T.A.R. Lombardia Milano Sez. III, Sent., 06-04-2011, n. 909 Atti amministrativi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il presente giudizio verte nuovamente sulla definizione delle aliquote di integrazione per la c.d. impresa elettrica minore, vale a dire di quelle somme che dovrebbero servire a conservare l’equilibrio economico delle imprese elettriche rimaste operanti anche dopo la introduzione della tariffa unica. La società ricorrenti (di seguito le "Imprese") sono, infatti, imprese elettriche minori che producono e distribuiscono energia elettrica a prezzi "amministrati" fissati dall’Autorità Amministrativa in misura inferiore ai costi di esercizio; tale svantaggio comporta, a favore delle dette imprese, la erogazione di integrazioni economiche a carico di un apposito Fondo di compensazione per l’unificazione delle tariffe elettriche, gestito dalla Cassa Conguaglio per il Settore Elettrico (di seguito "CCSE’), tenuto conto dei criteri previamente fissati dall’Autorità.

1.1. In ordine alle integrazioni tariffarie dovute alle imprese elettriche minori per gli anni 1991 e seguenti, ai sensi dell’articolo 7 comma 3 della legge n. 10/91, il CIP avrebbe dovuto stabilire (dal 91 in poi) per ogni annualità l’acconto per l’anno in corso ed il conguaglio per l’anno precedente, sulla base dell’ultimo bilancio; tali attribuzioni sono state nel prosieguo rimesse prima alla competenza del Ministero dell’Industria (il quale intervenne con decreto 19.11.1996, poi parzialmente annullato con sentenza T.A.R. Lazio 14.4.1998 n. 841) e, successivamente, a quella della istituita Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas (di seguito, "Autorità" o "AEEG"). La CCSE svolge gli accertamenti e le valutazioni tecniche necessarie per la determinazione delle aliquote di integrazione tariffaria, in particolare rilevando lo scostamento tra i costi sostenuti ed i ricavi tariffari conseguiti dalle imprese.

1.2. A causa dei notevoli ritardi che hanno impedito il regolare adempimento di legge, le imprese interessate sono state destinatarie, a partire dal 1996, di vari provvedimenti preordinati a definire "ora per allora" le aliquote di integrazione; questi ultimi sono stati sovente contestati in sede giurisdizionale da cui sono scaturiti diversi giudicati di annullamento (cfr. sul punto, le sentenze: Tar Lazio 841/98; Tar Lombardia n. 590/2000, 2415/04, 296/2008, 83/09; Consiglio di Stato 339/04, 6203/2005, 6202/2005).

1.3. Il ricorso oggi in discussione è stato proposto per l’annullamento delle delibere AEEG n. ARG/elt/73/09 e n. ARG/elt/97/09, aventi ad oggetto la determinazione delle aliquote definitive di integrazione tariffaria relative agli anni dal 1999 al 2006 per le imprese elettriche minori ricorrenti non trasferite all’E. S.p.A.; della deliberazione AEEG n. ARG/elt 169/09 avente ad oggetto la determinazione delle aliquote per l’anno 2007; della deliberazione AEEG n. ARG/elt 84/10 relativa alla determinazione delle aliquote per l’anno 2008; delle successive determinazioni con le quali la CCSE, in pretesa applicazione delle precitate deliberazioni dell’Autorità, ha avviato attraverso una trattenuta del 30% dell’acconto bimestrale di integrazione tariffaria spettante in base all’ultima aliquota fissata una forma di recupero del supposto debito scaturente dalla differenza tra quanto sinora erogato in base ai precedenti acconti e quanto risultante con l’adozione delle nuove aliquote.

1.4. Si sono costituiti in giudizio l’AEEG e la CCSE, chiedendo il rigetto del ricorso.

Sul contraddittorio così istauratosi, la causa è stata discussa e decisa con sentenza definitiva all’odierna udienza del 15 dicembre 2010.

Veniamo ora all’esame puntuale dei motivi di ricorso.

2. Con un primo ordine di censure relative allo svolgimento del contraddittorio procedimentale, le Imprese lamentano che l’Autorità e, per essa, la CCSE avrebbe seguito un percorso solo apparentemente trasparente e partecipato solo per le istruttorie degli anni 2005 e 2006. Per le istruttorie riferite al periodo 19992004, la CCSE avrebbe invece sostanzialmente precluso la partecipazione alle interessate, che si sarebbero viste comunicare direttamente i dati economici con la nota dell’11 febbraio 2009, rispetto alla quale non vi era più alcuno spazio di reale interlocuzione, perché la CCSE aveva già provveduto a trasmettere le proposte all’Autorità senza allegare i contributi forniti dalle ricorrenti. Inoltre, quest’ultima avrebbe fondato le proprie pronunzie sulle comunicazioni della CCSE del 6 febbraio 2009, in realtà mai conosciute dalle ricorrenti. L’Autorità non si sarebbe neppure premurata di osservare il rubricato art. 16, secondo cui "l’Autorità comunica con anticipo di almeno quindici giorni e tenuto conto del termine di conclusione del procedimento le risultanze istruttorie e la data di conclusione del procedimento medesimo".

