. del Tribunale di Catania aveva ritenuto il D. responsabile del reato di detenzione, ai fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, di cui al capo B), prendendo in esame la posizione dell’imputato, con riferimento alla citata accusa, nelle pagine da 80 a 84 della motivazione.

E, più specificatamente, nelle pagine 80 e 81 della sentenza, il G.U.P. aveva utilizzato, ai fini della pronuncia di colpevolezza: – alcune conversazioni intercettate, "ad effetto ambientale", su un’utenza cellulare in uso al D. e al coimputato P. S.; – altre intercettazioni aventi ad oggetto alcuni dialoghi telefonici intercorsi, nella stessa giornata, tra il D. e la convivente e tra il D. e tale G..

Osserva il ricorso che, con riferimento a tale materiale probatorio, nei motivi di appello, si erano evidenziati una prima serie di errori rappresentata sia dall’attribuzione al D. di dialoghi in realtà intercorsi tra altri soggetti, sia dalla omessa valorizzazione della lettura delle conversazioni fornita dal collaboratore di giustizia P.S..

Nelle successive pagine da 81 a 85, il G.U.P. aveva valorizzato ai fini della pronuncia di colpevolezza, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia R.G. e P.S..

Per il ricorrente non sarebbero state correttamente valutate le dichiarazioni del collaboratore di giustizia P., le quali erano idonee ad escludere ogni responsabilità del D., ed erano state paradossalmente usate quale riscontro alle dichiarazioni del R..

Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alle regole di valutazione della prova, ai requisiti della sentenza ed al disposto del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Più precisamente si contesta l’utilizzo di una conversazione nella quale il D. è rimasto "un astante muto", un’altra in cui non è interessato il D. ma il P., senza considerare (pag. 10 motivi) tutta una serie di circostanze che offrivano la prova contraria della non colpevolezza del D. (per il capo B).

Con un terzo motivo si prospetta l’inutilizzabilità e l’assenza di valore probante in termini di negoziazioni di droga delle conversazioni intercettate il 6 aprile 2003 ad ore 18.5, 17 aprile 2003 ( P. – R.), 17 aprile 2003 ad ore 15.36, 15.37, 16.25, 16.27 ( D. e consorte e D. e " G.").

I primi tre motivi introducono una serie di critiche che, sotto la veste del vizio di legge, profilano pretesi errori di valutazione e vizi nella motivazione stessa che, peraltro, non sono idonei ad escludere il finale giudizio di colpevolezza del ricorrente, che è stato basato su di una coerente costruzione dei fatti ed un’altrettanto corretta valutazione dei dati probatori, cui non fanno velo le diverse alternative proposizioni, oppure le piccole incongruenze narrative, abilmente ma inefficacemente formulate nel gravame, attesi i rigorosi limiti dell’intervento del giudice di legittimità.

Nella specie (qui richiamato quanto indicato al p.2.1 per il B., motivi 1^ e 2^ e quanto argomentato per Bi. e St.: p.2.2. motivi 2^ e 4^) va opposto che esiste nella gravata sentenza un’adeguata e completa motivazione in punto di responsabilità, priva di serie incoerenze o difformità (rilevanti rispetto alle risultanze processuali), corretta negli sviluppi argomentativi e con una risposta esauriente alle critiche formulate nell’appello.

Nè la motivazione, in punto di colpevolezza, può considerarsi viziata per mancata risposta alle doglianze d’appello, posto che la corte distrettuale – con la sua decisione – non si è limitata ad una mera ed acritica riproduzione della sentenza di primo grado, ma, al contrario, nell’esaminare le proposte doglianze, ha finito con l’arricchire e rafforzare sul piano argomentativo la struttura portante e le sequenze logico giuridiche che hanno imposto la conclusione di penale responsabilità del ricorrente.

In conclusione: nessun vizio di motivazione quindi, nè tanto meno violazione di legge con riferimento al disposto dell’art. 125 c.p.p., comma 3.

Da ciò la decisione di rigetto dei predetti motivi.

Con un quarto motivo si evidenzia violazione delle regole probatorie in ordine alla valutazione delle dichiarazioni contrastanti dei collaboratori di giustizia P. (favorevoli) e R. (sfavorevoli al D.), definite invece "concordi" (pag. 19-20 sentenza).

La critica è apparentemente fondata, in quanto la motivazione della Corte di appello va interpretata nel suo complesso, dovendosi ritenere, a parte l’improprietà della espressione usata dalla Corte di appello, la concordia delle diverse dichiarazioni nelle sole parti che hanno fondato il giudizio di responsabilità il quale dispone di una polimorfa base di sostegno nei termini ampiamente sviluppati nella decisione del G.U.P..

Con un quinto motivo si sostiene il ridotto ambito temporale (2 soli mesi) delle indagini a carico del D. e l’inutilità complessiva dei risultati conseguiti, e la mancata risposta alle "specifiche deduzioni difensive" (peraltro non indicate in modo circostanziato nel ricorso).

Il motivo tocca ambiti di merito e comunque è inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio (cfr. anche: S.U. civili, 1628/2010), è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare l’omessa valutazione, di circostanze ed eccezioni "senza indicarne specificamente, sia pure in modo sommario, il contenuto, al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso essere autosufficiente, e cioè contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica" (Cass. pen. Sez. 6, 21858, imp. Tagliente, mass. 236689).

E’ altresì inammissibile il ricorso, che pur richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, di guisa da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Cass. pen. Sez. 1, ord. 20344/2006, imp. Salaj, mass. 234115, cfr. anche S.U. civili 8615/2009).

Con un sesto motivo si illustra l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia R. il 4 novembre 2004, oltre il termine dei 180 giorni dalla manifestata volontà di collaborare.

Il motivo va rigettato, qui integralmente richiamate le argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p:2.2. motivo 3^), attesa l’identità delle situazioni.

Con un settimo motivo si eccepisce l’erroneo mancato riconoscimento dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5 di cui ricorrevano tutte le condizioni, utilizzate, peraltro ed erroneamente, per determinare l’entità della sanzione, con ciò realizzando un errore di diritto.

Il motivo non ha fondamento.

Non esiste infatti alcuna incompatibilità logica tra la positiva valutazione di "alcune notazioni di levità" della condotta di detenzione-spaccio, utilizzate in concreto in per un contenimento della sanzione, ed il diverso mancato inquadramento della condotta illecita nel perimetro delle azioni di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, trattandosi di angolazione valutative che operano su piani diversi.

L’attenuante in questione, infatti, esige caratteristiche, dell’azione (modalità e circostanze) e del bene detenuto (quantità e qualità della sostanza), le quali, complessivamente soppesate nell’economia del crimine (e con un giudizio, che, laddove correttamente sviluppato, si sottrae a censure in sede di legittimità), danno una finale fisionomia di levità alla condotta per il suo basso profilo di illiceità ed allarme sociale.

Il motivo va quindi rigettato, non ricorrendo comunque le condizioni per l’applicabilità dell’attenuante in relazione alla corretta motivazione dei giudici di merito.

2.5) i motivi di impugnazione di D.M.A. (capi A e B) e le ragioni della decisione della Corte.

D.M.A. è stato giudicato colpevole in primo grado dei reati cui all’art. 416 bis c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73 rispettivamente contestati ai capi A) e B) dell’imputazione, con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il materiale probatorio fondante il giudizio di colpevolezza è costituito dagli esiti di intercettazioni telefoniche ed ambientali (nelle quali si colgono i riferimenti all’imputato con il soprannome "(OMISSIS)" o "(OMISSIS)") e dalle successive dichiarazioni accusatorie di P.S., R.G. e T. M., ritenute convergenti tra loro e coerenti con le risultanze captative.

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate limitatamente all’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione all’art. 268 c.p.p., comma 3, con riferimento alla circostanza per cui gli impianti installati presso la Procura della Repubblica sono stati ritenuti insufficienti o inidonei, nonchè sulla corretta individuazione delle ragioni d’urgenza che hanno determinato la improrogabilità delle operazioni di intercettazione. Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità con riferimento all’art. 125 c.p.p., relativamente all’obbligo di motivazione delle sentenze. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’art. 268 c.p.p., comma 3 con riferimento alla sussistenza delle ragioni per cui gli impianti installati presso la Procura della Repubblica di Catania sono stati ritenuti insufficienti o inidonei e sulle ragioni di urgenza che hanno determinato la improrogabilità delle operazioni di intercettazione.

Il motivo è inaccoglibile per le stesse ragioni dianzi formulate per il rigetto del ricorso di Bi. e St. (Cfr. p: 2.2, motivo 1^) e qui interamente richiamate e riprese.

Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge con riferimento al D.L. 15 gennaio 1991, art. 16 quater, commi 1 e 6, in relazione al divieto di utilizzabilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie effettuate dai collaboranti di giustizia oltre il 180 giorno dall’inizio della collaborazione, nonchè consequenziale l’inutilizzabilità delle stesse dichiarazioni e corrispondente vizio di motivazione sul punto.

