Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 01-03-2011) 12-04-2011, n. 14732 motivi di ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) M.A. ha proposto ricorso avverso l’ordinanza 13 ottobre 2010 (motivazione depositata l’8 novembre 2010) del Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, che ha rigettato la richiesta di riesame (proposta dal ricorrente e da F.L. non ricorrente nel presente procedimento) dell’ordinanza 20 settembre 2010 del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale che aveva applicato nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere per i delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, artt. 314 e 479 cod. pen..

Il Tribunale ha ricostruito la vicenda in termini analoghi a quelli contenuti nell’ordinanza impugnata e ha ritenuto che esistessero gravi indizi di colpevolezza nei confronti del ricorrente per i reati indicati essendo emerso, nel corso delle indagini svolte, che M., assistente capo in servizio presso il Commissariato della Polizia di Stato di Napoli Secondigliano, si era in più occasioni appropriato (in concorso con altri agenti o ufficiali di polizia giudiziaria: nell’ordinanza vengono indicati S. C., M.D., G.V., F.L., P.M., L.P. e P.R.) di svariati quantitativi di sostanza stupefacente (cocaina) e di somme di danaro sequestrati nel corso di operazioni di polizia giudiziaria dirette al contrasto del traffico illecito di sostanze stupefacenti.

In particolare era emerso, secondo i giudici di merito, che in queste occasioni gli operanti si erano trattenuti una parte di quanto sequestrato redigendo verbali di perquisizione e sequestro ideologicamente falsi e inducendo in errore i superiori che avevano, in buona fede, redatto comunicazioni di reato oggettivamente false.

In particolare in un’occasione (caso D.L.- A.: capi A, A1, A2 e A3) il ricorrente e i suoi colleghi si sarebbero appropriati di circa 500 grammi di cocaina e di euro 4.000,00 in contanti. In altra occasione (caso L.- C.: capi B, B1, B2 e B3) di una dose di cocaina e di Euro 2.750,00 in contanti. In una terza occasione (caso S.- A.: capi C, C1, C2 e C3) di circa venti dosi di cocaina e di circa euro 2.700,00 in contanti.

Le indagini nei confronti degli agenti e ufficiali di p.g. del Commissariato di Secondigliano avevano trovato origine in intercettazioni di colloqui tra presenti in carcere tra D.L. A. e A.G.. Il pubblico ministero – avendo rilevato che i predetti erano verosimilmente in contatto con organizzazioni coinvolte, a livello elevato, in traffici di sostanze stupefacenti e che la polizia giudiziaria non aveva richiesto l’autorizzazione all’intercettazione dei colloqui in carcere – l’aveva disposta d’urgenza con decreto convalidato dal gip e ne aveva affidato l’esecuzione allo stesso Commissariato di Secondigliano.

In questi colloqui, come successivamente accertato, D.L. e A. facevano espresso riferimento alla circostanza che gli operanti si erano appropriati di una parte della droga e del danaro rinvenuto. Le trascrizioni delle conversazioni tra i predetti, eseguite dal medesimo commissariato, erano poi risultate sostanzialmente manomesse (con l’indicazione delle frasi "incomprensibile" o "non inerente" nei punti in cui le conversazioni riguardavano i fatti criminosi attribuiti agli operanti). Il reale contenuto delle conversazioni era poi emerso perchè il pubblico ministero, evidentemente insospettito, aveva disposto la trascrizione delle conversazioni ad opera di un consulente tecnico.

Disposte ulteriori intercettazioni nei confronti degli operanti si traeva conferma della circostanza che l’episodio non era isolato e venivano accertati altri due casi nei quali gli appartenenti al Commissariato avevano agito con le medesime modalità. In particolare, negli altri due casi di cui alle contestazioni già riassunte, conferma dell’appropriazione veniva fornita dagli stessi indagati ai quali droga e danaro erano stati sequestrati. In entrambi questi episodi emergevano anche i rapporti con un confidente ( R. P.) che aveva indicato l’abitazione dove potevano essere rinvenute le cose da sequestrare.