2.1. Tali doglianze non possono trovare accoglimento. Non è certo qui in discussione il principio giurisprudenziale, più volte fatto proprio anche da questa Sezione, secondo cui, ai procedimenti regolatori condotti dalle Autorità indipendenti, non si applicano le generali regole dell’azione amministrativa che escludono dall’ambito di applicazione delle norme sulla partecipazione l’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi ed amministrativi generali (Consiglio Stato, sez. VI, 11 aprile 2006 n. 2007); ciò dal momento che, nei settori regolati dalle Autorità, in assenza di un sistema completo e preciso di regole di comportamento con obblighi e divieti fissati dal legislatore, come affermato in dottrina, la caduta del valore della legalità sostanziale deve essere compensata, almeno in parte, con un rafforzamento della legalità procedurale, sottoforma di garanzie del contraddittorio (Consiglio Stato, sez. VI, 11 aprile 2006 n. 2007; CDS, sez. VI, 2 marzo 2010 n. 1215; cfr. anche Consiglio Stato, sez. VI, 1 ottobre 2002 n. 5105).

Piuttosto, nel caso che ci occupa, come sottolineato dalla difesa erariale, nelle delibere impugnate l’AEEG richiama ampiamente le comunicazioni prodotte dalla Cassa nelle quali si dà conto di tutta la documentazione fornita dalle Imprese durante i numerosi scambi intercorsi, in ogni fase dell’istruttoria, tra queste e la Cassa. Le stesse Imprese hanno depositato documenti, memorie, e pareri con le quali hanno avuto la possibilità di illustrare il proprio convincimento in ordine alle controverse valutazioni tecniche compiute dalla Cassa. Risultano, altresì, le comunicazioni delle risultanze dell’istruttoria alle Imprese (comunicazione dell’11 febbraio 2009 n. 247, per le aliquote degli anni 1999/2006; del 6 ottobre 2009 per le aliquote 2007; del 26 maggio 2010 per le aliquote 2008; del 15 luglio 2009 e del 6 novembre 2009 per le aliquote 2005, 2006 e 2007, indicate dalla difesa dell’Autorità e non contestate dalle ricorrenti in corso di giudizio). Con riguardo, poi, ai pareri dei professori G. e G., essi risultano trasmessi all’AEEG (nota del 9 febbraio 2009, prot. Autorità n. 6149) unitamente alla valutazione datane dalla CCSE (motivandone la mancata valenza probatoria ai fini della determinazione del capitale).

In definitiva, ritiene il Collegio che le Imprese abbiano avuto piena conoscenza degli atti istruttori, che siano state rispettate le prerogative di interlocuzione, che la base conoscitiva dell’attività di regolazione sia stata arricchita anche dal contributo informativo e valutativo da esse fornito. Deve inoltre rimarcarsi che, se l’attività regolatoria posta in essere senza contraddittorio con i soggetti interessati ovvero senza il rispetto delle forme stabilite dalla stessa Autorità per l’acquisizione degli interessi da ponderare non può che dirsi viziata, diversamente (ed è questa la fattispecie che ricorre) il semplice mancato accoglimento delle prospettazioni avanzate dagli stakeholders, oltre a non richiedere una specifica confutazione per ciascuna di esse, neppure ridonda di per sé in eccesso di potere.

3. Le Imprese denunciano la violazione dei generali principi di buona amministrazione e del principio dell’affidamento, in quando l’Autorità, non solo avrebbe reiterato un regime anacronistico e disallineato rispetto al dato normativo (non provvedendo a stabilire né l’acconto per l’anno in corso, né il conguaglio per l’anno precedente da corrispondere a titolo d’integrazione tariffaria: gli unici due elementi che l’art. 7 della legge n. 10/91 impone), ma sarebbe arrivata addirittura a stabilire che l’ultima tariffa definitiva approvata ora (2009) per allora (2006) debba rappresentare l’acconto salvo conguaglio dell’integrazione tariffaria degli anni 2007 e seguenti: ciò equivarrebbe, per un verso, a reiterare la violazione dell’art. 7, comma 3, e, per altro verso, a violare il successivo comma 4, avendo l’AEEG provveduto ad una modifica degli acconti già erogati o in corso d’erogazione in assenza dei presupposti previsti dalla fattispecie tipica di riferimento (a quest’ultimo riguardo viene precisato che l’art. 7, comma 4, della legge n. 10/91 consente la modifica, in primo luogo, solo in relazione "all’acconto per l’anno in corso rispetto al bilancio dell’anno precedente’" e, in secondo luogo, in presenza di sopravvenute "’variazioni nei costi dei combustibili e/o del personale che modifichino in modo significativo i costi di esercizio per l’anno in corso").