Il motivo va rigettato, qui integralmente riprese le identiche argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p:2.2. motivo 3^, apprezzata la medesima realtà fattuale.

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge con riferimento all’art. 125 c.p.p. relativamente all’obbligo di motivazione delle sentenze. Mancanza, contraddittorietà od illogicità della motivazione con vizio risultante dal provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi del gravame, in relazione alla valutazione fornite dalla Corte di Appello di Catania in merito alla valenza probatoria da dare alle conversazioni registrate a bordo dell’autovettura del collaborante R.G. ed utilizzate ai fini della valutazione della presunta consapevolezza dello stesso del servizio di intercettazione in atto, eseguito dalle Forze dell’ordine.

Il motivo è infondato, qui riprese in proposito le medesime argomentazioni proposte ed evidenziate da questo Collegio per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p.2.2, motivo 2).

Con un quarto motivo si evidenzia inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 416 bis c.p., con riferimento alla individuazione degli elementi costitutivi del delitto di associazione mafiosa nonchè corrispondente vizio di motivazione sugli stessi punti.

Con un quinto motivo si sostiene violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, con riferimento alla individuazione degli elementi costitutivi del delitto di associazione, finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti e del relativo programma criminoso.

Gli ultimi due motivi non superano la soglia dell’ammissibilità.

Essi sono infatti privi di fondamento e di specificità in quanto ignorano l’ampia e precisa argomentazione sul punto della corte distrettuale la quale ha fornito adeguata e ragionevole spiegazione della pronuncia di responsabilità e degli elementi utilizzati per il manifestato convincimento di reità, elementi tutti che, per come sono stati opportunamente valorizzati, ed analiticamente esposti danno risposta adeguata ed esaustiva alle doglianze del gravame.

Inoltre l’esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

I due ultimi motivi vanno quindi dichiarati inammissibili.

2.6) i motivi di impugnazione di D.P.V. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

D.P.V. è stato ritenuto colpevole dei reati ascrittigli al capo C), unificati dal vincolo della continuazione, esclusa la circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il quadro accusatorio si basa sostanzialmente sugli esiti delle intercettazioni telefoniche ed ambientali riscontrati dalla successiva chiamata in correità di R.G..

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della mancanza e manifesta illogicità della stessa in relazione all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche.

Il motivo non ha fondamento per quanto sopra argomentato per la posizione di Bi. e St., qui integralmente da richiamarsi (cfr. p.2.2. motivo 1^).

Con un secondo motivo si lamenta ancora vizio di per mancanza e manifesta illogicità in relazione alla mancata individuazione anagrafica degli interlocutori del sig. R. durante le intercettazioni ambientali, indicati con appellativi e pseudonimi.

Il motivo va rigettato, qui richiamate le identiche argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p:2.2. motivo 4^) Con un terzo motivo si prospetta inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, nonchè vizio di motivazione per mancanza e manifesta illogicità in ordine all’utilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Con un quarto motivo si evidenzia ancora ulteriore vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’insufficienza della prova per inattendibilità delle dichiarazioni rese dal R. e dagli altri collaboranti.

Gli ultimi tre motivi non hanno pregio, a fronte della chiara motivazione assunta dalla corte distrettuale, in sintonia con l’identica valutazione fatta dal G.U.P. in punto di attendibilità intrinseca ed estrinseca del R. e degli altri collaboratori di giustizia.

I giudici di merito hanno opportunamente evidenziato che le conformi dichiarazioni eteroaccusatorie (oltre che confessorie), rese ripetutamente dal R. al P.M., infatti, non hanno riguardato un singolo ed isolato episodio, ma numerose, articolate e complesse vicende delittuose oggetto del presente processo, tutte esposte in dettaglio quanto alle proprie e/o alle altrui responsabilità, contenenti puntuali informazioni su una moltitudine di soggetti malavitosi e sulla rispettiva collocazione nell’ambito della organizzazione criminale di comune appartenenza, ed assistite da indiscutibili conferme provenienti dalle ulteriori risultanze, segnatamente dalle indicazioni di eterogenee ed autonome fonti dichiarative.

Quanto agli altri collaboratori di giustizia (in particolare P. S. e T.M.) le due sentenze, tra loro integrate e conformi, risultano aver rispettato tutti i protocolli di esame e valutazione delle dichiarazioni di soggetti, che hanno assunto il ruolo e la qualifica di collaboratori di giustizia, e che hanno, insieme agli altri dati processuali, consentito il giudizio di responsabilità degli odierni ricorrenti.

Nella specie si è trattato di affermazioni di persone, imputate nel presente o in procedimento connesso, latori di conoscenze particolarmente qualificate, in quanto già pienamente inseriti anche nella organizzazione criminale in questione (segnatamente P. S., R.G., T.M.).

Si tratta – come già detto – di dichiarazioni confessorie, oltre che etero accusatorie, rese ad integrazione e conferma dei risultati delle attività di intercettazione ambientale e telefonica, la cui interpretazione in chiave accusatoria è così precisata e ribadita.

Il G.U.P. e la Corte di appello – in termini adesivi – esprimono un motivato ed ineccepibile giudizio positivo sia sul requisito della credibilità soggettiva dei collaboranti, soffermandosi sulla genesi ed il percorso della loro scelta di collaborazione (cfr. sentenza G.U.P.: per R., pag. 10; per T. pag. 11; per P., pag. 12) sia sulla attendibilità intrinseca delle loro propalazioni.

Prova del rigore e della serietà anche formale della disamina di merito, va dedotta dalla risolutiva circostanza che, sulla base della valutazione dell’articolato materiale probatorio, i giudici sono pervenuti sì a pronunce di responsabilità, oggi oggetto di impugnazione, ma anche all’assoluzione di alcuni imputati per talune o per tutte le imputazioni ovvero all’esclusione di taluna delle aggravanti loro contestate, nei casi in cui la prova non è stata ritenuta sufficiente e congrua per una affermazione di colpevolezza.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un quinto motivo si sostiene vizio di motivazione per mancanza della giustificazione dovuta in relazione alla rideterminazione della pena nel minimo edittale.

Il motivo non supera la soglia dell’ammissibilità.

La Corte di appello nel ritenere la misura della pena congrua ed adeguata, ha valutati i criteri dell’art. 133 c.p. riferiti, sia alla gravità dei fatti, evidenziata dalle modalità, dalle circostanze, dalla ripetitività degli atti di traffico illecito di stupefacenti, sia alla valutazione negativa della personalità dell’imputato riveniente anche da i plurimi e gravi precedenti penali (per rapina, lesione personale, furto, porto illegale di arma ed evasione) di talchè non risultano valide ragioni per concedere eventuali attenuanti e comunque per ulteriori diminuzioni della pena.

Si tratta di un giudizio che, per come proposto, risulta ineccepibile ed incensurabile in sede di legittimità, qui rammentando che la concreta applicazione della pena rappresenta l’esito di una valutazione intuitiva e globale, operata dal giudice in rapporto alla complessiva considerazione del fatto ed alla personalità dello imputato, e che la sua giustificazione, se sorretta – come nella specie – da una ragionevole argomentazione, si sottrae ad ogni possibile censura che finirebbe con l’invadere gli ambiti del giudizio di merito.

2.7) i motivi di impugnazione di F.F. (capi A e B) e le ragioni della decisione della Corte.

F.F. in primo grado è stato dichiarato colpevole dei reati di associazione mafiosa e di associazione a delinquere e traffico di sostanze stupefacenti rispettivamente ascrittigli al capo A) e B) della rubrica, escluse, in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p. l’ipotesi di cui al comma 2^ e, in relazione alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, l’ipotesi di cui al comma 1^.

Il materiale probatorio, fondante il giudizio di colpevolezza è dato dagli esiti di intercettazioni telefoniche ed ambientali (nelle quali il F. è nominato con il soprannome di " F. (OMISSIS)", con cui è altresì noto anche alla Polizia giudiziaria), risulta convalidato dalle successive dichiarazioni accusatorie, coerenti con quei risultati, rese dai collaboranti P. S., R.G., T.M., R.G. e R.S..

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate limitatamente all’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione, per apparenza e contraddittorietà, sotto il profilo della responsabilità del F. ex art. 416 bis cod. pen. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 affermata sulla scorta di criteri presuntivi, quasi tutti basati su episodi al massimo rilevanti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73.

Con un secondo motivo si lamenta la positiva valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca del R., non suffragata dalle dichiarazioni degli altri collaboratori di giustizia e prive di riscontri oggettivi convergenti ed univoci, e provenienti da fonti informative autonome.

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’applicazione dell’art. 533 c.p.p., comma 1, non potendosi il patrimonio probatorio, acquisito a carico del F., ritenersi "fregiabile del crisma della univocità rappresentativa", trattandosi di patrimonio "sterile e frammentario" dato da dichiarazioni di collaboratori di giustizia non supportate da riscontri atti a conferire loro "autenticità e veridicità puntuale idonea a specificare ed integrare il loro contenuto generico".