In base a questi accertamenti il Tribunale ha quindi ritenuto che esistesse la richiesta gravità indiziaria in ordine ai reati contestati e che sussistessero altresì esigenze cautelari che potevano essere soddisfatte solo con la più grave misura coercitiva.

2) Contro l’ordinanza indicata ha proposto ricorso, a mezzo del suo difensore, M.A. il quale ha dedotto, con il primo motivo, la violazione degli artt. 127 e 309 c.p.p., comma 8, perchè, malgrado l’espressa richiesta, il Tribunale non aveva disposto perchè il ricorrente venisse sentito personalmente.

Con il secondo motivo si deducono la mancanza di motivazione e il travisamento della prova; si precisa, nel motivo, che le condotte di appropriazione vengono riferite nell’ordinanza a tutti gli appartenenti alla Polizia di Stato che hanno partecipato alle operazioni senza individuare alcuna condotta illecita specificamente riferita a M.. Quanto al contenuto delle intercettazioni effettuate nel caso D.L.- A. nel ricorso si evidenzia che, dalle conversazioni captate, emergerebbe che alcuna sottrazione fosse avvenuta ed inoltre, dall’uso delle espressioni captate, risulterebbe che le persone che partecipavano ai colloqui in carcere erano coscienti di essere intercettate.

Quanto al caso L.- C. si rileva nel ricorso che i giudici sarebbero incorsi in un travisamento della prova perchè alcuna delle condotte descritte dai protagonisti della vicenda – riguardanti l’asserita appropriazione – è attribuibile a M.; inoltre le conversazioni intercettate tra il ricorrente e il confidente R.P. alcun cenno fanno alle illecite condotte contestate a M. ma in esse si richiamano esclusivamente gli interventi da compiere per il contrasto degli illeciti traffici sui quali venivano svolte indagini. E anche l’episodio del bancomat che (sarebbe stato da R. prestato a M. che l’aveva poi utilizzato) alcun aspetto presenta che sia riferibile ai fatti oggetto dell’imputazione. Non esisterebbe poi la telefonata in cui il ricorrente e R., il giorno dopo l’operazione, ne commentano positivamente l’esito.

Con riferimento al terzo caso contestato ( S.- A.) si ribadisce nel ricorso che non esiste alcun indizio individualizzante nei confronti del ricorrente. Di più: si sostiene che, in questo caso, non esisterebbe alcuna prova della sottrazione come il ricorrente aveva dimostrato con i motivi di riesame che approfondivano in termini analitici le dichiarazioni degli interessati sul punto. A queste precise contestazioni il Tribunale non avrebbe fornito alcuna risposta e tanto meno avrebbe indicato i riscontri individualizzanti delle dichiarazioni di accusa di SAGGESE, indagato di reato connesso.

Con il terzo motivo di ricorso si denunzia il vizio di mancanza di motivazione, in merito alle esigenze cautelari, per non avere, il Tribunale, tenuto conto che il ricorrente può godere della sospensione condizionale della pena essendo concedibile l’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, comma 5.

Il ricorrente ha quindi chiesto l’annullamento del provvedimento impugnato allegando copia della memoria depositata nel procedimento di riesame e delle indagini difensive svolte.

3) Il ricorso è infondato e deve conseguentemente essere rigettato.

Come si vedrà di seguito varie censure proposte sono anche inammissibili nel giudizio di legittimità perchè dirette ad una rivalutazione del materiale indiziario diversa da quella compiuta dai giudici di merito.

Esaminando preliminarmente il primo motivo, di natura processuale, se ne deve rilevare la manifesta infondatezza anche per le modalità fuorvianti con le quali è stato proposto. La censura, per come formulata, sembrerebbe infatti voler fare intendere – pur non dicendolo espressamente – che M., pur avendo chiesto di essere sentito personalmente, non fosse stato tradotto o non fosse stato comunque messo in grado di essere sentito come previsto dall’art. 127 cod. proc. pen., commi 3 e 4 La lettura del verbale di udienza smentisce questa ipotesi perchè vi si da atto che M. era presente.