3.1. Ritiene il Collegio che la censura sia infondata per i seguenti motivi. La ritardata adozione del provvedimento di definizione delle aliquote definitive non comporta la consumazione del relativo potere, essendo il termine indicato all’art. 7 non perentorio (come già ritenuto in precedenti pronunce giurisprudenziali). A questo punto, la denunciata "intempestività" dell’AEEG, pur non ridondando nella illegittimità dell’atto, potrebbe al più fondare una tutela risarcitoria ma esclusivamente nella misura in cui si dimostri la concreta sussistenza di un danno risarcibile (nella specie, non si prospetta il concreto pregiudizio subito; al contrario, all’esito della approvazione delle aliquote definitive, sembrerebbe essere piuttosto emerso una sovra estimazione dell’acconto originariamente versato dalla Cassa).

4. Con ulteriore censura, le Imprese denunciano l’illegittimità dell’introduzione "ora per allora" del nuovo criterio con il quale è stata rettificata la scheda di conto economico con lo storno di un importo riferibile agli interessi di mora, determinati d’ufficio per gli anni 1999 – 2005 secondo le modalità previste dalla delibera AEEG n. 200/99 relativamente ai crediti vantati nei confronti della S. s.p.a. (società capogruppo delle ricorrenti). In particolare, tale operazione istruttoria si rivelerebbe illegittima siccome applicativa di un nuovo ed inopinato criterio che, viceversa, avrebbe dovuto essere predeterminato rispetto agli stessi anni di riferimento. Al fine di dimostrare la fondatezza della censura sollevata, viene ricordata l’analoga vicenda nell’ambito delle istruttorie svolte per gli anni 19911998 e riferita alla inopinata introduzione del criterio del disconoscimento degli ammortamenti anticipati sulla quale il Consiglio di Stato, tra le altre, con decisione n. 6202/05, nell’accogliere l’appello delle imprese interessate, aveva riconosciuto che tali operazioni "non si rivelano ragionevoli nel momento in cui ridefiniscono, ora per allora, criteri per il riconoscimento, in via definitiva, di costi già determinati a priori e resi noti alle imprese, che su di essi avevano fatto affidamento anche nel corso dello svolgimento dei numerosi giudizi svoltisi, che non annullavano gli atti di fissazione delle aliquote definitive in precedenza intervenuti, con riguardo a tali criteri istruttori". Con i primi motivi aggiunti, le Imprese reiterano la medesima censura.

4.1. Il fondamento del disposto regolatorio in commento è bene esemplificato dalla difesa erariale: come emerge dalla nota del 19 luglio 2010 (prot. Autorità n. 26032 del 19 luglio 2010) trasmessa all’AEEG dalla Cassa, l’operazione in questione si sarebbe resa necessaria a fronte della esistenza di notevoli partite economiche non pagate alle società elettriche controllate da parte di S. s.p.a. per le forniture di energia elettrica; a fronte dei crediti evidenziati, sarebbe stato accertato che le imprese creditrici non applicavano interessi moratori, pur essendo tenute a farlo in virtù della delibera n. 200/99 (disciplina che troverebbe applicazione in qualsiasi rapporto di fornitura di energia elettrica, a prescindere dalla esistenza di eventuali relazioni di controllo fra esercente e cliente). Diversamente opinando, si sarebbe fatto pesare sui consumatori il maggior costo determinato dall’aumento dell’aliquota dell’integrazione tariffaria dovuta alle ricorrenti correlato al maggior indebitamento necessario a sostenere più alti costi di erogazione del servizio.

4.2. E’ inammissibile la deduzione delle Imprese secondo cui non sarebbe affatto automatico l’effetto per cui la remunerazione diminuirebbe conteggiando gli interessi di mora, poiché ci si troverebbe di fronte a due effetti esattamente antitetici, di cui andrebbe valutata analiticamente la portata (in particolare, si sostiene che aggiungere gli interessi di mora comporterebbe un incremento del patrimonio netto con un duplice effetto: da un lato, il tasso r di remunerazione di cui alla delibera n. 132/00 diminuirebbe, in quanto diminuirebbe il valore del rapporto D/E – indebitamento/patrimonio netto, dall’altro, però, il tasso r andrebbe moltiplicato per un importo di patrimonio netto aumentato per via degli interessi di mora). Tale affermazione non è, difatti, seguita da alcuna esemplificazione idonea a rendere evidente come dall’obbligo di computare gli interessi di mora, in virtù della formula matematica, non potrebbero mai conseguire benefici per il sistema dell’integrazione tariffaria.