I primi tre motivi non possono essere accolti per i loro profili di inammissibilità ed infondatezza.

Va per essi infatti richiamato quanto dianzi affermato:

in tema di vizio della motivazione, per la posizione B. (p:2.1, motivi 1 e 2);

in punto di attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia, quanto esposto con riferimento alla posizione di D. P. (p.2,6 4^ motivo);

ed infine sul tema del valore probatorio delle dichiarazioni degli stessi "propalanti", quanto argomentato nell’esame della posizione di Bi. e St. (p.2.2. 2^ e 4^ motivo) anche in ordine alla sussistenza del reato associativo.

Con un quarto motivo si evidenzia vizio di motivazione sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, basato su inesistenti e congetturali collegamenti con ambienti criminali.

La doglianza, al limite dell’inammissibilità, è inaccoglibile. La sussistenza di attenuanti generiche è invero oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal Giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, per cui la motivazione, purchè congrua e non contraddittoria – come nella specie – non può essere sindacata in Cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Cass. Penale sez. 4^, 12915/2006 Billeci).

2.8) i motivi di impugnazione di Gi.Gi. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

L’imputato è stato dichiarato colpevole dei reati ascrittigli al capo C) della rubrica, di detenzione e cessione di sostanza stupefacente con riferimento alla marijuana (e non anche alla cocaina), già unificati dal vincolo della continuazione, con esclusione della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 ivi contestata.

I dati d’accusa, positivamente valutati in prime cure, si compongono essenzialmente di una intercettazione ambientale (nella quale l’imputato è citato come il fornitore di droga a nome " P.") e delle successive dichiarazioni accusatorie di P.S. e di R.G. (che il 4.11.2004 effettuava il riconoscimento fotografico con il soprannome P.).

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un unico motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’illogicità e del travisamento della prova.

In particolare si lamenta l’equazione identificativa tra P., citato in una conversazione intercettata ed il Gi.Gi., considerato che il R. era ben cosciente della intercettazione in atto e si è comportato nel processo come persona autoreferente e priva di riscontri, nonostante l’attribuzione al P. (peraltro indicato con il cognome di L.) di un fiorente commercio di droga.

In ogni caso la valutazione della prova fatta dai giudici di merito avrebbe seguito i criteri che presiedono alle misure cautelari non trasferibili in sede di giudizio di penale responsabilità. Nè sarebbero efficaci le dichiarazioni del collaboratore di giustizia P. che sarebbero state smentite in sede cautelare, il tutto senza considerare che in contestazione si parla di marijuana e in sentenza di cocaina.

In conclusione secondo il ricorrente il quadro indiziario, equivoco ed insufficiente, non giustifica la pronuncia di colpevolezza.

Con ulteriore sviluppo dell’unica doglianza si lamenta la negazione dell’attenuante del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 ed il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche delle quali ricorrevano tutti i presupposti in fatto e in diritto.

I motivi sono senza fondamento, a parte l’evidente, irrilevante, "errar calami" dell’estensore che ha fatto riferimento a cocaina a fronte di una contestazione che concerneva la diversa sostanza della marijuana.

La gravata sentenza ha dato ampia ed ineccepibile spiegazione della identificazione dell’imputato e della sussistenza degli addebiti, con un argomentare privo di invalidità, qui riprese le regole di giudizio dianzi esposte nell’esame della posizione del B. (p.2.1. motivi 1 e 3 e ribadite altresì le regole di diritto in punto di valore probatorio delle intercettazioni, quali formulate dianzi nell’esame della posizione di Bi. e St. (p.2.2. 2 motivo).

Quanto all’invocata attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 la sua negazione risponde ad ineccepibili criteri di valutazione delle risultanze processuali, ragionevolmente soppesate e motivate, avuto riguardo alle dichiarazioni del R., del 4 novembre 2004, il quale, nel riconoscere le sembianze dell’accusato, nella foto esibitagli, ricordava con sicurezza l’attività di spaccio continuativo del Gi., di cospicui quantitativi di droga (circa 300 – 400 grammi per settimana), che il medesimo prendeva in consegna da Ba.Si. ed d.M.O.; e tenuto altresì conto che già nel precedente interrogatorio (reso il 29.9.2003) il collaborante aveva accennato al " P." come ad uno degli spacciatori al minuto ("trecento grammi il martedì") di cui D.M.O. era abituale fornitore. Il motivo va quindi rigettato.

2.9) i motivi di impugnazione di Gi.Gi. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

L’imputato è stato dichiarato colpevole in primo grado dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ascrittigli al capo C) della rubrica, unificati dal vincolo della continuazione, esclusa la circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e ravvisato il vincolo di continuazione con i reati giudicati con sentenza del Tribunale di Catania del 14.6.2004, irrevocabile l’I agosto 2004.

Il quadro probatorio è dato dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, nelle quali è frequente il riferimento all’imputato con il notorio sopranome " P. (OMISSIS)", e dalle successive dichiarazioni accusatorie di R.G..

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della pronuncia di responsabilità del G. G..

Lamenta il ricorrente che dalla lettura della sentenza gravata e di quella di primo grado non si comprenda il percorso logico-giuridico dei due giudicanti in quanto non sarebbe dato sapere se il G.U.P. prima e la Corte poi abbiano fondato il proprio convincimento sulle dichiarazioni del collaboratore R. e le due intercettazioni che riguardano il ricorrente siano state apprezzate quale riscontro esterno individualizzante, oppure se quest’ultime siano di per se sole sufficienti a fondare un giudizio di colpevolezza in capo al ricorrente in ordine alla contestazione mossa e, quindi, le dichiarazioni del collaboratore siano un "di più" riguardo alla prova già acquisita.

Sempre sul tema il ricorso segnala l’errore di qualificazione in cui è incorsa la Corte d’appello definendo le dichiarazioni come "chiamata in correità" senza avvedersi che nel capo di imputazione il collaboratore non è tra gli imputati a cui si contesta la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 per la quale ha invece riportato condanna il ricorrente.

La questione è di scarso momento a livello di prova ed in relazione alle regole dianzi richiamate in occasione dell’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p.2.2. motivo 3, regole da intendersi qui interamente richiamate e che delineano il valore probatorio delle dichiarazioni intercettate nei termini correttamente soppesati dai giudici di merito.

In ogni caso, va qui ancora una volta ribadito:

1) che l’interpretazione del linguaggio usato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (Cass. pen. sez. 6, 17619/2008 Rv. 239724. Massime precedenti Conformi: N. 3643 del 1997 Rv. 209620, N. 117 del 2006 Rv. 232626, N. 15396 del 2007 Rv.

239636);

2) che il canone di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applica alle indicazioni di reità, provenienti da conversazioni intercettate, perchè esse non sono assimilabili alle dichiarazioni che il coimputato del medesimo reato o la persona imputata in procedimento connesso rende in sede di interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria e, conseguentemente, per esse vale la regola generale del prudente apprezzamento del giudice (Cass. pen. sez. 1, 36218/2010 Rv. 248290);

3) che il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie, registrate nel corso di conversazioni legittimamente intercettate, può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando le une e le altre provengano dal medesimo soggetto (Cass. pen. sez. Sez. 1, 39330/2003 Rv. 225999).

Quanto alla doglianza secondo cui il materiale probatorio utilizzato per la condanna sarebbe "inadeguato", è evidente che si versa nel quadro di una inammissibile richiesta di rivalutazione del compendio processuale, vietato in sede di giudizio di legittimità, laddove, come nella specie, ci si trova di fronte ad una doppia conforme conclusione di colpevolezza, argomentata senza apprezzabili vizi logici e giuridici.

E’ noto infatti che in tema di giudizio di cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, ed esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di cd. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso – che non ricorre nella specie – in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. Penale sez. 2^, 5223/2007, Rv. 236130, Medina, Massime precedenti Conformi: N. 16956 del 2006 Rv. 233822).

Quanto poi alla critica finale in ordine alla cronologia della contestazione ed in relazione alla quale il ricorrente infatti sarebbe stato condannato per la violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 sino all’aprile 2005, nonostante le dichiarazioni del collaboratore siano state rese nel settembre 2004 e le due intercettazioni ambientali siano del maggio e agosto 2003, sul punto il ricorrente omette di adempiere all’onere di allegazione non rispettando il canone della autosufficienza del ricorso, così impedendo la verifica della fondatezza della doglianza in questa sede.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un secondo motivo si lamenta il mancato riconoscimento dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5 avuto riguardo alla modestia delle cessioni.

Con un terzo motivo si prospetta vizio di motivazione in ordine al non riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Tali ultimi motivi non superano la soglia dell’ammissibilità in quanto non tengono conto della corretta e adeguata motivazione della corte distrettuale la quale ha definito condivisibili le considerazioni svolte dal G.U.P. con riguardo alla continuità ed intensità dell’attività delittuosa de qua, qualità queste della condotta idonee ad escludere che nella specie possano ravvisarsi gli estremi dell’attenuante speciale di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. citato, e sufficienti per negare le circostanze attenuanti generiche in assenza di valide e positive deduzioni contrarie da parte del ricorrente.