E in questa udienza risulta che il difensore del ricorrente abbia chiesto di essere interrogato; che il Tribunale abbia rigettato la richiesta e che l’indagato abbia rinunciato a rendere dichiarazioni spontanee.

Di tutto ciò non si da atto nel ricorso (dove si omette anche di riferire che M. ha rinunziato a rendere dichiarazioni spontanee) e alcuna specifica censura viene proposta contro il provvedimento del Tribunale di rigetto della richiesta di interrogatorio (non a quella di essere sentito perchè alla possibilità di rendere dichiarazioni spontanee l’indagato ha rinunziato) per cui il motivo deve essere ritenuto inammissibile anche per genericità. 4) Passando all’esame degli altri motivi di ricorso deve anzitutto rilevarsi, come si è già accennato, che gran parte delle censure proposte sono inammissibili.

Avendo il ricorrente proposto alcune censure qualificandole come dirette a denunziare il vizio di "travisamento della prova" occorre preliminarmente verificare che cosa si intenda quando si denunzia questo vizio e quale sia la differenza rispetto al "travisamento del fatto".

Com’è noto l’art. 606, comma 1, lett. e), è stato modificato dalla L. 19 febbraio 2006, n. 46, art. 8, che ha esteso la rilevabilità del vizio di motivazione oltre il testo del provvedimento impugnato con il riferimento ad "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame".

Si può ritenere che il legislatore abbia inteso, con questa innovazione, introdurre nel sindacato di legittimità il vizio di "travisamento del fatto"? L’esame della norma consente di affermare, come primo risultato di questa verifica, che questo non fosse l’intendimento del legislatore quale risulta dalla nuova formulazione della norma. Il vizio, non diversamente da quando risulta dal testo del provvedimento impugnato, deve risultare da altri atti del processo. Risultare non significa che l’altro atto deve essere rivalutato e soprattutto non significa che debba essere rivalutato unitamente agli altri atti acquisiti al processo.

Insomma anche l’esame dell’atto deve rimanere nell’ambito del sindacato di legittimità; non è consentito al giudice di legittimità interpretare l’atto diversamente da quanto compiuto dal giudice di merito (a meno che la valutazione non sia contradditoria o manifestamente illogica) ma soltanto di verificare se il testo dell’atto, di per sè soltanto, sia idoneo ad inficiare il ragionamento del giudice.

Del resto uno stravolgimento così eclatante delle funzioni della Corte di cassazione – tale da ricondurla alle funzioni di terzo grado di merito – non poteva che richiedere una espressa previsione che consentisse al giudice di legittimità di operare anch’egli come "giudice del fatto", non diversamente da quanto già avviene in materia processuale.

L’innovazione legislativa è orientata ad evitare il rischio di una condanna fondata su prove inesistenti o su elementi il cui risultato probatorio è inequivocabilmente e incontestabilmente diverso da quello ritenuto dal giudice di merito. Sono i casi classici della "prova inventata" (il giudice utilizza come prova decisiva le dichiarazioni di un teste che non è mai stato esaminato) o della prova che il giudice interpreta erroneamente (il teste ha detto "nero" e il giudice afferma che ha detto "bianco").

La dottrina ha inquadrato questa patologia nel concetto di "travisamento della prova", concetto ben distinto dal "travisamento del fatto" perchè non richiede una rivalutazione del compendio probatorio ma si limita a prendere atto di una indiscutibile difformità tra decisione, esistenza delle prove e risultato di prova. Ma deve sempre essere rigorosamente osservato il divieto, per il giudice di legittimità, di ricostruire i fatti diversamente da quanto compiuto dal giudice di merito le cui conclusioni fattuali restano dunque immodificabili.