4.3. Una volta legata la motivazione dello storno alla circostanza che tali crediti non producendo alcun addebito per interessi moratori, generano un aggravio dell’onere ricadente sul sistema elettrico in generale, osserva il Collegio come non sussista, poi, alcuna violazione del principio dell’affidamento. La Sezione ha più volte affermato che il dovere della p.a. di operare in modo chiaro e lineare e di rispettare le situazioni consolidate di legittimo affidamento costituisce principio dell’azione amministrativa le cui radici si fanno sempre più robuste. La tutela pubblicistica dell’affidamento, si è ritenuto, ben può realizzarsi anche al di fuori della valutazione che si compie in ordine all’annullamento d’ufficio (nel cui ambito tradizionalmente è stata attribuita rilevanza all’affidamento suscitato nel cittadino dal comportamento dell’amministrazione che, avendo emanato un provvedimento illegittimo, non lo ritira tempestivamente), ovvero quale posizione soggettiva autonoma dotata di diretta protezione da parte dell’ordinamento. L’affidamento suscettibile di applicazione anche nel diritto pubblico, in questo senso, è quello che si collega all’obbligo di buona fede oggettiva quale regola di condotta che, seppure riconosciuta espressamente nelle sole disposizioni del codice civile, conforma senza dubbio l’assiologia dell’ordinamento generale. L’affidamento è qui l’aspettativa di coerenza dell’amministrazione con il proprio precedente comportamento, la quale è fonte di un obbligo, per l’amministrazione, di comportarsi secondo buona fede tenendo in adeguata considerazione l’interesse dell’amministrato, la cui protezione non si presenta come il prodotto, accessorio, della cura dell’interesse pubblico, ma come l’oggetto di un’autonoma pretesa, contrapposta all’interesse dell’amministrazione. La verifica giurisdizionale dell’osservanza del principio di buona fede non coincide con quella svolta in termini di eccesso di potere, in quanto l’indagine non avviene secondo il paradigma della logicità e ragionevolezza bensì attiene all’osservanza di una norma (quella di buona fede e correttezza) che si rivolge all’amministrazione nel rapporto (o meglio nella relazione) con il cittadino.

Nel nostro caso, lo storno operato dall’AEEG è applicativo di un criterio predeterminato rispetto agli stessi anni di riferimento, in quanto operato secondo le modalità previste dalla preesistente delibera AEEG n. 200/99; il che conferma il carattere obiettivo e razionale dei parametri di riconoscimento dei costi svantaggiati.

4.4. Il disposto regolatorio in commento costituisce applicazione della citata delibera n. 200/99, il cui ambito generale investe anche le imprese elettriche minori non trasferite all’ENEL e ammesse all’integrazione tariffaria. Il fatto che esso stabilisca la facoltà e non l’obbligo per la singola impresa di applicare gli interessi di mora è coerente con la considerazione che trattasi di un onere (come tale facoltativo) per l’impresa che voglia giovarsi della quota di integrazione corrispondente alla componente di patrimonio netto relativa ai crediti vero terzi.

5. Con altro ordine di censure "sostanziali", le Imprese lamentano che la deliberazione impugnata reitererebbe il vizio già rilevato (dalla giurisprudenza pregressa) con riguardo alle aliquote riferite agli anni 19911998, dal momento che, ancora una volta è da ritenere che l’Autorità abbia determinato l’integrazione tariffaria, decurtando del tutto arbitrariamente la misura del capitale sociale di ciascuna delle società ricorrenti. In particolare, viene segnalato che nella ricostruzione del patrimonio netto la CCSE, invece di considerare il capitale sociale delle ricorrenti specificatamente computato in lire 1.158.952.000 per SELIS Marettimo, lire 6.551.777.000 per SELIS Lampedusa, lire 907.857.000 per SELIS Linosa e lire 7.348.123.000 per SMEDE Pantelleria, ha indicato nell’ambito del procedimento riferito alle aliquote 19911998 come pure nell’ambito del procedimento riferito alle aliquote 19992006 entità di capitale sociale notevolmente ridotte e prive di qualsivoglia logica e/o concreto riferimento.

5.1. Orbene, l’Autorità ha dovuto stabilire, ora per allora, un meccanismo di calcolo per quantificare l’utile di impresa e rideterminare le integrazioni tariffarie, dirette a remunerare sia le perdite, sia il mancato conseguimento di utile. Ricorda il Collegio che la deliberazione AEEG 26 luglio 2000 n. 132 ha previsto la remunerazione del patrimonio netto delle imprese secondo un tasso ricavabile mediante una apposita formula che si richiama al metodo del Capital Asset Pricing Model – CAPM, praticato nei mercati finanziari per determinare il rendimento richiesto dagli investitori per attività caratterizzate da un determinato livello di rischio (a tal fine, si ipotizza ad ogni singolo investimento l’associazione di un certo rischio; alle imprese minori il livello di rischio pari a quello assunto come riferimento medio per il settore elettrico italiano nell’ambito delle determinazioni tariffarie dell’Autorità). L’entità del patrimonio netto, tra le altre voci, si fonda sul capitale sociale dell’impresa (il quale notoriamente è posto a garanzia dei creditori sociali e va indefettibilmente iscritto nei bilanci annuali) e rappresenta l’elemento pregnante ai fini del calcolo dell’utile di impresa. Difatti, il sistema di calcolo, stabilito con la deliberazione n. 132/00, è fondato sul rapporto tra indebitamento e patrimonio netto dell’impresa; il patrimonio netto assume rilievo sia ai fini della determinazione di detto rapporto (D/E), che costituisce componente della formula, sia perché il tasso di remunerazione (r) deve poi essere applicato proprio sul patrimonio netto.