2.10) i motivi di impugnazione di Gi.Ro. (capo B) e le ragioni della decisione della Corte.

L’imputato è stato condannato in primo grado per i reati di cui agli artt. 74 e 73 del capo sub B), in continuazione, esclusa per l’art. 74 l’ipotesi aggravata del comma primo.

Il materiale probatorio che ha consentito l’affermazione di reità è costituito da intercettazioni telefoniche ed ambientali (nelle quali ricorre il riferimento al notorio soprannome " S. (OMISSIS)" con cui l’imputato è conosciuto anche alla Polizia giudiziaria che, nella specie, ne ha effettuato altresì il riconoscimento vocale) e dalle successive propalazioni accusatorie dei collaboranti P. S. e R.G..

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche.

Il motivo è infondato per quanto sopra argomentato per la posizione di Bi. e St., qui integralmente da richiamarsi (cfr. p.2.2, motivo 1^).

Con un secondo motivo si lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’assente iniziale individuazione anagrafica degli interlocutori del sig. R. durante le intercettazioni ambientali.

Il motivo va rigettato, qui richiamate tutte le identiche argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p:2.2. motivi 2^ e 4^).

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione per mancanza e manifesta illogicità in relazione all’utilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Con un quarto motivo si evidenzia violazione di legge e vizio di motivazione per mancanza e manifesta illogicità in relazione all’insufficienza della prova per inattendibilità delle dichiarazioni rese dal R. e dagli altri collaboranti.

Il terzo ed il quarto motivo non sono fondati nei termini precisati per l’esame della posizione del D.P. (p:2.6. 4^ motivo) sulla attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia e sul complessivo valore probatorio delle loro dichiarazioni, fatto integrale riferimento, per quest’ultima tematica, anche a quanto scritto per Bi. e St. (cfr. p:2.2, 2^ motivo).

Con un quinto motivo si sostiene violazione di legge e vizio di motivazione, per mancanza e manifesta illogicità in relazione all’esistenza di un’associazione criminale caratterizzata dalla permanenza del vincolo associativo, da una struttura organizzativa e dall’apporto di un contributo effettivo da parte di ciascun partecipe.

Il motivo è inaccoglibile sia per profili di inammissibilità che per la sua fattuale infondatezza.

Sia il G.U.P. che la corte distrettuale, con adesive e conformi valutazioni, hanno evidenziato, rispondendo alla critiche dell’appello, le concrete connotazioni del sodalizio ed i suoi elementi costitutivi, con particolare riferimento al substrato psicologico che ha avvinto tutte le condotte illecite nella compiuta consapevolezza delle condotte altrui e della loro finalizzazione, ed agli apporti individuali in contesti operativi strutturati e continuamente consolidati dai contributi dei sodali.

Le critiche in ricorso non indeboliscono, nè tanto meno invalidano il finale giudizio di sussistenza della realtà associativa, affermata dopo un analitico percorso argomentativo riscontrato da fatti e rafforzato dalle successive propalazioni accusatorie dei collaboranti P.S. e R.G..

Il motivo, come avvenuto per gli altri correi ricorrenti, va quindi respinto.

2.11) i motivi di impugnazione di L.G.C. (capo B) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ascrittigli al capo B) della rubrica, esclusa la contestata circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, già unificati dal vincolo della continuazione interna ed inoltre di quella "esterna" con i fatti-reato analoghi di cui alla sentenza del GIP presso il Tribunale di Catania del 25.1.2005, irrevocabile il 16.11.06.

Il giudizio di responsabilità è fondato su di una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali (in cui ricorre il riferimento al soprannome "(OMISSIS)" con cui l’imputato è noto anche alla Polizia giudiziaria) validate dalle dichiarazioni accusatorie dei collaboranti P.S. e R.G. da cui scaturirebbe prova certa della continuativa ed autonoma attività di detenzione e spaccio di droga svolta dal L.G. nel quartiere catanese S. Berillo, e segnatamente presso la sua abitazione (per il R.) e nelle immediate adiacenze (per il P.).

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con riduzione della pena inflitta in continuazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo del mancato riconoscimento del ne bis in idem, tra i fatti giudicati con la sentenza impugnata e, quelli di cui alla sentenza 31 ottobre 2006 della Corte di appello di Catania.

Sul punto si lamenta che la protrazione dell’attività di spaccio anche al mese di giugno del 2003 sarebbe frutto dell’erronea interpretazione di due conversazioni telefoniche intercettate (18 maggio 3 18 giugno) che potevano ben riferirsi a pregressa attività illecita.

Il motivo per come sviluppato è inammissibile perchè ignora la ragionevole diversa valutazione fatta dai giudici di merito con un giudizio privo di patologie od invalidità idonee a determinarne l’annullamento ex art. 606 cod. proc. pen..

Con un secondo motivo si lamenta il mancato immotivato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Premesso che il riconoscimento delle attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato, ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.

Ciò posto va rammentato che la motivazione, in caso di diniego delle attenuanti in parole, può legittimamente ricavarsi, per implicito, anche mediante raffronto con le espresse considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, con riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi mentori illustrati in dette considerazioni appaiano quegli stessi la cui mancanza ha assunto, nel quadro di una valutazione generalmente negativa, efficacia determinante (Cass. pen. sez. 1, 6992/1992 Rv.

190645, Cass. pen. sez. 1, 6992/1992 Rv. 190645).

Orbene nella specie si trattava di persona che, secondo i giudici di merito aveva un’attuale, intensa e non risalente, attività di detenzione e cessione di droga, realizzata nonostante l’aggravio offerto dai precedenti specifici: un quadro più che idoneo a sostenere ragionevolmente il deliberato diniego.

Il motivo va quindi rigettato.

2.12) i motivi di impugnazione di P.S. (capi A, B ed E) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado il ricorrente è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 416 bis, artt. 74 e 73 in materia di stupefacenti nonchè di detenzione e porto illegali di armi, contestati ai capi sub A), B) ed E), reati unificati dal vincolo della continuazione, con riconoscimento dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, comma 7 e le circostanze attenuanti generiche valutate entrambe prevalenti sulle contestate aggravanti.

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate quanto alla esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, ma la pena è rimasta invariata perchè il corrispondente aumento è stato omesso dal primo giudice.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta nullità della sentenza, mancando nel dispositivo qualsiasi indicazione di responsabilità riferibile al P..

Con un secondo motivo si lamenta carenza assoluta di motivazione in ordine alla richiesta di applicazione della L. n. 203 del 1991, art. 8.

Il primo motivo è fondato ed il suo accoglimento assorbe la seconda doglianza.

Come esattamente rilevato dal ricorrente, il dispositivo della sentenza della Corte di appello, dopo aver in premessa indicato il P. tra le persone appellanti, e rideterminato la pena per 14 appellanti, in ciò parzialmente riformando le decisioni del G.U.P., non solo non ha fatto seguire a tali statuizioni, lo stilema usuale, ma necessario, dato dall’espressione "conferma nel resto", ma non ha indicato neppure tra le persone condannate alle spese ex art. 592 cod. proc. pen. l’appellante P., in tal modo privando il dispositivo della essenziale statuizione di colpevolezza confermata.

Risulta, così, perfettamente integrata la specifica ipotesi di nullità contemplata dall’art. 546 c.p.p., comma 3, della mancanza radicale del dispositivo in relazione all’imputato ricorrente P.S..

Nulla rileva che la Corte territoriale nella sentenza, successivamente depositata, abbia trattato la posizione del ricorrente e, nella parte motiva, abbia argomentato per la conferma nei suoi confronti della condanna di prime cure.

Invero, secondo la sequenza del rito dibattimentale, il dispositivo rappresenta il tramite mediante il quale è immediatamente estrinsecata la volontà del giudice (cfr. in termini: Sez. 1, 13559/2009 – Cass., Sez. 6, 6753/1997, Finocchi, r.v. 211005), mentre la motivazione "adempie una finalità permanente strumentale ed è improduttiva di conseguenze giuridiche laddove, come nella specie, non trovi la sua essenziale conclusione definitiva nel dispositivo" (Sez. 1^, 28 aprile 1995, n. 8277, Pagliardi, r.v. 202119).

Tale regola di giudizio trae fondamento dalla consolidata regola di diritto che impone la prevalenza logica dell’elemento decisionale su quello giustificativo" (Sez. 4, 2996/2008, Kadri), con la naturale ed ovvia esclusione della possibilità dell’esperimento del procedimento di correzione degli errori materiali (Cass., Sez. 6, 18 maggio 1993, n. 8677, Leonardi, r.v. 195995).

Consegue l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti di P.S. e il rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di appello di Catania.