Secondo questa ricostruzione non può la Corte di cassazione, per esempio, ritenere attendibili i testi che il giudice di merito non abbia ritenuto tali; optare per una ricostruzione del fatto diversa e ritenuta più convincente rispetto a quella accolta nelle precedenti fasi del giudizio; sovrapporre le proprie massime di esperienza a quelle (logicamente) ritenute esistenti ed utilizzate nella sentenza impugnata. Insomma il compito di armonizzare e coordinare tra loro gli elementi di prova è un compito che appartiene esclusivamente al giudice di merito.

Può invece il giudice di legittimità, secondo questa ricostruzione anteriore all’innovazione legislativa, compiere un’operazione del tutto neutra e non valutativa consistente nella verifica se un fatto, affermato esistente dal giudice di merito, sia invece pacificamente inesistente o se un risultato di prova indiscutibilmente errato;

potrà quindi, se investito da specifica censura, verificare non solo che il riferimento alla deposizione di un teste che avrebbe detto "nero" è in contrasto con le dichiarazioni da lui rese avendo il teste incontestabilmente detto "bianco"; che un fatto pacificamente avvenuto di giorno sia stato affermato come avvenuto di notte.

In questi, e negli altri innumerevoli esempi che potrebbero farsi, la Corte di cassazione non si attribuisce compiti che esulano dalle sue funzioni perchè costituisce pur sempre un vizio di legittimità verificare – in assenza di elementi di controvertibilità del fatto – se il giudice di merito abbia (non interpretato ma) fotografato correttamente la realtà processuale non nel senso di una sua ricostruzione ma nel senso nell’individuazione ed esame del singolo atto al fine di verificarne, avalutativamente, la corrispondenza con quanto affermato in sentenza.

E si tratta di una funzione di legittimità perchè il giudice non si immerge nel contesto processuale come fa il giudice di merito ma si limita ad individuare il vizio; come è stato affermato in dottrina "nel travisamento del fatto il giudice di legittimità deve conoscere il contesto processuale, laddove nel travisamento della prova deve conoscere solo l’atto che veicola la prova".

La nuova disciplina prevista dalla L. n. 46 del 2006 ha avuto l’effetto di riportare nell’ambito del vizio di motivazione anche il cd. "travisamento della prova" nei casi in cui, dal solo esame dell’atto specificamente indicato, emerga il vizio di motivazione che ovviamente deve avere carattere di decisività (in questo senso già subito dopo l’entrata in vigore della legge si è espresso, in più occasioni, il giudice di legittimità: v. Cass., sez. 1^, 14 luglio 2006 n. 25117, Stojanovic, rv. 234167; sez. 2^, 24 maggio 2006 n. 19850, Saraceno, rv. 234163; sez. 4^, 28 aprile 2006 n. 20245, Francia, rv. 234099; sez. 2^, 23 marzo 2006 n. 13994, Napoli, rv.

233460.

Più recentemente questo orientamento è stato confermato da numerose decisioni tra le quali possono indicarsi Cass., sez. 3^, 18 giugno 2009 n. 39729, Belluccia, rv. 244623; sez. 4^, 12 febbraio 2008 n. 15556, Trivisonno, rv. 239533; sez. 2^, 17 ottobre 2007 n. 38915, Donno, rv. 237994).

Sarebbe però riduttivo ridurre l’ambito dell’innovazione contenuta nella novella legislativa sul vizio di motivazione alla conferma normativa della possibilità di dedurre, in sede di legittimità, il vizio di travisamento della prova dovendosi riconoscere che l’innovazione si riferisce anche a casi diversi quale quello in cui il semplice esame dell’atto (non la sua interpretazione e tanto meno il suo esame all’interno del compendio probatorio acquisito al processo) sia idoneo a dimostrare l’esistenza del vizio.

Come è stato affermato gli atti devono essere "autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contradditoria la motivazione" (in questo senso Cass., sez. 6^, 24 marzo 2006 n. 14054, Strazzanti, rv. 233454).