Tanto premesso, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (in particolare, rilevano le sentenze nn. 6202 e 6203 del 2005: richiamate, per altro, da entrambe le parti del giudizio), dalla quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, il principio della congrua remunerazione del patrimonio netto sancito dalla rammentata delibera 132/2000 deve essere letto in coerenza con le finalità istituzionale della regolazione, date, alla luce dell’articolo 1 della legge n. 481/2005, dall’assicurazione del conseguimento di obiettivi di efficienza del servizio che passano, nella logica della tutela del consumatore finale, attraverso l’adozione di misure di contenimento degli oneri. L’interpretazione teleologica e sistematica del principi di remunerazione del patrimonio osta allora ad un’accezione formalistica che imponga la valorizzazione di incrementi meramente finanziari che non si sostanzino in effettivi apporti di mezzi d’impresa capaci di assicurare gli obiettivi di efficienza gestionale e di miglioramento della qualità del sevizio legislativamente cristallizzati. Ne deriva che il riconoscimento della remunerazione del patrimonio non può tradursi in una indiscriminata remunerazione di esiti di operazioni sul capitale che non si riverberino in effettivi incrementi dei mezzi strumentali allo svolgimento dell’attività nel settore elettrico. Una diversa operazione ermeneutica porterebbe all’irrazionale risultato di incentivare operazioni straordinarie sul capitale che non abbiano altra giustificazione diversa dalla creazione artificiosa del presupposto patrimoniale per godere del beneficio dell’integrazione tariffaria correlata, con una soluzione a tutta prima incompatibile con le finalità legislativa di incentivare e premiare modalità gestionali efficienti capaciti di ridurre gli oneri di produzione a vantaggio dei consumatori finali. In questa prospettiva risulta chiaro che l’aumento del capitale sociale, pur costituendo una garanzia a favore dei terzi, non si sostanzia nel potenziamento della dotazione dei mezzi strumentali necessario ai fini del riconoscimento relativo in sede di integrazione tariffaria. Di qui la legittimità, in linea di principio, del disconoscimento di detti aumenti di capitale derivanti da operazioni di finanza straordinaria con riferito sia all’anno in cui sono stai effettuati che agli anni successivi.

5.2. Sul piano probatorio, va specificato preliminarmente, a fronte dei documenti predisposti dall’organo istruttore (la CCSE) in sede di verifica della consistenza del patrimonio da valutare ai fini dell’integrazione tariffaria, il principio di vicinanza della prova impone alle società interessate la dimostrazione del carattere non meramente finanziario dell’aumento di capitale, ossia della sua utilizzazione, nell’anno iniziale o in quelli successivi, ai fini dell’effettivo incremento dei mezzi d’impresa.

Nella specie, né l’Autorità né la CCSE negano che la determinazione dell’integrazione tariffaria abbia riconosciuto solo parte dei valori del capitale sociale delle società ricorrenti (v. memoria CCSE recante data 15 dicembre 2009). Il motivo della decurtazione viene esemplificato dalla memoria della CCSE nel fatto che "l’incremento dei valori patrimoniali esposti nei bilanci delle società ricorrenti… non corrispondeva ad effettivi apporti o conferimenti di beni, essendo il risultato di una operazione di scorporo delle originarie società, effettuata con il tramite della finanziaria S. nel 1990" (pag. 7 memoria CCSE).

Sennonché, ritiene il Collegio che le Imprese abbiano positivamente comprovato il carattere non meramente finanziario della sottoscrizione tramite le risultanze depositate in giudizio, i cui contenuti non sono stati specificatamente contestati dalla difesa erariale e, pertanto, possono essere posti a fondamento del convincimento del Giudice (art. 64, II comma, c.p.a.). La difesa erariale, infatti, si è limitata a replicare che gli aumenti di capitale sono risultati essere meramente finanziari, in quanto derivanti da operazioni di finanza straordinaria che non avrebbero comportato un effettivo potenziamento della dotazione di mezzi strumentali e che, traducendosi, poi, quest’ultima circostanza (ovvero che le operazioni sul capitale in parola non avrebbero comportato effettivi apporti di mezzi ulteriori) in un accertamento di tipo tecnico non discrezionale, non sarebbe stato necessario motivare ulteriormente le risultanza dell’istruttoria condotta dalla Cassa.

In particolare, è incontestato che la società S. SPA sia nata dalla fusione di due società operative, preposte all’attività di produzione e distribuzione di energia elettrica sulle isole e che fosse, dunque, società operativa e non meramente finanziaria; quest’ultima, fino al 1990, deteneva gli impianti, le centrali, gli strumenti e le attrezzature per lo svolgimento dell’attività di produzione e distribuzione di energia elettrica. Nel 1990, l’Impresa decide di ripartire l’organizzazione dell’attività di produzione e distribuzione di energia elettrica nelle quattro isole tramite la preposizione di quattro nuove società che, costituite inizialmente con capitale sociale minimo, hanno poi deliberato l’aumento di capitale correlativo al conferimento (da parte della originaria società S. che da operativa diventa una holding) in ciascuna di esse del ramo di azienda per la produzione e distribuzione dell’energia elettrica in ogni isola. La consistenza di tali conferimenti è documentata in giudizio tramite la perizia di stima, giurata da un esperto nominato dal Tribunale, che, come è noto, deve per legge accompagnarsi ai conferimenti di beni in natura in una società per azioni (docc. 1013).