2.13) i motivi di impugnazione di Pu.Ri. (capi A e B) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato dichiarato colpevole dei delitti associazione mafiosa ed associazione e traffico illegale di stupefacenti contestati nei capi sub A) e sub B) della rubrica unificati dal vincolo della continuazione.

Il quadro a carico dell’imputato è offerto dagli esiti delle intercettazioni telefoniche ed ambientali (ove emergono frequenti riferimenti all’imputato con lo pseudonimo " R.", in un caso in abbinamento al cognome, ovvero con il soprannome, noto anche alla Polizia giudiziaria di " R. (OMISSIS)") e dalle successive dichiarazioni accusatorie dei collaboranti P.S., R.G. e T.M..

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con il primo motivo di appello, la difesa, aveva censurato il giudizio di responsabilità in ordine al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, contestato al capo A), rilevando, in primis, come dagli atti non emergesse la sussistenza di uno degli elementi costitutivi della fattispecie di reato: il requisito del concreto uso della forza di intimidazione scaturente dal vincolo associativo.

Nel sostenere ciò si rilevava come l’espressione "si avvalgono", contenuta nell’art. 416 bis c.p., deve essere interpretata nel senso che l’impiego dell’apparato strumentale basato sull’intimidazione diffusa deve essere in qualche misura effettivo, e non solo ipotetico ed eventuale. Ed inoltre, l’alone di intimidazione diffusa deve essere presente e obiettivamente riscontrabile, essendo insufficiente la prova della sola intenzione di produrla o di avvalersene.

In particolare osserva il ricorrente che avendo la Corte di appello fatto riferimento alla motivazione di primo grado, non ha peraltro argomentato sulla "permanenza attuale" della forza di intimidazione, non potendo essere tratto tale elemento strutturale dalla passata storia del sodalizio, quasi che il sodalizio stesso potesse avere la qualità di una durata infinita di tale sua connotazione, non potendosi escludere il fenomeno inverso di una associazione ex art. 416 bis cod. pen. che refluisca nella più semplice forma illecita punita dall’alt. 416 cod. pen. Identica carenza di motivazione è dedotta quanto al requisito dell’assoggettamento ed omertà. Il motivo non può essere accolto.

Nella specie le due decisioni tra loro opportunamente integrate danno esaustiva spiegazione della ritenuta sussistenza del sodalizio criminoso, delle sue connotazioni costitutive, nonchè della "perdurante vitalità" dell’organizzazione illecita che costituisce lo sviluppo – senza soluzioni di continuo – della Associazione mafiosa Pillera-Puntina, ramificata sul territorio, con struttura gerarchica, dotata di cassa comune, con disponibilità di armi, dedita ad attività delittuose svariate, e qualificata dall’uso della violenza, come modalità espressiva della dominante supremazia anche nei confronti di clan avversi, e con una informazione costante ed aggiornata delle contigue realtà criminali mafiose posti in essere dagli altri gruppi.

Con un secondo motivo si lamenta ancora violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 3 e art. 416 bis cod. pen. in ordine alla concreta partecipazione al sodalizio qualificato del Pu..

Anche questa doglianza non si sottrae all’esito della inammissibilità posto che con essa, si chiede un sostanziale riesame della valutazione della prova nei termini fatti propri dai giudici di merito con doppia e conforme motivazione che ha fatto un uso ragionevole degli esiti delle intercettazioni opportunamente integrati dal nucleo conforme e sovrapponile, in punto di responsabilità, delle dichiarazioni accusatorie dei collaboranti P.S., R.G. e T.M., pur tra loro diversificate in ragione dei diversi personali patrimoni conoscitivi.

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla inutilizzabilità delle dichiarazioni del R. rese oltre i 180 giorni dall’inizio della condotta collaborativa data dalla redazione del verbale illustrativo della collaborazione, il quale risulta sottoscritto il 31 marzo 2004.

Il motivo va rigettato, qui integralmente richiamate le identiche argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p.:2.2, motivo 3).

Con un quarto motivo si evidenzia vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 3 42 e art. 43 cod. pen. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, considerato che il sodalizio di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 è stato ritenuto in assenza di qualsivoglia struttura organizzativa, senza una cassa comune o una previsione di distribuzione degli utili.

Con un quinto motivo si sostiene ancora vizio di motivazione e violazione di legge in quanto anche a voler ritenere la sussistenza del sodalizio, non vi sarebbe prova della partecipazione ad esso del Pu., nei termini prospettati dal R. e dal T..

Con un sesto motivo si illustra vizio di motivazione e violazione di legge in punto di affermata sussistenza del dolo specifico del ritenuto delitto il quale richiede che i sodali agiscano con la volontà e la consapevolezza di operare quali aderenti ad una organizzazione criminale e nell’interesse della stessa.

Con un settimo motivo si eccepisce ancora vizio di motivazione e violazione di legge in ordine al reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 considerati i contrasti tra collaboratori di giustizia, la genericità del loro dire, l’assenza di sequestri di materiale e mezzi tipici del delitto de quo, l’assenza di dichiarazioni in proposito da parte di acquirenti.

I motivi quarto, quinto, sesto e settimo non sono accoglibili.

La motivazione della Corte di appello, che richiama la parte analitica e puntuale della decisione del G.U.P., non è suscettibile di invalidazioni in questa sede, non ricorrendo alcuno dei vizi qui utilmente prospettabili, e tenuto conto che, dalla lettura integrata delle due decisioni, emerge un quadro unitario in punto di colpevolezza, ampiamente giustificato e supportato, dalla doppia sinergica concorrenza di dati offerti da intercettazioni e di elementi tratti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dei quali è stata accertata, la specifica competenza cognitiva, l’assenza di malanimi od interessi in contrasto con la verità dei fatti, e, in definitiva la loro attendibilità intrinseca ed estrinseca.

Dalla sommatoria di tali risorse processuali ne è scaturito un giudizio di responsabilità non intaccato dalle prospettate letture alternative o dalle doglianze formulate nel ricorso.

Con un ottavo motivo si contesta la negazione dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5, di cui ricorrevano tutte le condizioni peraltro usate dalla stessa corte per determinare la sanzione ex art. 133 cod. pen..

Il motivo va respinto per le medesime ragioni dianzi espresse nella disamina della posizione del ricorrente D. (p. 2.4, motivo 7).

2.14) i motivi di impugnazione di R.G. e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per i reati ex art. 416 bis cod. pen., D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73, nonchè per detenzione e porto illegale di armi, capi sub A), B), ed F), tutti unificati dal vincolo della continuazione, con l’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, comma 7 e le circostanze attenuanti generiche valutate prevalenti alle contestate aggravanti.

Con i motivi di appello proposti avverso la sentenza l’imputato ha dedotto: la mancata assoluzione dal reato associativo D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, sub capo B); la mancata concessione dell’attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 e l’eccessività della pena da ricondurre al minimo edittale.

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 ed il riconoscimento dell’attenuante ex art. 8 stessa legge.

La corte distrettuale riconosciuta l’attenuante L. n. 203 del 1991, ex art. 8 ha rigettato la richiesta di assoluzione del reato D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 sostenuta sotto il profilo dell’assenza dell’elemento soggettivo di tale delitto.

L’impugnazione (e la memoria) avanti alla Corte di legittimità ripete la doglianza respinta, rilevando con un primo motivo che i giudici di merito hanno utilizzato le prove dell’associazione ex art. 416 bis cod. pen. senza tener conto che il "vincolo permanente instaurato con i sodali" concerneva soltanto tale ultimo sodalizio.

Con un secondo motivo si prospetta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo che i Giudici di seconde cure, nel ritenere sussistente il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 hanno totalmente trascurato il rilievo difensivo che porta invece ad escludere la responsabilità dell’imputato, considerato che egli nella specie ha operato in un contesto di adempimento del dovere di collaborare ad una operazione di polizia nella veste di agente provocatore.

In tale ambito si sostiene l’assoluta estraneità psicologica del R. alla commissione del delitto di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, essendo suo settore operativo – all’interno dell’associazione – solo ed esclusivamente quello della commissione di rapine, in particolare sul territorio romano.

L’unica ragione che ha condotto l’imputato ad interessarsi al traffico di sostanze stupefacenti sarebbe stata quello, di fornire informazioni alle Forze di Polizia.

I due motivi vanno respinti, in quanto ignorano e non si confrontano in modo ragionevole con la chiara argomentazione della corte distrettuale, la quale, nel respingere le dette doglianze ha precisato – in termini non censurabili in questa sede, per la loro logicità e aderenza alle emergenze processuali – che la presenza di numerosissimi eloquenti riferimenti, nei dialoghi intercettati e nelle convergenti ed integrative asserzioni dello stesso collaborante (vds in particolare interrogatorio del 12 dicembre 2005), a ripetute cessioni di droga da parte ed in favore del R. e dei soggetti "dediti alla distribuzione, al commercio, al trasporto, alla detenzione, alla offerta in vendita" in continuativi contatti con lui (come anche l’appellante afferma in foglio 2 dell’atto di appello), ben lontani dal proporre o giustificare soltanto un interesse all’acquisizione di informazioni, da passare alle Forze di Polizia e all’acquisto di droga da consumare in prima persona, offrono prova certa del vincolo permanente consapevolmente (e surrettiziamente) da lui instaurato con i sodali, (integrante tutti gli estremi del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74) traendo in tale modo profitto della sua veste di collaborante.