Si deve dunque trattare di un atto che, qualunque sia la sua natura, abbia un contenuto da solo idoneo a porre in discussione la congruenza logica delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito. E il vizio in questione può risultare anche nel caso di omesso esame di un elemento di prova decisivo pacificamente acquisito agli atti del processo (è il caso esaminato da Cass., sez. 1^, 14 luglio 2006 n. 25117, Stojanovic, rv. 234167).

Può in conclusione affermarsi che la corte di cassazione -investita di un ricorso che indichi in modo specifico come il giudice di merito abbia (non erroneamente interpretato ma) indiscutibilmente travisato una prova decisiva acquisita al processo ovvero omesso di considerare circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati – possa, negli stretti limiti della censura dedotta, verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto ovvero verificare l’esistenza della decisiva difformità; fermo restando il divieto, per il giudice di legittimità, di operare una diversa ricostruzione del fatto quando si tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco.

V) Alla luce dei principi in precedenza enunciati è da ritenere che le censure proposte sotto il profilo indicato non possano inquadrarsi nel concetto di travisamento della prova ma in quello del travisamento del fatto.

Ciò riguarda in particolare:

– l’interpretazione delle conversazioni intercettate nel caso D. L.- A. ed in particolare la pretesa del ricorrente secondo cui il contenuto dei colloqui non sarebbe idoneo a dimostrare l’esistenza delle appropriazioni e l’affermazione che, dall’uso delle espressioni captate, risulterebbe che le persone che partecipavano ai colloqui in carcere erano coscienti di essere intercettate;

l’interpretazione delle conversazioni intercettate riferibili agli altri due casi oggetto del procedimento dalle quali non emergerebbero, secondo il ricorrente, le appropriazioni contestate mentre risulterebbe confermato che i rapporti tra il ricorrente e il confidente R. erano del tutto leciti.

Come appare evidente dalla sola enunciazione delle censure le doglianze sono esplicitamente dirette ad una rivalutazione del quadro indiziario laddove l’ordinanza impugnata ha analiticamente riportato il testo delle conversazioni e ha fornito un’interpretazione dei colloqui captati ampiamente motivata e senza incorrere in alcuna illogicità. Del resto questa conclusione non è affatto immotivata:

il Tribunale non solo ha riportato amplissimi stralci delle conversazioni ma ha espresso anche un motivato giudizio sul loro contenuto esprimendo la certezza che gli interlocutori intendessero riferirsi alle appropriazioni della droga e del danaro da parte degli operanti.

A conferma di ciò basti evidenziare come l’ordinanza impugnata indichi i brani omessi nella trascrizione "infedele" – che vengono integralmente riportati nei capi d’imputazione A4, A5 e A6 – e il Tribunale evidenzia il contenuto dei colloqui nei quali gli interlocutori D.L.A., D.L.V. e A. G. indicano in modo del tutto esplicito le somme di danaro che si trovavano in casa e quelle, inferiori, che risultano dal verbale di sequestro mentre, con riferimento alla sostanza stupefacente, con linguaggio altrettanto esplicito (si parla di "roba"), che il Tribunale ritiene motivatamente riferibile alla sostanza, gli interlocutori fanno espresso riferimento alla circostanza che anche di parte di questa sostanza gli operanti si erano appropriati.

E’ anche da rilevare che il Tribunale richiama i commenti degli delle persone indicate laddove sottolineano che sarebbe stato meglio per gli indagati se gli agenti "se la fossero presa tutta".

E’ dunque evidente che alcun travisamento della prova possa essere ritenuto esistente per quanto riguarda l’interpretazione delle conversazioni captate e che il ricorrente si limita a riproporre una diversa ricostruzione del contenuto peraltro per alcuni aspetti anche di natura congetturale (sotto il profilo che le persone erano a conoscenza dell’intercettazione delle loro conversazioni: il che peraltro collide con la circostanza che queste conversazioni hanno consentito di estendere le indagini ad altre persone con loro concorrenti nei reati concernenti gli stupefacenti).

6) Analoghe considerazioni possono farsi per quanto riguarda gli altri due casi contestati all’indagato.