Ne consegue, per tabulas, la prova che l’aumento del capitale sociale delle società ricorrenti corrispondeva ad effettivi apporti destinati all’esercizio dell’attività di produzione e distribuzione di energia elettrica per ciascuna isola, tutt’ora nella piena titolarità e disponibilità delle stesse. Il fatto che si trattasse di beni preesistenti nel patrimonio della società S. non si vede come possa comportare che siffatto patrimonio (pur così ripartito tra le nuove quattro società e la cui composizione abbiamo visto essere senza dubbio di natura industriale e non meramente finanziaria), venga escluso dalla base di calcolo per la determinazione dell’integrazione tariffaria, invece di essere remunerato proporzionalmente ai cespiti ricevuti da ciascuna singola impresa. D’altra parte, come giustamente osservano le ricorrenti, se S. avesse continuato a conservare l’attività di produzione e distribuzione dell’energia elettrica in tutte e quattro le isole, il valore del patrimonio netto di questa, nelle sue componenti funzionali alla produzione industriale, sarebbe stato remunerato (circostanza quest’ultima non specificatamente contestata dall’Autorità).

6. Denuncia, altresì, l’Impresa che la CCSE avrebbe illegittimamente negato la c.d. patrimonializzazione degli utili riconosciuti "ora per allora". Sebbene la deliberazione n. 132/00 avesse prescritto che "D/E è il rapporto tra indebitamento e patrimonio netto dell’impresa, ricalcolato per ciascun anno a partire dal 1991, considerando tra le poste del patrimonio netto gli utili che sarebbero derivati applicando le aliquote definitive di integrazione tariffaria relative all’anno precedente a quello di riferimento”, la metodologia seguita dalla Cassa è stata, invece, quella di ragionare in via, per così dire, statica e non dinamica; nel senso di considerare l’utile calcolato per ciascun anno solo ai fini della fissazione della relativa aliquota annuale, senza tenerne conto ai fini della individuazione del patrimonio netto dell’anno successivo e così via per i successivi ancora.

Sul punto, in ragione dell’acclarato ritardo nella liquidazione degli utili "ora per allora" e dell’affermato riconoscimento che "detto ritardo non può ridondare ai danni delle società interessate" (così Cons. St. n. 6203/05), viene introdotta una generica domanda risarcitoria, con riserva di separata o successiva quantificazione del danno in concreto patito, perché, ove non venisse applicato il principio del consolidamento nel patrimonio netto della quota di utile individuata "ora per allora" e "anno per anno" quale unica soluzione amministrativa (confermata in sede giurisdizionale) per far fronte al rilevato ritardo, l’impresa interessata avrebbe diritto ad essere risarcita del danno subito per tale ritardo per effetto del quale non è stato possibile impiegare proficuamente le quote di utile che, secondo il fisiologico schema normativo di cui all’art. 7 della legge n. 10/91, avrebbero dovuto essere erogate in linea con la gestione annuale economico/finanziaria dell’impresa imposta dall’ordinamento. In altre parole, se (come fatto con le deliberazioni impugnate) la quota di utile riconosciuta soltanto ora per un determinato esercizio risalente a molti anni or sono, non venisse imputata a patrimonio netto dell’anno successivo e così via per gli anni seguenti, si dovrebbe ritenere che l’impresa abbia diritto ad essere risarcita del danno subito dalla ritardata liquidazione ed erogazione della quota di utile.

6.1. La pretesa della società ricorrente di tener conto ai fini del calcolo del patrimonio netto, di tutti gli utili che sarebbero derivati dall’applicazione delle aliquote di integrazione tariffaria è stata già affrontata, con esito di rigetto, dalla giurisprudenza sia di questo Tribunale (sentenza n. 5357/2007 e n. 81/06) che del Consiglio di Stato (sentenze n. 512/07 e n. 233/2007).

Secondo la società ricorrente, ai fini del calcolo del patrimonio netto dell’azienda, si sarebbe dovuto tenere conto di tutti gli utili che sarebbero derivati con l’applicazione delle aliquote di integrazione tariffaria, sommati tra loro anno per anno. L’Autorità ha, invece, applicato la formula, includendo nel patrimonio netto "gli utili che sarebbero derivati applicando le aliquote definitive di integrazione tariffaria relative all’anno precedente a quello di riferimento", mentre le ricorrenti pretendono l’inclusione di tutti gli utili, relativi alle diverse annualità precedenti.

In primo luogo, va sottolineato che la soluzione adottata dall’Autorità corrisponde alla dizione letterale contenuta nella delibera dell’autorità n. 132/00; tale delibera ha infatti stabilito che tra le poste del patrimonio netto dell’impresa vengano computati anche "gli utili che sarebbero derivati applicando le aliquote definitive di integrazione tariffaria relative all’anno precedente a quello di riferimento".