Il tutto senza considerare che la gravata sentenza ha radicalmente escluso l’accampato difetto di soggettività del delitto associativo, sottolineando la cospicua evidenza probatoria del contrario, ovvero della convinta adesione del R. al comune programma criminoso e alla sua realizzazione.

Invero, prosegue ancora – correttamente – la corte distrettuale, a prescindere pertanto dalla affermata riserva mentale interna all’imputato e dalla qualificazione giuridica da costui attribuita alla propria condotta – ovviamente entrambe irrilevanti – è piuttosto sufficiente la volontà consapevole del R. di partecipare al sodalizio criminale in questione, inteso come "ente di fatto", consapevolezza che risulta provata e sostenuta da una serie sintonica di comportamenti significativi che si sono concretizzati in un’attiva e stabile partecipazione al sodalizio.

Con un terzo motivo si evidenzia l’erronea valutazione della dimensione della condotta collaborativa che avrebbe dovuto comportare invece la concessione dell’attenuante speciale nella sua massima estensione.

Il motivo è inammissibile.

La valorizzazione del grado dell’apporto collaborativo e dei suoi esiti, integra un giudizio di merito non censurabile in questa sede, a meno si provi che esso è stato fondato su dati ed elementi di fatto errati, oppure su di una palese incongruità della giustificazione che è stata proposta a sostegno del grado di determinazione della estensione del beneficio.

Evenienze queste assenti nella motivazione della decisione impugnata, con conseguente inaccoglibilità della censura.

2.15) i motivi di impugnazione di S.G. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 di cui al capo C), unificati dal vincolo della continuazione ed esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il materiale probatorio a carico del S. è offerto dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali (ove ricorre il chiaro riferimento all’imputato con il soprannome " P. (OMISSIS)") e dalle successive dichiarazioni accusatorie di R.G., che lo ha individuato in foto e ne ha ricordato l’attività di spaccio di "bustine" di eroina nella zona del quartiere catanese del "Fortino".

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della avvenuta utlizzabilità delle dichiarazioni del R. oltre il termine dei 180 giorni in violazione della L. n. 82 del 1991, art. 176 quater.

Il motivo va rigettato, qui integralmente richiamate le identiche argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p:2.2. motivo 3).

Con un secondo motivo si lamenta l’attendibilità intrinseca ed estrinseca attribuita al R. e si contesta il tenore delle conversazioni telefoniche e la fondatezza della chiamata in reità.

Il motivo non ha pregio e va rigettato qui riprese le identiche argomentazioni sul tema, evidenziate nella disamina della posizione del D.P. (cfr. p.2,6, motivo 4) e da ritenersi qui integralmente riprese, attesa l’identità delle doglianze critiche.

Il ricorso è quindi privo di fondamento e va rigettato.

2.16) i motivi di impugnazione di Si.Gi. (capo A) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per il reato di associazione mafiosa contestatogli al capo sub A) della rubrica.

Il quadro d’accusa a carico del Si. si compone dei molteplici e convergenti elementi desunti da intercettazioni telefoniche ed ambientali (eseguite sia in relazione al presente che ad altro procedimento) e dalle conformi e convergenti dichiarazioni accusatorie del collaborante T.M., elementi acquisiti in buona parte dopo l’annullamento da parte del Tribunale del riesame di una prima ordinanza di custodia cautelare che aveva colpito il Si. in relazione al reato de quo.

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo del mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla mancata valutazione della sentenza della Corte Suprema, sez. 5^ 03104/2008 con la quale veniva annullata con rinvio l’ordinanza del Tribunale della Libertà, a seguito della quale il prevenuto veniva rimesso in libertà il 05/08/2008.

Il ricorso lamenta l’assente motivazione sul diniego delle circostanze attenuanti generiche, considerato che la contestazione termina nell’aprile 2005 e che il giudice del merito non ha assolutamente tenuto conto dell’attuale e concreto stile di vita assunto dall’imputato: lo stesso infatti, scarcerato per ben due volte dal Tribunale della Libertà, ha potuto improntare la sua esistenza alla ricerca di uno stabile e lecito lavoro ed alla cura ed al mantenimento del proprio nucleo familiare.

Circostanza questa avvalorata dall’ultima ordinanza de libertate (prodotta) in cui, la Corte Suprema di Cassazione dapprima, ed il Giudice territoriale poi, hanno riconosciuto l’insussistenza dell’attualità delle esigenze cautelari, a fronte di un comprovato e radicale positivo regime di vita, testimoniato dalla produzione documentale della difesa in merito al rinvenimento di un onesto lavoro.

Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge con riferimento al giudizio di colpevolezza sulla qualità armata dell’associazione.

Nessuna delle due doglianze ha serio fondamento.

I giudici di merito evidenziano infatti – in termini ostativi al riconoscimento di circostanze attenuanti generiche – che il ruolo effettivo del Si. nell’associazione in questione, era un ruolo di primo piano, facendo egli parte del "gruppo di fuoco" del Borgo capeggiato dal To., che aveva tra le ordinarie mansioni associative attribuite appunto al ricorrente il compito specifico, e funzionale alla sopravvivenza dell’organizzazione, di gestire il cd.

"recupero crediti" per conto del clan, ovvero di ritirare il provento delle estorsioni e dell’attività di usura gestite dalla cosca, per poi rimetterlo al capogruppo T.M..

Inoltre, a conferma della gravità delle accuse e a sostegno del negativo giudizio di personalità, la corte distrettuale sottolinea proprio (anche con riguardo all’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 6) il comprovato coinvolgimento attivo del Si. in episodi criminosi violenti con uso di armi ed esplosivi.

Il ricorso va quindi rigettato.

2.17) i motivi di impugnazione di Sp.Gi. (capo B) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado il ricorrente è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73 indicati nel capo sub B), unificati dal vincolo della continuazione.

Il materiale d’accusa è composto da una serie di intercettazioni telefoniche ed ambientali (ove figurano riferimenti certi all’imputato con il nome " Gi.", supportati dai controlli collaterali di polizia e dal riconoscimento vocale) e dalle successive dichiarazioni accusatorie di R.G. (portatore di conoscenze dirette circa l’inserimento dell’imputato nella consorteria criminale de qua con il ruolo di spacciatore al minuto della sostanza stupefacente del gruppo) e di P.S. (con più specifico riferimento all’attività di spaccio) In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della violazione di legge riferita all’art. 268 cod. proc. pen. e conseguente inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, per vizio di motivazione dei decreti autorizzativi circa l’inidoneità ovvero per insufficienza degli impianti in dotazione alla Procura, e sulla ragioni d’urgenza del ricorso ad impianti diversi ed esterni.

Il motivo non ha fondamento per quanto sopra argomentato per la posizione di Bi. e St., qui integralmente da richiamarsi (cfr. p.2.2. motivo 1).

Con un secondo motivo si lamenta ancora violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla utilizzabilità e/o valenza probatoria delle conversazioni registrate sull’autovettura del collaborante R..

Il motivo non può essere accolto, qui richiamate nella loro integrità le argomentazioni sul punto sviluppate nell’esame della posizione di Bi. e St. (p:2.2. motivi 1 e 2).

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’inutilizzabilità delle dichiarazioni eteroaccusatorie del collaborante R.G. rese in epoca successiva allo scadere del 180 giorno dall’inizio della collaborazione.

Anche questo motivo va rigettato, qui integralmente richiamate le identiche argomentazioni dianzi utilizzate per l’esame della posizione di Bi. e St. (cfr. p:2.2. motivo 3).

L’integrale reiezione di tutti i motivi di impugnazione comporta quindi il rigetto del ricorso.

2.18) i motivi di impugnazione di T.M. (capi A, H e I) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado l’imputato è stato condannato per i reati di cui all’art. 416 bis cod. pen., detenzione e porto illegale di armi (capi sub A, H, ed I) unificati dal vincolo della continuazione e con riconoscimento dell’attenuante ex art. 8 legge 203/91 e delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti.

Con i motivi di appello l’imputato non ha mosso rilievi di merito al giudizio di responsabilità, ma si è limitato a contestare la misura della pena, chiedendone la riduzione.

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Rileva il ricorso che il T., dopo aver militato all’interno del gruppo mafioso denominato "clan Pillera" principalmente in Catania e provincia, aveva deciso nel 2005 di collaborare con gli organi inquirenti, fornendo un contributo, che si definisce, molto originale e prezioso, per la ricostruzione non soltanto dei singoli episodi criminosi, ma del quadro d’insieme nel quale aveva operato l’organizzazione, così apportando un rilevante contributo alla individuazione dei moventi, dei complici, elle armi utilizzate per tutti i delitti di cui era stato coautore e di cui comunque aveva conoscenza.