In questi due casi, ha osservato il Tribunale, il quadro indiziario è arricchito dalle dichiarazioni delle persone arrestate che hanno confermato l’ipotesi di accusa emergente dalle conversazioni intercettate ribadendo che, anche in questi casi, erano avvenute le illecite condotte contestate agli indagati.

L.P., sentita dal pubblico ministero quale indagata in procedimento connesso, ha infatti confermato le modalità operative degli agenti di polizia e in particolare ha confermato che i poliziotti – che ribadiva essere tutti partecipi dell’illecita attività – si erano appropriati di una dose (la pallina grossa) sequestrando sette dosi (le palline piccole) oltre a parte del danaro. Si badi che queste dichiarazioni trovano puntuale conferma in una conversazione intercettata avvenuta nel corso dell’operazione e nella quale G.V. riferisce a P.M. che nella lavatrice erano state trovate otto confezioni.

La dichiarante ha riconosciuto M., nell’individuazione fotografica effettuata dal p.m., come uno dei poliziotti più attivi nelle attività illegali svolte e le sue dichiarazioni sono state parzialmente (perchè non ha assistito a tutte le fasi della vicenda) confermate dalle dichiarazioni del figlio C.A. (che ha riconosciuto anche M. tra i poliziotti che partecipavano all’operazione) che ha riferito, in aggiunta, che i poliziotti si erano impossessati anche della somma di Euro 200,00 sottraendola ad un acquirente ( D.L.A.) casualmente capitato nell’abitazione della L. durante la perquisizione.

Tutti questi fatti, riferisce l’ordinanza impugnata, sono confermati dal contenuto delle conversazioni intercettate in carcere durante i colloqui tra C.L. (marito della L. nei cui confronti era stata emessa ordinanza di custodia cautelare) e il figlio A.. Il cliente negava invece che i poliziotti gli avessero sottratto 200,00 Euro ma confermava di aver ricevuto da C.A., nell’immediatezza, la notizia che i poliziotti si erano appropriati del danaro.

Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda il caso S. – A..

Anche in questo caso l’operazione nasce dalle notizie comunicate dal confidente R.P. ai poliziotti e dalle conversazioni intercettate, che il Tribunale riproduce nell’ordinanza, emerge in modo inequivocabile l’appropriazione della droga tanto che una parte della medesima viene, il giorno dopo, consegnata a R.P. che ne parla al telefono con il fratello.

La sottrazione della droga e del danaro è confermata altresì dalle dichiarazioni di S.C. ritenuto informato anche nei particolari perchè custodiva la droga essendo incaricato dello spaccio.

In questo caso l’ordinanza riporta anche il contenuto dell’intercettazione ambientale eseguita sull’auto di servizio durante il ritorno in ufficio degli operanti; nel corso di questa conversazione vengono registrati dialoghi che il Tribunale ritiene incensurabilmente come riferibili alla distribuzione del danaro illecitamente trattenuto dai poliziotti.

7) Di natura diversa è la censura del ricorrente che riguarda la personale sua partecipazione alle illecite attività già descritte;

ma, anche in questo caso, si tratta di una censura infondata.

Effettivamente l’ordinanza impugnata si pone il problema preliminare della riferibilità delle condotte a tutti gli indagati; problema peraltro già preso in considerazione dalla Squadra Mobile che aveva svolto le indagini.

In merito a questo aspetto del problema va rilevato che le condotte sono ritenute, dal Tribunale, riferibili a tutti gli indagati e, dal contenuto dell’ordinanza, emerge in modo inequivocabile come tutti gli operanti abbiano partecipato alle illecite attività e che dunque non possa ipotizzarsi che alcuno di essi non ne fosse a conoscenza o fosse soltanto connivente.