Il riferimento alla (singola) annualità, poi, è del tutto coerente con la nozione di utile quale differenza tra ricavi e perdite considerata in un singolo periodo temporale, che ai fini della ricostruzione del patrimonio di un’azienda non può che quantificarsi nell’anno. Ne segue che, a tale scopo, per ciascun anno occorrerà considerare il solo utile relativo all’anno precedente a quello di riferimento, e non anche la sommatoria degli utili negli altri anni pregressi, atteso che tale sommatoria determinerebbe una moltiplicazione dell’utile annuale per le somme fittiziamente attribuite per il medesimo titolo, in ciascun anno precedente. In astratto, tutti gli utili non distribuiti entrano a far parte del patrimonio netto di un’impresa, ma nel caso di specie non può essere trascurato il fatto che si sta operando fittiziamente "ora per allora" e ciò determina la necessità di introdurre misure compensative, che evitino effetti distorti della formula. Il mancato reinvestimento degli utili è derivato dal ritardo da parte dell’amministrazione nel corrispondere la corretta integrazione tariffaria, ma una volta posto rimedio a tale errore, all’attribuzione di tali utili non può sommarsi un esponenziale aumento del tasso di remunerazione del patrimonio netto, che si avrebbe includendo in tale patrimonio gli utili di tutti gli anni precedenti, e non solo dell’ultimo anno. Utili, per i quali, peraltro, non è certo sapere se sarebbero stati trattenuti in azienda o distribuiti, in tutto o in parte. La tesi della società ricorrente condurrebbe ad una remunerazione plurima in relazione alle medesime entità, con un evidente effetto moltiplicatore nella determinazione dell’integrazione, peraltro sulla base di un principio tendente a disincentivare gli investimenti. Del resto, l’Autorità non si è limitata a riconoscere l’integrazione tariffaria sulla base di un patrimonio netto aumentato dell’utile dell’esercizio dell’anno precedente, ma ha tenuto conto anche delle pregresse perdite ed ha applicato un correttivo (U) al fine di incrementare il valore del patrimonio netto di quelle perdite, che non vi sarebbero state se l’integrazione fosse stata attuata tempestivamente. Ciò conferma la necessità di introdurre misure compensative per adattare il meccanismo di calcolo a specifici casi, in cui a distanza di anni si provvedeva a determinare in via definitiva l’integrazione tariffaria. L’Autorità ha correttamente introdotto alcune misure compensative per adattare il sistema di calcolo dell’integrazione tariffaria alle descritte peculiarità della fattispecie in esame e tra tali misure ha, sempre correttamente, stabilito di includere nel patrimonio netto l’utile di impresa relativo al solo anno precedente a quello di riferimento.

6.2. Deve rigettarsi la correlata domanda risarcitoria.

Quantunque si convenisse circa il fatto che l’acclarato ritardo nella liquidazione degli utili ora per allora non possa ridondare ai danni delle società interessate (così Cons. St. n. 6203/05), si osserva che le Imprese non hanno allegato e provato (come era loro onere ai sensi dell’art. 64 c.p.a.) il concreto danno subito per tale ritardo, risultando insufficiente dedurre semplicemente che per effetto di esso non sarebbe stato possibile impiegare proficuamente le quote di utile che avrebbero dovuto essere erogate secondo il fisiologico schema normativo di cui all’art. 7 della legge n. 10/91. Del pari, non è stato dimostrato che i descritti effetti pregiudizievoli non siano stati per nulla compensati dall’applicazione del sopra citato "correttivo U".

7. Con riguardo alla determinazione dell’integrazione tariffaria per l’anno 2007, come già per gli anni precedenti 19992006, le Imprese deducono (tramite il primo ricorso per motivi aggiunti) che, dall’esame dei bilanci delle società ricorrenti (depositati in atti) si evince che il patrimonio netto di queste ultime, oltre al capitale sociale, alle riserve legali o statutarie o costituite da utili accantonati, e al risultato di esercizio, include, con segno positivo, anche una riserva da rivalutazione, costituita nel 2000 in base alla apposita disposizione normativa in ciascuna società e rimasta invariata da allora nel relativo ammontare. A questo punto, l’inclusione con segno positivo nell’ammontare del patrimonio netto ai fini del calcolo dell’integrazione tariffaria anche delle riserve da rivalutazione discenderebbe dal fatto che tali riserve sono a tutti gli effetti una componente positiva del patrimonio netto. Il patrimonio netto rilevante ai fini dell’integrazione tariffaria include anche le riserve da rivalutazione di cui al bilancio 2008 delle società ricorrenti e ai bilanci precedenti per gli anni oggetto delle deliberazioni già impugnate (19992005). L’omesso computo di tale posta costituirebbe, pertanto, una illegittima riduzione dell’integrazione tariffaria dovuta e costituisce motivo di invalidità delle deliberazioni tanto dell’anno 2007, quanto degli anni precedenti (19992006).

7.1. Il motivo, in quanto formulato per la prima volta con i motivi aggiunti, è inammissibile nella misura in cui, con esso, si tenta di estendere la portata della impugnazione della delibera ARG/elt 73/09 (che ha fissato le aliquote definitive per gli anni 19992006), operata con il ricorso principale, il quale, invece, tace al riguardo.