Sostiene l’impugnazione che il presente processo ha preso le mosse principalmente grazie alla dichiarazioni del T., unico imputato, che all’inizio della sua collaborazione riferiva di gran parte dei fatti contestati agli odierni imputati.

Per tali motivi il Giudice di primo grado ha riconosciuto sia l’attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8, che le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, determinando così la pena complessiva in anni quattro di reclusione.

Con un unico motivo di ricorso si lamenta che la Corte di Appello abbia confermato la sentenza di primo grado rigettando la richiesta di determinazione della pena base nel minimo e l’aumento di pena irrogata in continuazione più contenuto, senza fornire sul punto adeguata giustificazione.

Il motivo per come formulato non supera la soglia dell’ammissibilità ove lo si raffronti con l’ineccepibile e ragionevole motivazione dei giudici di merito.

La corte distrettuale ha ritenuto congrua e adeguata la misura della pena stabilita dal primo Giudice, avuto riguardo ai criteri di cui all’art. 133 c.p., nonchè all’estrema gravità dei fatti, evidenziata dalle modalità, dalle circostanze, dalla ripetitività della condotta, adesiva ad un pericoloso clan mafioso ed in posizione di rilievo, ed altresì alla valutazione negativa della personalità dell’imputato desumibile dai fatti in disamina e dai gravissimi ed anche specifici precedenti, commessi nel contesto criminale mafioso (per detenzione illegale di armi, omicidio ed estorsione), di tal che non risultano valide ragioni per ulteriore diminuzione della pena oltre quelle già considerate dal primo Giudice, peraltro di valenza prevalente su quelle sfavorevoli sopra indicate.

Il motivo va quindi rigettato.

2.19) i motivi di impugnazione di Tr.Pa. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte e la decisione della Corte.

L’imputato in primo grado è stato dichiarato colpevole dei reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 ascrittigli al capo C), unificati dal vincolo della continuazione, esclusa la circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il quadro apprezzato dal primo giudice risulta costituito da intercettazioni ambientali, nelle quali ricorre la citazione del soprannome P. (OMISSIS) riferibile all’imputato, e dalle successive dichiarazioni accusatorie del collaborante R. G., che individuandolo in foto ne ha indicato l’attività criminosa di spaccio di marijuana ("fumo").

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con riconoscimento dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5. Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione per avere erroneamente utilizzato come elemento di riscontro alle dichiarazioni di R. le conversazioni ambientali in cui unico interlocutore era il medesimo R..

Il motivo è inaccoglibile in relazione a quanto sopra motivato per le posizioni di Bi. e St. (p.2.2. motivo in e per quanto ulteriormente ribadito a proposito della posizione di Gi.

G. (p.2.9. motivo 4).

Con ulteriore articolazione dello stesso motivo si deduce vizio di motivazione e violazione di legge:

a) sull’utilizzabilità delle dichiarazioni del R. rese dopo il 180 giorno dall’inizio della condotta collaborativa e si lamenta che il tenore dell’unica conversazione intercettata sia stato indicato in una attività di cessione, trattandosi invece di un mero proposito mai attuato. Il motivo non ha fondamento e va rigettato qui riprese le stesse argomentazioni utilizzate per la disamina della posizione di Bi. e St. (p. 2.2. motivo 3^). b) sulla negazione dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5 attesa la minima offensività del fatto: il motivo è inammissibile atteso che risulta che tale attenuante è stata riconosciuta dal giudice di secondo grado. c) sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche:

anche questa doglianza non può essere accolta, avuto riguardo alla ostativa corretta motivazione della Corte di appello la quale, applicati i criteri di cui all’art. 133 c.p., ed in particolare valutando negativamente l’entità dei fatti e la personalità dell’imputato considerato lo stile ed i precedenti vita (sorveglianza speciale, furto ricettazione, detenzione abusiva di armi, violazione delle misure di prevenzione), ha ritenuto la concreta impossibilità di operare ulteriori diminuzioni della sanzione per qualsiasi altro titolo, diverso dalla considerata attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5;

d) sulla valutazione della recidiva: la doglianza non ha fondamento versandosi nella specie in una realtà di recidiva reiterata ed infraquinquennale, nei termini verificati ed opportunamente valorizzati dal G.U.P. (pag. 261 sentenza 1^ grado).

2.20) i motivi di impugnazione di V.R. (capo B) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 di cui al capo sub B).

Il quadro valorizzato dal primo giudice è costituito da intercettazioni telefoniche ed ambientali, in cui ricorre la citazione del soprannome " S. (OMISSIS)" riferibile all’imputato (la cui identificazione è certa anche in virtù dei commenti sul suo arresto del 26.8.2003 per detenzione di due ovuli contenenti cocaina) come soggetto dedito stabilmente allo smercio al minuto di cocaina e dalle successive dichiarazioni accusatorie del collaborante R.G., il quale, individuandolo in foto, ne ha indicato con estrema precisione il luogo e le consuete modalità di svolgimento dell’attività criminosa di spaccio, di cui sporadicamente si avvalevano anche taluni associati al sodalizio sub capo B).

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con riconoscimento dell’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, con riferimento ai criteri di valutazione della prova.

Rileva il ricorrente che la prova è esclusivamente fondata sulle dichiarazioni di un unico collaborante, il R., dichiarazioni peraltro assolutamente prive di riscontri positivi, rese in data 21/09/04 e 04/11/04: tali dichiarazioni si limitano a confermare il contenuto di alcune conversazioni registrate all’interno dell’autovettura del R. stesso del 06/06/03, 13/06/03, 16/06/03, 15/07/03, 22/08/03, 25/08/03, quest’ultima captata il giorno prima di quello in cui il V. subiva un arresto, dove il collaboratore riferiva alle persone che erano in macchina con lui, alla ricerca di sostanza stupefacente, che potevano trovarla, appunto, presso l’odierno imputato.

La Corte ha considerato tali dichiarazioni attendibili in quanto sufficientemente riscontrate, ritenendo che il riscontro esterno potesse essere integrato dalla circostanza che il riscontro esterno sia stato integrato dalla circostanza che … "il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie registrate nei corso di conversazioni legittimamente intercettate può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando come nel caso in esame talvolta accade per il R. – le une e le altre provengano dai medesimo soggetto "(pag. 6 Sent.).

In conclusione, il ragionamento della Corte risulterebbe irrimediabilmente viziato, in quanto non può ritenersi idoneo quale riscontro esterno, la conferma da parte del medesimo soggetto, di dichiarazioni rese da lui stesso in condizioni che ne inficiano pesantemente la genuinità.

Il tema riprende le medesime questioni dianzi dedotte – e respinte – dai ricorrenti Bi. e St. (p.2.2. 1 e 2 motivo 1) e Gi.Gi. (p.2.9. motivo 1), con la conseguenza che le doglianze della difesa del V. vanno del pari rigettate, qui richiamate integralmente le suesposte considerazioni in tema di canoni probatori.

Con un secondo motivo si lamenta omessa motivazione e travisamento del fatto in relazione all’art. 649 cod. proc. pen..

La corte distrettuale con un’argomentazione qui non censurabile per i profili di merito che la connotano, ha ritenuto l’insussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 649 c.p.p. con riguardo ai motivi dell’arresto di cui si fa riferimento nei dialoghi intercettati, sostenendo che, in realtà, la fattispecie criminosa oggetto di contestazione riguarda la continuativa attività di spaccio, precedente all’episodio di detenzione illegale causa dell’arresto (detenzione di 2 ovuli contenenti gr.47 di cocaina), che risulta pertanto ben distinto dall’imputazione in disamina proprio in ragione della specificità dell’episodio coperto da giudicato assolutorio ex art. 530 c.p.p., comma 2. Il motivo va quindi rigettato.

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge con riferimento alla contestata recidiva reiterata ed infraquinquennale, considerato che dal certificato nella disponibilità della Corte risulterebbe un precedente del 2001 ed in quello prodotto oggi dalla difesa consterebbe che l’ultimo precedente è del 10 aprile 1992.

Il motivo è privo di fondamento posto che la certificazione nella disponibilità di questa Corte di legittimità conferma la presenza – rubricata al progressivo n. 9 del certificato del Casellario – di una condanna per invasione di terreni ed edifici commessa il 20 agosto 1999 con condanna esecutiva alla data del 18 maggio 2001. 2.21) i motivi di impugnazione di Z.P. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado è stato condannato per i reati ex art. 73 di cui al capo sub C).