L’ordinanza descrive infatti le condotte attribuite agli indagati come da tutti commesse e, in effetti, sembra ritenere neppure ipotizzabile una condotta qualificabile in modo diverso dalla partecipazione in considerazione delle modalità descritte nel provvedimento che coinvolgevano la condotta di tutti gli operanti. In particolare si sottolinea nel provvedimento impugnato:

– che i rilievi fotografici (quantomeno nel caso D.L.) erano stati compiuti in modo da evidenziare i luoghi ma non le cose sequestrate;

– che dalle intercettazioni svolte nel caso D.L. era emerso che i verbalizzanti, a fronte delle proteste della persona indagata che il verbale di sequestro non corrispondeva alla realtà dei fatti, la invitavano a firmare con toni aggressivi e minacciosi dicendo anche che era meglio così e sbattendo le mani sul tavolo;

– che le trascrizioni "infedeli" delle conversazioni intercettate in carcere sono state effettuate da alcuni ( P.M. e F.L.) dei partecipanti alle operazioni di polizia giudiziaria in questione; significativamente le ultime due trascrizioni – svolte presso il commissariato di Secondigliano ma eseguite da persone diverse – sono corrispondenti al contenuto dei colloqui;

– che i poliziotti coinvolti nelle operazioni avevano chiesto al dirigente del commissariato di Secondigliano se fossero state collocate microspie nelle autovetture di servizio in uso.

Esente da alcuna illogicità è dunque la conclusione, contenuta nell’ordinanza impugnata, secondo cui tali modalità non potevano che coinvolgere tutti i partecipi delle operazioni.

Ma l’ordinanza pone in luce altre circostanze di conferma della partecipazione di M. alle illecite attività già descritte ed emerse nel corso delle conversazioni intercettate sulla sua utenza e che, a detta del Tribunale, forniscono un quadro inquietante dei rapporti che il ricorrente teneva con i confidenti ed in particolare con R.P.. In particolare la circostanza che M. utilizzasse il bancomat del confidente evidentemente per prelevare danaro senza che rimanesse alcuna traccia sul destinatario delle somme prelevate.

Così come parimenti inquietanti sono ulteriori fatti emersi nel corso delle indagini o a seguito delle intercettazioni:

– la circostanza che M. informasse i confidenti del giorno e dell’ora degli interventi;

– il fatto che R.P. si lamentasse della scarsa qualità di una sostanza stupefacente con il fratello che lo invitava a rivolgersi a M. per "risolvergli il problema";

la circostanza che M. e R.P. commentassero l’operazione L. affermando che "il servizio era andato bene per entrambi";

– la circostanza che M. invitasse R.P., se fosse stato convocato dagli inquirenti, a dire che era stato più volte a casa dei C. per acquistare droga così aggravando la posizione dei predetti.

Conclusivamente deve affermarsi che anche la censura che riguarda la posizione singola del ricorrente M. sia infondata avendo, il provvedimento impugnato, adeguatamente e logicamente motivato anche sotto questo profilo.

8) Le argomentazioni in precedenza svolte consentono di affermare l’infondatezza delle censure concernenti l’affermazione, da parte del Tribunale del riesame, della gravità indiziaria.

Per quanto concerne l’esistenza delle esigenze cautelari (terzo motivo di ricorso) le censure sono ugualmente infondate; il Tribunale ha motivato sull’esistenza di questo requisito richiamando le considerazioni sul punto svolte dal Giudice per le indagini preliminari; è vero che l’ordinanza non risponde alla richiesta, contenuta nel ricorso, con cui si chiedeva che, ritenuta l’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, si valutasse la possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena secondo quanto previsto dall’art. 275 cod. proc. pen., comma 2 bis.

Ma la richiesta era manifestamente priva di alcuna decisività perchè riferita ad una sola delle ipotesi di reato contestate all’indagato (quella relativa all’appropriazione delle cinque dosi di cocaina: caso L.) dimenticando il ben più grave episodio dell’appropriazione del mezzo chilo di cocaina (caso D.L.) e, soprattutto, le ipotesi di peculato e falso contestate.

8) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell’istituto penitenziario competente perchè provveda a quanto stabilito dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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