Il motivo, in ogni caso e per la restante parte, non può essere accolto. Al fine del rigetto, è sufficiente la piana applicazione dei principi giurisprudenziali svolti al punto 3.1. della motivazione. La rivalutazione del patrimonio effettuata sulla base di normative fiscali o di stime fatte da periti, tiene conto del fatto che il valore nominale del patrimonio è teoricamente aumentato nel tempo per effetto della svalutazione ma trattasi di valore solo nominale, in quanto alla riserva di rivalutazione non corrisponde automaticamente né un aumento dei mezzi propri né un aumento del capitale dei terzi.

Non vale replicare, da parte delle società ricorrenti quanto si legge nella Relazione tecnica Allegato n. 1 a prot. AU/00/198, secondo cui nella determinazione delle aliquote di integrazione tariffaria, deve prevedersi "una congrua remunerazione di tutte le modalità di finanziamento del patrimonio netto"; tali modalità di finanziamento, volte ad incrementare l’ammontare del patrimonio, sono espressamente quelle "derivanti da accantonamento di utili non distribuiti e da rivalutazioni derivanti da operazioni di finanza straordinaria" (p. 5). Invero, poiché tali affermazioni si riferiscono specificatamente alle disposizioni date alla Cassa conguaglio per il settore elettrico in materia di istruttorie per la determinazione delle aliquote per gli anni 1991 e seguenti, mentre in questa sede si discute del quadro regolatorio relativo ad un periodo successivo per il quale è ben possibile per l’Autorità determinarsi differentemente (anche alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sopravvenuti), il richiamo operato non vale di per sé a decretarne l’illegittimità per contraddittorietà estrinseca, occorrendo piuttosto dimostrarne l’irragionevolezza.

8. Con l’ultimo motivo, l’Impresa deduce che la CCSE ha prima comunicato il supposto debito scaturente dalla differenza tra quanto sinora erogato in base ai precedenti acconti e quanto risultante con l’adozione delle nuove aliquote e riferito di dover sospendere la erogazione dell’acconto bimestrale di integrazione tariffaria nelle more della "definizione delle procedure di rientro del predetto debito" e poi ha stabilito di procedere al recupero dello stesso debito attraverso la trattenuta del 30% dell’importo di acconto bimestrale spettante in base all’ultima aliquota di cui alla deliberazione n. 84/2010.

Secondo l’Impresa, la paventata sospensione dell’erogazione dell’acconto spettante per il 2° bimestre 2010 in attesa della definizione delle procedure di rientro del preteso, così come la applicata trattenuta del 30% dell’acconto debito risultano illegittime sotto più aspetti. Sotto un primo profilo, viene evidenziato che la proroga al 30 giugno 2010 del blocco dei recuperi disposta dalle deliberazioni ARG/elt 168/09 e n. 84/2010, andava coordinata con la previsione della stessa deliberazione (cfr. art. 3, comma 1) secondo cui le modalità per le restituzioni avrebbero dovuto essere disciplinate con apposito provvedimento dell’Autorità non ancora adottato. Sotto altro aspetto si deduce come, nelle more del presente giudizio, risulti del tutto irragionevole ed iniquo, attuare un recupero in forma di trattenuta dell’acconto spettante a titolo di integrazione tariffaria in mancanza di apposita disciplina.

Si formula, all’uopo, anche una domanda di restituzione delle percentuali di acconto di integrazione tariffaria trattenute dalla CCSE all’illustrato illegittimo titolo.

8.1. La censura è infondata. Come evidenziato dalla difesa erariale, l’Autorità ha più volte sospeso i termini della restituzione degli ingenti debiti accumulati dalle imprese minori, a seguito della determinazione definitiva delle aliquote tariffarie relative agli anni dal 1999. La delibera 84/10 ha fissato il termine ultimo di sospensione della restituzione al 30 giugno 2010, rinviando per le sole modalità di restituzione alla 168/2009. Del tutto ragionevole appare al Collegio, un piano di recupero graduale e a scalare sulle aliquote di integrazione tariffaria, sulla base di trattenute del 30% sulle somme spettanti in acconto, misura che tiene conto che il venir meno integrale dell’acconto spettante alle imprese potrebbe determinare un grave pregiudizio sulla piena operatività dell’esercizio elettrico (per mancanza della liquidità necessaria al sistema). Si osserva, inoltre, che (come previsto nella nota dell’8 luglio 2010 dell’Autorità) la CCSE ha proceduto caso per caso all’adozione di un piano di recupero dando la possibilità a ciascuna Impresa di evidenziare situazioni di difficoltà: le ricorrenti non hanno dato alcun riscontro al piano di recupero proposto dalla CCSE al fine di sottolineare criticità del piano proposto.

Non si comprende, quindi, come l’Impresa possa sostenere che l’ipotesi della restituzione per mezzo della trattenuta sull’acconto sia priva di uno specifico titolo. Al contrario, non si vede quale possa essere la giustificazione giuridica di una ulteriore sospensione o dilatazione del termine di adempimento di una obbligazione restitutoria la cui esigibilità sia divenuta attuale.

9. Le spese di lite sono compensate atteso l’accoglimento soltanto parziale del ricorso.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:

ACCOGLIE parzialmente il ricorso nei termini di cui in motivazione.

COMPENSA integralmente le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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