Il materiale che ha giustificato il giudizio di responsabilità è costituito da intercettazioni ambientali e da successive convergenti dichiarazioni accusatorie dei collaboranti R.G. (che lo ha individuato in foto con il soprannome di P. "(OMISSIS)") e P.S. (che ne ha evocato il medesimo soprannome, distinguendolo da quello identico riferibile anche al coimputato Bi.) i quali ne hanno ricordato l’attività criminosa di spaccio al minuto di sostanze stupefacenti.

La sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del G.U.P..

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo per mancanza e manifesta illogicità in relazione all’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche.

Il motivo non ha fondamento per quanto sopra argomentato per la posizione di Bi. e St., qui integralmente da richiamarsi (cfr. p.2.2, motivo 1).

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione con riferimento alla mancata individuazione degli interlocutori del R. durante le intercettazioni ambientali.

Anche questa doglianza va respinta, qui richiamate tutte le argomentazioni dianzi utilizzate per la posizione di Bi. e St. (p. 2.2, motivo 4^).

Con un terzo motivo si prospetta mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’utilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Con un quarto motivo si evidenzia mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’insufficienza della prova per inattendibilità delle dichiarazioni rese dal R. e dagli altri collaboranti.

Il terzo e quarto motivo seguono la sorte delle altre identiche critiche formulate dai procedenti ricorrenti e rigettate con la motivazione che qui si richiama, e dianzi espressa per le medesime doglianze formulate nella valutazione della posizione del ricorrente D.P. (p.2.6. motivo 4).

Con un quinto motivo si sostiene mancanza della motivazione in relazione alla rideterminazione della pena nel minimo edittale.

Il motivo non merita accoglimento.

La corte distrettuale – con giudizio privo di vizi censurabili in questa sede – ha infatti ritenuto la pena irrogata adeguata in relazione ai criteri tutti di cui all’art. 133 c.p., soppesata la gravità dei fatti, evidenziata dalle modalità,dalle circostanze, dalla ripetitività degli atti di traffico illecito di stupefacenti, nonchè tenuto conto della valutazione negativa della personalità dell’imputato desumibile dai precedenti penali anche specifici, con la conseguenza che non risultano valide ragioni per ulteriore diminuzione della pena.

2.22) i motivi di impugnazione di Zi.An. (capo C) e le ragioni della decisione della Corte.

In primo grado lo Zi. è stato condannato per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, ascrittigli al capo C) della rubrica, unificati dal vincolo della continuazione interna ed inoltre con i reati analoghi di cui alla sentenza del GUP presso il Tribunale di Catania dell’8 luglio 2003, irrevocabile il 21 novembre 2003.

Il materiale d’accusa a suo carico è dato dalle intercettazioni ambientali (in cui compaiono riferimenti personali certi all’imputato come T. (OMISSIS) all’epoca agli arresti domiciliari e commenti negativi sul medesimo, per non avere egli avvisato per tempo dell’arrivo della polizia, il vicino di casa V. in occasione dell’arresto) e dalle successive dichiarazioni accusatorie di R.G..

In appello le statuizioni del G.U.P. sono state riformate con l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con un unico articolato motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione per manifesta illogicità per avere erroneamente utilizzato come elemento di riscontro alle dichiarazioni di R. le conversazioni ambientali in cui unico interlocutore era il medesimo R..

Il motivo, identico alle censure respinte e formulate da Bi. e St. (p.2.2. motivo 2^) e Gi.Gi. (p.2.9. motivo 1), ne segue la sorte di rigetto, qui richiamate integralmente le medesime ragioni giustificative.

II ricorso rileva ancora criticamente: a) che nel contesto delle intercettazioni ambientali la posizione dello Zi. viene in esame, non per specifici contatti con il R. ma, perchè quest’ultimo avrebbe avuto dei rapporti con il V.R., nei cui confronti il propalante vantava un ipotetico credito che, a suo dire, avrebbe dovuto essere adempiuto dallo Zi.; b) che lo Zi. è, in effetti, nominato dal R. in correlazione ai giorni successivi all’arresto del V., allorquando il primo, colloquiando con altra persona, F.D., discute in ordine alla possibilità che vi sia stata una soffiata per vendetta nei confronti del " S." che aveva, a suo dire, una buona vendita di sostanza stupefacente; c) che nella conversazione si riferisce che lo Zi., persona paralitica e perennemente affacciata alla finestra avrebbe potuto e dovuto avvisare il V. dell’arrivo delle Forze dell’Ordine; d) che tale intercettazione risulta isolata ed avulsa dall’intera attività d’indagine, assolutamente insufficiente in ordine al tema di prova della responsabilità, non essendosi rinvenuto nessuno che riferisca di acquisti di droga da lui; e) che lo stesso R. precisa di non essersi mai interessato specificamente di sostanze stupefacenti ma di averlo fatto unicamente per mero motivo utilitaristico, al fine di conoscere i soggetti dediti allo spaccio di sostanza per riferirlo, come confidente, alle Forze dell’ordine; f) che le modalità dell’arresto del V.R., non derivavano da una perquisizione domiciliare, con la conseguenza che era infondato il riferimento al possibile avviso che lo Zi. avrebbe dovuto osservare nei confronti del " S."; g) che in ogni caso sarebbe inverosimile che il R., il quale si occupava della droga solo per acquisire informazioni come confidente di Polizia, avesse effettivamente ceduto droga al V.; h) che non ci si sarebbe alcun elemento di fatto che supporti l’assunto che effettivamente il propalante abbia richiesto ed ottenuto la somma di Euro 400 allo Zi..

In conclusione per il ricorrente tali affermazioni sono solo il frutto di mere elucubrazioni prive di qualsivoglia comprovato elemento di conoscenza, per effettivi rapporti personali, delle cessioni a terzi di stupefacenti.

Il motivo nelle sue plurime articolazioni non supera la soglia dell’ammissibilità.

L’art. 606 c.p.p. infatti non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali, oppure una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori; e l’art. 606 c.p.p., lett. e), quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo del provvedimento impugnato, si limita a fornire solo una corretta definizione del controllo di legittimità sul vizio di motivazione (cfr. in termini: Cass. Pen. sez. 5^, sent. 39843/2007, Gatti).

In ogni caso, tali doglianze si risolvono nella sostanziale ed inaccettabile richiesta di rivisitazione degli elementi di fatto, posti a base della ragionevole decisione della Corte distrettuale, la quale, proprio perchè logicamente sostenuta e adeguatamente correlata ai dati probatori, non può essere censurata sotto il profilo della possibile prospettazione di una diversa e, per il ricorrente, più favorevole valutazione delle emergenze processuali (cfr. in termini: Cass. Penale sez. 2^, 15077/2007, Toffolo e precedenti conformi).

Infine, con ulteriore sviluppo dell’originaria prima doglianza, il ricorso lamenta nell’ordine:

1) che non si sia ritenuta nella specie una realtà di ne bis in idem agli effetti dell’art. 649 cod. proc. pen.: la critica è infondata attesa la puntuale spiegazione offerta dai giudici di merito, in modo non censurabile in sede di legittimità;

2) che non sia stata applicata l’attenuante D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 5, considerata la minima offensività del fatto:

anche questa critica, come si vedrà, non ha pregio;

3) che non siano state riconosciute le circostanze attenuanti generiche e non si siano esclusi gli effetti della recidiva: la 2^ e 3^ doglianza non hanno fondamento laddove si confrontino con la ragionevole ed ineccepibile motivazione dei giudici di merito i quali, nel considerare l’entità della sanzione nel rispetto dei criteri di cui all’art. 133 c.p., l’hanno valutata congrua ed adeguata, in relazione sia alla gravità dei fatti, come evidenziata dalle modalità, dalle circostanze, dalla ripetitività della condotta, dal pericoloso contesto criminale a cui risulta collegato (seppure con modalità non strettamente qualificabili ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7), sia alla valutazione negativa della personalità dell’imputato, recuperata dagli allarmanti precedenti penali, plurimi e anche specifici, nonchè dalla evidente insussistenza dei presupposti di "minima offensività del fatto" prescritti per la concessione della invocata attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 (cfr Sez. 4^ 21.5.2008 n. 22643), di tal che non risultano valide ragioni per concedere le chieste attenuanti (nè quella speciale nè le generiche), nè per escludere le altre aggravanti contestate e, comunque, per ulteriore diminuzione della pena, diversa da quella determinata dall’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. 4) che si sia affermata la finalità di aver agito per favorire l’associazione mafiosa "Pillera-Puntina" a fronte di una ben diversa motivazione autonoma e personale: sul punto esiste una condivisibile doppia valutazione dei giudici di merito che hanno chiaramente giustificato in termini logici e ragionevoli l’obiettivo finale del favorire l’associazione mafiosa "Pillera-Puntina".

Il ricorso dello Zi. va quindi rigettato.

Pertanto ed in conclusione, tutti i ricorsi (escluso quello del P.) risultano infondati, attesa la verificata tenuta logica e coerenza strutturale del provvedimento impugnato, e le parti proponenti vanno condannate ex art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.

Annulla nei confronti di P.S. la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Catania. Rigetta gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti interessati al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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